Quid iuris se la vittima è coartata dal terzo non creditore: estorsione od esercizio arbitrario delle proprie ragioni?

Non ricorre il diritto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, bensì quello di estorsione, qualora l’agente, pur esercitando la propria azione intimidatrice per coartare il pagamento di un preteso debito, sia terzo estraneo al rapporto obbligatorio. Qualora l’intervento del terzo estraneo sia stato sollecitato dal preteso creditore, quest’ultimo risponde a titolo di concorso morale nel reato del primo.

Con la sentenza n. 12302 depositata il 23 marzo 2016 la Seconda Sezione del Supremo Consesso Penale ha avuto occasione di confermare il recente orientamento giurisprudenziale relativo all’individuazione del corretto criterio discretivo tra i due reati – spesso in rapporto di alternatività sul piano delle concrete modalità attuative – di estorsione ex art. 629 c.p. ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza o minaccia alle persone ex art. 393 c.p Nel dettaglio, la differenza tra i due deve essere accertata non sul piano della tipicità della fattispecie criminosa in relazione all’elemento oggettivo della modalità violenta o minacciosa della condotta intimidatrice, la cui diversa gravità od intensità è suscettibile di integrare l’uno o l’altro illecito penale in confronto quanto piuttosto, secondo il nuovo indirizzo radicato in seno alla Cassazione, sul piano della colpevolezza in relazione all’elemento psicologico riscontrato in capo all’agente esercizio arbitrario se questi nutre la ragionevole convinzione di vantare una pretesa potenzialmente attivabile avanti l’Autorità Giudiziaria estorsione se il profitto è perseguito dall’autore dell’azione intimidatrice nonostante questi sia consapevole di non averne diritto. E nel solco dell’anzidetta distinzione, la Cassazione pone la premessa per smentire l’integrazione del reato di cui all’art. 393 c.p. qualora, nel caso di specie, la condotta violenta o minacciosa sia stata posta in essere ad opera di un terzo estraneo al rapporto di credito-debito sia l’autore materiale sia il mandante effettivo titolare del rapporto obbligatorio rispondono di estorsione a norma della più afflittiva ipotesi delittuosa normata dall’art. 629 c.p Il Procuratore Generale prende le distanze dalla derubricazione operata dalla Corte d’Appello. Dal momento che il Giudice di Seconda Istanza aveva applicato la riqualificazione del reato di estorsione in quelle meno grave di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in favore di colui che, in qualità di creditore della vittima, si era servito di un terzo per imporre la propria ragione, il Procuratore Generale ricorreva per Cassazione. Con il ricorso questi lamentava l’inesattezza della citata derubricazione in particolare, il mandante, rivolgendo al terzo non titolare di alcuna pretesa giuridica l’invito ad esplicare la condotta intimidatrice sulla vittima, aveva finito per esorbitare dai limiti intenzionali richiesti dall’art. 393 c.p. per l’integrazione del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La premessa concettuale l’individuazione del corretto discrimen tra i due illeciti penali. Nella pronuncia sopra epigrafata, il Supremo Consesso ha colto l’occasione per ricostruire l’evoluzione esegetica avutasi nella giurisprudenza di legittimità circa l’individuazione degli effettivi parametri cui ancorare la distinzione tra le due alternative fattispecie criminose, posto che in concreto non sempre risulta agevole orientarsi con certezza nell’uno o nell’altro senso. A tale riguardo, si deve prendere atto che inizialmente era stata adottata una soluzione oggettivistica, la quale ravvisava il criterio discretivo nell’intensità più o meno gravosa con cui si estrinseca la modalità violenta o minacciosa della condotta dell’agente vi è estorsione ogniqualvolta la condotta si connota per una forza intimidatrice di tale portata da valicare ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, assumendo ex se i caratteri dell’ingiustizia. Contrariamente, per rimanere nell’alveo della tutela arbitraria delle proprie ragioni, è necessario che la condotta violenta o minacciosa si ponga al mero servizio della finalità dell’agente di fare valere il preteso diritto, ponendosi come elemento accidentale rispetto al suo conseguimento, senza degradare in manifestazioni sproporzionate o gratuite di violenza in tali ultimi casi, l’esercizio di un diritto, in sé non ingiusto, diviene tale se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, suscettibili di far sfociare l’azione in mera condotta estorsiva innanzi alla quale non residua in capo alla vittima alcuna possibilità di scelta. Sennonché, attualmente è avallato un diverso percorso interpretativo che intende trasferire la distinzione direttamente sull’ulteriore piano soggettivistico dell’elemento psicologico ciò in ragione dell’evidenza per cui il reato di esercizio arbitrario può dirsi configurato pure in costanza di una condotta intimidatrice particolarmente violenta ne è prova il fatto che pure quest’ultimo delitto, alla stessa stregua dell’estorsione, può essere circostanziato dall’aggravante dell’uso di armi codificata dal nomoteta all’art. 393, comma 3, c.p Tanto considerato, nell’estorsione l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella ragionevole convinzione, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ossia soddisfare un pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto, cioè della sua ingiustizia da ultimo, in tal senso, Cass., Sez. II, n. 46628/2015, rv. 265214 . Il caso concreto quid iuris se la vittima è coartata all’adempimento da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio? Posta la premessa di concetto, venendo alla disamina del caso che qui ci occupa specificamente, qualora in una relazione tra creditore e debitore si frapponga la condotta coercitiva di un terzo estraneo al rapporto obbligatorio, ciò fa sì che venga integrato il reato di estorsione. Infatti, sul sostegno del parametro soggettivistico in precedenza ricordato, chi viene incaricato di ottenere il soddisfacimento della pretesa creditoria rispetto alla quale risulta estraneo agisce nel pieno convincimento che la sua azione non è tutelabile giudizialmente Cass., Sez. II, 25 novembre 2015, cit. . Parimenti, chi, pur essendo effettivo titolare della pretesa creditoria, sollecita altri ad intervenire è per ciò solo perseguibile per il medesimo reato di estorsione, dacché viene ad assumere il ruolo di mandante, rectius concorrente morale. Quest’ultimo non può giovarsi della configurazione dell’autonoma fattispecie criminosa di cui all’art. 393 c.p., poiché questa presuppone un diretto e non mediato intervento da parte del creditore nei confronti della vittima debitrice. Conseguentemente, non può dedurre l’applicabilità di un regime disciplinare e sanzionatorio differenziato e più favorevole rispetto a quello da cui è attinto l’autore materiale. Il creditore, consapevole dell’estraneità dell’incaricato a qualsiasi rapporto di dare/avere, è dunque consapevole della circostanza per cui l’azione del correo non costituisce esercizio arbitrario di un diritto. In quanto ideatore, questi concorre a titolo morale nel delitto di estorsione posto in essere dal terzo estraneo al rapporto obbligatorio.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 15 – 23 marzo 2016, n. 12302 Presidente Gentile – Relatore D’Arrigo Ritenuto in fatto In data 18 marzo 2014 il G.u.p. del Tribunale di Rimini, in esito a giudizio con rito abbreviato, ha condannato Enrico R. e T.F. alla pena di anni due, mesi tre e giorni dieci di reclusione ed Euro 360,00 di multa per i reati di tentata estorsione ai danni di To.Si. e di porto abusivo di armi. Con sentenza del 16 dicembre 2014 la Corte d’appello di Bologna ha parzialmente riformato la decisione di primo grado, assolvendo il R. dal reato contravvenzionale e riqualificando il delitto in esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Per l’effetto, ha rideterminato la pena inflitta al R. in mesi nove e giorni dieci di reclusione e quella inflitta al T. in anni uno e mesi due di reclusione, avendo ritenuto solo per quest’ultimo sussistente l’aggravante di cui all’art. 393, co. 3, cod. pen., prevalente sulle già concesse attenuanti generiche. Avverso la sentenza d’appello propongono ricorso per cassazione il Procuratore generale e, separatamente, i due imputati. Il R. ha poi depositato un ricorso incidentale per resistere all’impugnazione proposta dalla pubblica accusa. In particolare, il Procuratore generale censura la qualificazione giuridica del delitto principale, osservando che non potrebbe neppure astrattamente configurarsi il meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in luogo di quello di estorsione originariamente contestato, in quanto il T. non aveva alcuna pretesa giuridica da far valere nei confronti della vittima e il R. invece effettivamente creditore del To. , avendo invocato l’intervento e-storsivo del T. , ha esorbitato i limiti intenzionali richiesti dall’art. 393 cod. pen I due imputati hanno chiesto in via principale che venga dichiarata l’estinzione del reato per il quale sono stati condannati, essendo intervenuta - in data 26 dicembre 2014 - la remissione di querela da parte del To. . Inoltre, il T. censura, sotto il duplice aspetto dell’erronea applicazione della legge penale e del vizio di motivazione a il giudizio di minusvalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto all’aggravante e alla recidiva che, a suo parere, sarebbe dovuta essere disapplicata b il mancato riconoscimento, in ordine al reato contravvenzionale, dell’ipotesi di lieve entità prevista dall’art. 4, co. 3, legge n. 110/1975. Il R. , invece, si duole a dell’erronea applicazione della legge penale, essendo stato ritenuto sussistente il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni nella forma consumata, anziché tentata b del vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena concretamente inflitta, in misura pari al massimo edittale. Infine, con il ricorso c.d. incidentale , l’imputato contesta l’impugnazione del Procuratore generale, osservando che, stante il principio di responsabilità penale personale, la sua posizione e quella del T. non possono essere accomunate, essendo egli legittimo e incontroverso creditore del To. . Considerato in diritto 1.1 Va esaminata per prima, in ordine logico, la questione della qualificazione giuridica della condotta degli imputati, con particolare riferimento all’alternativa fra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone. 1.2 Com’è noto, per lungo tempo questa Corte è stata dell’avviso che la distinzione fra le due fattispecie criminose fosse anche di carattere oggettivo, nel senso che si ravvisava il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ogni qualvolta la condotta minacciosa che si estrinsecasse in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto. Alla stregua di tale interpretazione, la coartazione dell’altrui volontà, se improntata a caratteri di particolare minacciosità o violenza, assume ex se i caratteri dell’ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva ex plurimis Cass., Sez. 6, 28/10/2010, n. 41365, Rv. 248736 . Ciò in quanto nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale questa pertanto non può consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, in presenza delle quali deve, al contrario, ritenersi che la coartazione dell’altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto ex se ingiusto, configurandosi in tal caso il più grave delitto di estorsione Cass. Sez. 2 27/06/2007, n. 35610, Rv. 237992 Cass. Sez. 1 02/12/2003, n. 10336, Rv. 228156 . Quindi, integra il delitto di estorsione la minaccia di esercitare un diritto che sia realizzata con una tale forza intimidatoria e con tale sistematica pervicacia da risultare incompatibile con il ragionevole intento di far valere il diritto stesso Sez. 2 15/02/2007, n. 14440 Rv. 236457 Sez. 2 01/10/2004, n. 47972 Rv. 230709 . La più recente eco di tale orientamento si trova in Cass., Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014 - dep. 23/07/2014 - Rv. 261291 . 1.3 Più di recente, però, nell’elaborazione di questa Corte ha preso corpo una diversa opinione, che individua il fattore discriminante fra le due fattispecie nell’elemento psicologico. La prima compiuta formulazione del nuovo indirizzo giurisprudenziale può farsi risalire a Cass., Sez. 2, n. 22935 del 29/05/2012 dep. 12/06/2012 - Rv. 253192 , che ha affermato il principio di diritto secondo cui i delitti di cui agli artt. 393 e 629 cod. pen. si distinguono in relazione all’elemento psicologico nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto. Sullo stesso solco si sono poi collocate varie altre recenti pronunce Cass., Sez. 2, n. 705 del 01/10/2013 - dep. 10/01/2014 - Rv. 258071 Cass. Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014 - dep. 31/07/2014 - Rv. 260344 Cass. Sez. 2, n. 46628 del 03/11/2015 - dep. 25/11/2015 - Rv. 265214 . A favore del recente orientamento militano vari argomenti, fra i quali il principale sta in ciò l’elevata intensità o gravità della violenza o della minaccia non può, di per sé, legittimare la qualificazione del fatto ex art. 629 cod. pen., dal momento che il legislatore prevede che pure l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni possa essere - al pari dell’estorsione - aggravato dall’uso di armi. 2.1. Nel caso in esame è certo che il R. fosse davvero creditore del To. dell’importo indicato da entrambi in circa 8.000-8.800 euro. È parimenti certo, costituendo anche oggetto di dichiarazione confessoria, che il T. non aveva alcun rapporto patrimoniale diretto con il To. il suo interesse a che costui saldasse il proprio debito nei confronti del R. dipenderebbe dalla circostanza della quale, però, non vi è alcuna prova che quest’ultimo era a sua volta indebitato con il T. medesimo, ma non era in grado di saldare il debito a causa dell’insolvenza del To. . In sostanza, il T. era ben consapevole di non aver alcun diritto da far valere nei confronti del To. la sua era solo una aspettativa di fatto relativa a un evento che avrebbe potuto favorire in modo indiretto l’adempimento del suo debitore cioè del R. . 2.2 La condotta innanzi descritta integra il reato di tentata estorsione, tanto che ci si allinei al più recente orientamento giurisprudenziale, quanto che si applichino i criteri distintivi facenti capo alle modalità dell’azione e, in particolare, all’intensità della minaccia. In particolare, la derubricazione ritenuta dalla corte territoriale non è giustificata neppure dall’adesione alla tesi - espressamente richiamata nella sentenza impugnata - secondo cui il criterio discretivo fra i reati di cui agli artt. 629 e 393 cod. pen. è rappresentato dalla convinzione, pure se infondata, del reo di esercitare un diritto. Infatti, assume valore dirimente la circostanza che, nella specie, la condotta minacciosa è stata posta in essere non dal R. , preteso creditore del To. , bensì da un terzo - il T. - che pacificamente non vanta alcuna pretesa giuridica da far valere nei della parte offesa. L’autore della condotta materiale, quindi, è terzo estraneo al rapporto obbligatorio. Né può sostenersi, come invece prospettato dalla difesa del R. , che il fatto debba essere diversamente qualificato nei confronti dei due correi, ricorrendo per l’uno il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e per l’altro quello di estorsione. Infatti, R. , avendo invocato, al fine di ottenere la soddisfazione delle proprie ragioni, l’intervento minaccioso o intimidatorio del T. , deve essere considerato mandante di quest’ultimo. 2.3 Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto non ricorre il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, bensì quello di estorsione, qualora l’agente, pur esercitando la propria azione intimidatrice per coartare il pagamento di un preteso debito, sia terzo estraneo al rapporto obbligatorio Cass., Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014 - dep. 31/07/2014 - Rv. 260344 Cass., Sez. 2, n. 46628 del 03/11/2015 - dep. 25/11/2015 - Rv. 265214 . Qualora l’intervento del terzo estraneo sia stato sollecitato dal preteso creditore, quest’ultimo risponde a titolo di concorso morale nel reato del primo estorsione . Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, consistenti nella specie nella riscossione di un credito, presuppone che a porre in essere la condotta volta a coartare la volontà dell’obbligato sia direttamente la sua controparte. Non costituisce, infatti, autonoma fattispecie criminosa il fatto del creditore che invoca l’intervento minaccioso o violento di un terzo per ottenere il forzoso adempimento di un debito. In altri termini, non è possibile qualificare la condotta del creditore ai sensi dell’art. 393 cod. pen. e quella del terzo, intervenuto in suo aiuto, ai sensi dell’art. 629 cod. pen. Il creditore che chiede a un soggetto, che egli sa essere estraneo a ogni rapporto di dare/avere con la vittima, di minacciare quest’ultima o usarle violenza al fine di costringerla all’adempimento, è consapevole della circostanza che l’azione del suo correo non costituisce esercizio, seppure sbagliato, di un diritto. Pertanto, essendone stato l’ideatore, concorre a titolo morale nel delitto di estorsione posto in essere dal terzo estraneo, dovendosi escludere che ricorra la diversa fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone. 3.1. Conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio, previa qualificazione della condotta criminosa di cui al capo A quale tentata estorsione anziché esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Avuto riguardo al diverso regime sanzionatorio e alle differenti aggravanti, il giudice di rinvio dovrà riformulare tutto il giudizio relativo all’individuazione delle aggravanti applicabili al bilanciamento fra le circostanze attenuanti, da un lato, e quelle aggravanti unitamente alla recidiva, dall’altro alla determinazione della pena finale. 3.2 Tale statuizione assorbe, anzitutto, il primo motivo di ricorso, comune ad entrambi gli imputati il delitto di estorsione, a differenza di quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, è perseguibile d’ufficio, sicché l’intervenuta remissione di querela è priva di rilievo. 4. La diversa qualificazione giuridica della condotta assorbe pure il secondo motivo del ricorso proposto dal R. . Una volta qualificato il fatto come estorsione, non ha più rilievo accertare se il diverso reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni fosse stato consumato o meramente tentato. Del pari, dovendosi comunque procedere alla totale revisione del trattamento sanzionatorio, resta assorbita anche la doglianza relativa al preteso vizio di motivazione della precedente statuizione, oramai travolta dal presente annullamento con rinvio. 5.1 Venendo, infine, ai motivi specifici di ricorso proposti dal T. , deve ancora una volta osservarsi che la caducazione della sentenza di appello e la conseguente necessità di riformulare tutto il giudizio relativo alla pena e alle circostanze del nuovo reato, assorbe le censure articolate nei confronti della sentenza annullata, relative al giudizio di minusvalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto all’aggravante e alla recidiva. 5.2 Resta in piedi solamente l’ultimo motivo del ricorso del T. , relativo al reato contravvenzionale, del quale egli invoca che sia riconosciuta l’ipotesi lieve. A sostegno deduce che la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare che fu lo stesso T. a denunciarne spontaneamente il possesso ai Carabinieri e che non vi è prova che l’arma sia stata utilizzata per l’aggressione al To. . Invero, la sentenza impugnata si sottrae alle censure mosse dal ricorrente, contenendo una succinta ma esaustiva motivazione delle ragioni per cui non è stato possibile riconoscere l’attenuante in parola pag. 8, par. XVII . Peraltro, le circostanze che - a dire del T. - la Corte avrebbe omesso di valutare, non sono rilevanti ai fini qui dedotti, in quanto l’attenuante è riferita alla consistenza oggettiva dell’arma impropria, a prescindere dal concreto uso che se ne è fatto e dalla condotta collaborativa del reo. P.Q.M. in accoglimento del ricorso del Procuratore Generale, annulla la sentenza impugnata nei confronti di entrambi gli imputati, limitatamente al reato di cui al capo A che riqualifica ai sensi degli artt. 110, 56, 629 cod. pen., in relazione all’art. 628 capoverso cod. pen., con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna. Quanto ai ricorsi di R.E. e T.F. , dichiara assorbiti i motivi relativi alla valutazione delle circostanze e ai criteri di determinazione della pena e rigetta nel resto, condannando gli imputati ricorrenti al pagamento delle spese processuali.