L'imputato dà del bugiardo al maresciallo mentre sta testimoniando: è oltraggio?

Affinché non sussista il reato di oltraggio occorre che le espressioni dirette a sindacare l'operato del pubblico ufficiale siano dirette verso i provvedimenti adottati da quest'ultimo e non già nei confronti della sua persona.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, con la sentenza di annullamento con rinvio n. 13414 depositata il 4 aprile 2016. Perdere la calma non conviene. Al centro della vicenda che fa da sfondo alla sentenza in commento vi è un imputato, che dalla lettura della motivazione apprendiamo essere un avvocato, coinvolto in un procedimento penale per resistenza”. In udienza sta deponendo un sottufficiale – probabilmente della p.g. operante, o delegata dal pubblico ministero – evidentemente, l'imputato presente in aula sta ascoltando una versione dei fatti che ritiene non veritiera. E sbotta, dando del bugiardo e del falso al testimone. Processato per oltraggio, viene prosciolto in primo grado perché, senza mettere in dubbio l'offensività delle espressioni incriminate, il maresciallo-persona offesa non poteva considerarsi, in quel momento, pubblico ufficiale ma solamente testimone. Il reato contestato viene, così, riqualificato in quello di ingiuria e, non essendovi querela, l'azione penale è dichiarata improcedibile. La Corte di Appello, impugnante il Procuratore Generale, non muta l'esito assolutorio del giudizio ma lo motiva diversamente. Il maresciallo, mentre è testimone, rimane un pubblico ufficiale il che, in effetti, ci sembra perfettamente condivisibile . Semmai, le espressioni obiettivamente insultanti vengono rilette alla luce della scriminante, anche putativa, dell'esercizio del diritto di difesa. O meglio, di autodifesa. Il Procuratore Generale nemmeno questa volta è soddisfatto e propone ricorso ottenendo l'annullamento della decisione impugnata con rinvio. A volte ritornano la fattispecie di oltraggio. La norma che tutela l'onore e il prestigio del pubblico ufficiale era una vera e propria norma-simbolo”. Quando venne varato il codice penale, è noto, eravamo nel pieno fulgore del regime fascista. Ed è altrettanto risaputo che le gerarchie, militari, paramilitari e persino civili erano un pallino del regime. Ovvio che andassero tutelate. Il prestigio” di chi indossava una divisa o portava dei galloni qualsiasi – ve ne erano per tutti i gusti, oltre i limiti della più fervida immaginazione – andava elevato rispetto al semplice decoro del quisque de populo , e difeso con apposita norma incriminatrice. Il requisito oggettivo per il rilievo penale delle espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale era, innanzitutto, la presenza di costui. Ancora, occorreva che l'insulto fosse rivolto alla persona offesa durante o a causa dell'esercizio delle funzioni. Questa norma è apparsa, in matura età repubblicana, assolutamente desueta e, nel 1999 la si è spazzata via dal codice. Ha fatto di nuovo capolino 10 anni più tardi, a causa di un probabile rigurgito di sensibilità nei confronti della speciale posizione che distingue il pubblico ufficiale dal semplice privato cittadino. Nella versione reloaded cambiano un poco, per evidente necessità di raccordo della norma con i canoni del diritto penale moderno, anche i presupposti del reato. Occorre che l'offensore agisca in luogo pubblico o aperto al pubblico e, a differenza di prima, si può andare esenti da pena se il fatto determinato”, attribuito al pubblico ufficiale, viene dimostrato essere vero o se il destinatario dell'offesa viene condannato proprio per le circostanze che gli si sono ingiuriosamente” addebitate . La Cassazione, nella sentenza che ci interessa, ripesca la giurisprudenza ante-1999, per rilevare che l'oltraggio sussiste se le critiche – che immaginiamo debbano comunque essere poco garbate – riguardano la persona del pubblico ufficiale. Non assume rilevanza penale, invece, l'invettiva che investe il provvedimento posto in essere da colui che esercita una pubblica funzione . Una rilettura extragiuridica. E una chiosa finale. Leggendo la sentenza in commento ci caliamo” nella situazione. E ci concediamo qualche riflessione atecnica. Non è peregrino immaginare che nel corso dei due gradi di giudizio si sia cercato, forse per la delicatezza psicologica del momento in cui l'imputato si lasciava andare a quell'espressione poco urbana, di valorizzare ogni elemento in chiave proscioglitiva. Dire che un maresciallo mentre testimonia perda il suo status di pubblico ufficiale non è condivisibile poiché cozza contro l'oggettività del possesso di quella qualifica. Così come non ha molto senso rintracciare gli estremi della legittima difesa negli impropèri rivolti a un testimone. Al di là del merito dei fatti, su cui ovviamente non entriamo più di tanto, un rilievo si impone su tutti. Il nostro legislatore ha privato di ogni rilievo penale le condotte ingiuriose. Il relativo delitto, infatti, è stato depenalizzato. Se l'offesa all'onore e al decoro non è più reato, davvero non si comprende per quale ragione gli stessi beni giuridici, posseduti da un soggetto dotato di una qualifica speciale, debbano meritare una tutela più intensa. E' una svista del legislatore, quella consistita nel mantenere in vita il redivivo delitto di oltraggio? O il frutto di una precisa scelta? Siamo sicuri che il principio di uguaglianza sia pienamente rispettato? Forse è lecito nutrire qualche dubbio in proposito.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 24 febbraio – 4 aprile 2016, n. 13414 Presidente Citterio – Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. Si procede a carico di T.A., per il reato di cui all'art. 341 bis primo comma cod. pen. perché offendeva l'onore e il prestigio di un pubblico ufficiale proferendo nei confronti del luogotenente Di M.D.S., mentre questi deponeva come teste nell'udienza tenutasi il 15 febbraio 2010 nel procedimento penale a carico dei T. per il reato di resistenza, le frasi è un bugiardo, è un falso . Nella sentenza di primo grado, si dava atto che, pur essendo provata la materialità del fatto, la condotta non poteva ritenersi sussumibile nella fattispecie di cui all'art. 341 bis, comma 1 cod. pen. poiché il Di M., nel momento in cui deponeva come teste dinanzi all'autorità giudiziaria, non poteva ritenersi pubblico ufficiale ma semplicemente teste che deponeva su fatti occasionalmente appresi. II Tribunale perveniva, così, al proscioglimento del T. dal reato ascrittogli perché l'azione penale non poteva essere iniziata per mancanza di querela, dovendo il fatto qualificarsi come reato di cui all'art. 594 cod. pen 2. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Caltanissetta, su appello proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Caltanissetta, ha confermato quella di primo grado dando atto, in motivazione, della qualità di pubblico ufficiale rivestita dal dichiarante nel corso del dibattimento e che le frasi proferite erano di contenuto obiettivamente offensivo. La Corte, cionondimeno, ha ritenuto non provato che le espressioni proferite dal T. potessero considerarsi indirizzate esclusivamente a ledere l'onore e il prestigio dei teste, non essendo ravvisabili gli estremi di un atteggiamento espressivo di volontà ingiuriosa e minacciosa, poiché era ragionevole pensare che il T. avesse agito con atteggiamento meramente difensivo in un luogo in cui, data l'attività di avvocato svolta, era abituato quotidianamente ad operare e che l'espressione era destinata, più che alla persona fisica, all'organo giudicante, nel tentativo di influenzarne il giudizio in proprio favore. Doveva, pertanto ritenersi che l'imputato avesse agito esercitando il proprio diritto di difesa che, in ogni caso, varrebbe, ai sensi dell'art. 51 cod. pen. come scriminante, anche solo putativa, della condotta tenuta. 3. Propone ricorso per cassazione avverso tale decisione il Procuratore generale competente, denunciando vizio di violazione di legge, in relazione all'art. 51 cod. pen. e vizio di motivazione. Il ricorrente deduce che le conclusioni della Corte di merito non si fondano su alcun elemento probatorio circa la convinzione dell'imputato di esercitare un preteso diritto di difesa ché, anzi, numerosi indizi inducono a conclusioni diverse posto che il T., ben avrebbe potuto fa valere le proprie rimostranze attraverso il difensore e senza travalicare in espressioni ingiuriose nei confronti del teste. Rileva che la ritenuta esimente putativa si fonda su un mero stato d'animo soggettivo dell'imputato, laddove, invece, ai fini della sua ricorrenza, questa deve avere il supporto di dati di fatto concreti, tali da giustificare il formarsi dei convincimento della esistenza di una situazione non avente rispondenza nella realtà. Considerato in diritto 1. II ricorso è fondato per la manifesta illogicità delle conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di merito. 2. La sentenza impugnata ha valorizzato un dato, cioè il presunto stato d'animo dei T., irrilevante rispetto al dolo connesso alla consapevolezza del contenuto offensivo delle rimostranze rivolte al teste durante la deposizione, conclusione vieppiù illogica perché inverte la valenza della professione di avvocato esercitata dal T. che, in ragione di tale qualità, era certamente a conoscenza del divieto di esprimere qualsiasi apprezzamento o commento nel corso della deposizione testimoniale per tutti coloro che assistono al dibattimento. 3. Deve, altresì, rilevarsi che ai fini del dedotto esercizio del diritto di difesa, il parametro di valutazione dei legittimo esercizio del diritto è costituito dalla inerenza delle espressioni utilizzate al contenuto della dichiarazione, sì che esse possano essere percepite come un giudizio che investe il contenuto della testimonianza, e non già come un giudizio sulla persona del dichiarante laddove, nel caso in esame, la frase pronunciata dall'imputato si è risolta proprio in un apprezzamento sulla qualità personale del teste, apprezzamento di cui la Corte territoriale ha sottolineato la natura obiettivamente ingiuriosa ed idonea a sminuirne la dignità personale. Univoco è l'indirizzo della Corte di legittimità che esclude la ravvisabilità della scriminante dell'esercizio del diritto di critica in presenza di apprezzamenti diretti non all'atto del pubblico ufficiale sebbene alla sua persona. Si è, infatti, affermato che ai fini della esclusione del reato di oltraggio, di cui all'art. 341 cod. pen., le espressioni con le quali può essere sindacata l'attività del pubblico ufficiale debbono essere immediatamente percepite come un giudizio che investe il provvedimento posto in essere da colui che esercita una pubblica funzione. Allorché, invece, la critica non si ponga in un rapporto di immediatezza con l'operato del pubblico ufficiale ma sia indirizzata alla sua persona, non si verte più nei limiti di un dissenso, con la conseguenza che, se le espressioni usate sono munite di un vigore offensivo e idonee a sminuire la dignità del pubblico ufficiale, deve escludersi la liceità del dissenso stesso Sez. 6, n. 12992 del 23/10/1998, Roccatello, Rv. 213036 . Conclusioni sovrapponibili anche all'esercizio dei diritto di difesa ove le espressioni utilizzate non concernano in modo diretto e immediato, l'oggetto della controversia e non abbiano rilevanza funzionale rispetto alle argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata, risolvendosi in un apprezzamento sulla persona del dichiarante. 4. Consegue l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio, per nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Caltanissetta.