D.lgs. 231/2001: profitto rilevante e condotte riparatorie secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione ribadisce il carattere dinamico del concetto di profitto di rilevante entità” ai fini dell’applicazione delle misure cautelari ex art. 13, d.lgs. n. 231/2001, aggiungendo per quanto riguarda le condotte riparatorie di cui al successivo art. 17, che la costituzione di un trust non è idonea a dimostrare un’efficace azione diretta al risarcimento del danno e all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11209/16, depositata il 17 marzo. La vicenda. Il gip del Tribunale di Pistoia applicava nei confronti di una s.p.a. la misura cautelare del divieto temporaneo di contrattare con la p.a. in relazione all’imputazione per associazione a delinquere finalizzata al compimento di fatti corruttivi e di turbativa d’asta. La misura era stata sospesa ai sensi dell’art. 49, d.lgs. n. 231/2001 al fine di consentire alla società di porre in essere gli adempimenti previsti dall’art. 17 inibitivi delle sanzioni interdittive. Il mancato compimento degli adempimenti ivi previsti entro il termine di sospensione aveva portato al successivo ripristino della misura cautelare. La vicenda era approdata innanzi alla Corte di Cassazione che, con pronuncia rescindente, rimetteva l’esame della questione al giudice territoriale che revocava l’originaria ordinanza cautelare del gip. Il pm ricorre per la cassazione della sentenza del Tribunale lamentando plurimi profili di illegittimità del provvedimento. Il profitto di rilevante entità. La prima questione che viene proposta all’attenzione del Collegio, riguarda la qualificazione del profitto quale condizione legittimante la sanzione interdittiva ai sensi dell’art. 13, d.lgs. n. 231/2001. La norma si riferisce infatti al profitto di rilevante entità”, concetto di non facile definizione che è stato delineato con chiarezza solo nei più recenti approdi della giurisprudenza Cass. SS.UU. n. 26654/2008 . L’entità del profitto rilevante evoca un concetto dinamico” e non deve dunque essere limitata al mero dato economico-aziendalistico del margine di guadagno ottenuto dalla società, ma deve valorizzare tutti gli elementi che connotano la condotta in termini di vantaggio. Tra gli indicatori a tal fine rilevanti, rientrano ad esempio l’utile potenziale derivante da altri appalti direttamente acquisiti dall’impresa, l’ottenimento della c.d. attestazione SOA necessaria per partecipare ad altre gare pubbliche, l’incremento del merito di credito dell’impresa presso gli istituti bancari e l’aumento del potere contrattuale nei rapporti con i fornitori. Il risarcimento del danno. Il p.m. ricorrente censura inoltre la ritenuta sussistenza delle condotte riparatorie ex art. 17, d.lgs. n. 231/2001, in quanto il Tribunale riteneva che la costituzione di un trust e di un fondo di accantonamento fossero sufficienti a soddisfare le condizioni previste dalla lettera a della norma citata, quale forma idonea a dimostrare un’efficace azione diretta al risarcimento del danno e all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato. Avvallando la censura, la Corte sottolinea come il giudice abbia in tal modo consentito alla società di posticipare il risarcimento del danno all’esito del giudizio penale, contravvenendo alla ratio stessa della disposizione e alla finalità special preventiva che connota il sistema punitivo della responsabilità degli enti da reato. Il d.lgs. n. 231/2001 delinea infatti un sistema sanzionatorio a carattere preventivo che mira a prevenire la commissione di reati attraverso una particolare strutturazione dell’organizzazione societaria. Ne consegue che la mera costituzione di un trust non può essere considerata un adempimento dell’obbligo risarcitorio di cui alla lett. a dell’art. 17 che esige un’anticipazione del risarcimento rispetto all’esito del procedimento penale, oltre all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, presupponendo una determinazione del danno stesso ed un comportamento collaborativo tra le parti contrapposte. Tali condizioni non sono riscontrabili nel caso di specie in cui vi è stata una semplice spedizione di una missiva da parte della società con la quale veniva comunicata ai danneggiati la costituzione del trust . In conclusione, risultando carente la motivazione fornita dal Tribunale in merito ai profili evidenziati, la Corte di Cassazione annulla con rinvio l’ordinanza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Pistoia per un nuovo esame. Fonte www.ilsocietario.it

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 9 febbraio – 17 marzo 2016, n. 11209 Presidente Diotallevi – Relatore Ariolli Ritenuto in fatto 1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pistoia, con provvedimento del 23/10/2012, aveva applicato nei confronti della R.L. s.p.a. d’ora in poi semplicemente Società , la misura cautelare del divieto per sei mesi di contrattare con la Pubblica Amministrazione nelle Regioni Toscana e Liguria. Il provvedimento si inseriva nell’ambito di indagini concernenti una presunta associazione per delinquere, finalizzata al compimento di fatti corruttivi e di turbative d’asta, in vista del conferimento di appalti pubblici nelle zone di riferimento. Erano stati individuati gravi indizi della responsabilità concorrente delle società controllate da una parte degli indagati, con la conseguente adozione, appunto, di cautele concernenti anche gli enti in questione. L’efficacia della misura era stata sospesa, comunque, ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. n. 231/2001, al fine di consentire alla Società l’eventuale ricorso agli adempimenti che, a norma del precedente art. 17, possono inibire l’applicazione delle sanzioni interdittive e dunque comportare la revoca delle corrispondenti misure cautelari . Nondimeno, avendo il Giudice ritenuto alla scadenza del periodo di sospensione che gli indicati adempimenti non fossero stati compiuti, era stato poi disposto, con provvedimento del 30/05/2013, il ripristino della misura cautelare. 1.1. Nelle more, e precisamente in data 22/11/2012, il Tribunale di Pistoia aveva respinto l’appello proposto nell’interesse della Società, con provvedimento che era stato però annullato, da questa Corte Sez. 6^ , con sentenza n. 10904 del 7/03/2013. Valutando e respingendo altri motivi di ricorso, la Corte aveva ritenuto violato il precetto di compiuta motivazione riguardo al compendio indiziario circa i fatti in contestazione il ricorso al rinvio per relationem , nella specie operato con riguardo alla misura coercitiva adottata nei confronti dell’amministratore di fatto della Società, era stato giudicato insufficiente, posto che la difesa dell’ente aveva a sua volta richiamato obiezioni mosse alla misura personale, cui il Giudice della misura reale, riferendosi all’atto precedente, non aveva dato risposta. Il Tribunale di Pistoia, quale giudice del rinvio, aveva questa volta annullato l’ordinanza genetica provvedimento del 15/06/2013 , in forza essenzialmente di rilievi concernenti i criteri di identificazione del profitto di rilevante entità che la Società avrebbe tratto dagli illeciti compiuti. Anche questa decisione, però, era stata cassata con rinvio da questa Corte Sez. 2 , con sentenza n. 51151 del 3/12/2013. Nella specie si era rilevato come, per l’adozione di una misura cautelare interdittiva nei confronti dell’ente, la nozione di profitto di rilevante entità abbia un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto nel primo concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito. Dunque l’identificazione di un profitto di rilevante entità non discende automaticamente dalla considerazione del valore del contratto o del fatturato ottenuto a seguito del reato, sebbene tali importi ne siano, ove rilevanti, importante indizio. Il Tribunale aveva invece raffrontato il profitto di reato al volume di affari e sulla scorta del solo dato numerico aveva escluso che detto profitto fosse di rilevante entità. Lo stesso Tribunale, inoltre, aveva trascurato il tema della reiterazione degli illeciti, da apprezzare anche alla luce delle contestazioni associative mosse agli indagati. 1.2. Occorre ancora dire come anche il provvedimento di ripristino della misura cautelare, assunto dopo la scadenza asseritamente inutile del termine per gli adempimenti di cui all’art. 17 del D.Lgs. n. 231/2001, fosse stato appellato nell’interesse della Società. Con provvedimento del 10/07/2013, il Tribunale di Pistoia aveva annullato l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari. Nondimeno questa Corte Sez. 2^ , con sentenza n. 327/14 del 28/11/2013, su ricorso del Pubblico ministero, aveva cassato il provvedimento favorevole alla Società. Il Tribunale aveva considerato che, data l’impossibilità di determinare l’entità del danno cagionato, il fatto che la Società avesse previsto in bilancio la costituzione di un fondo di accantonamento di Euro 120.000,00, informando dell’operazione gli enti pubblici in ipotesi danneggiati gli unici al momento individuabili , si traducesse in una efficace attivazione al fine di garantire il risarcimento e l’eliminazione delle conseguenze dell’illecito. Nel contempo sempre secondo il Tribunale - la Società aveva adottato procedure e protocolli organizzativi, sulla base dei codici di comportamento e delle linee guida redatte da Confindustria, idonei a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi giudizio non invalidato dal fatto che il nuovo amministratore poteva considerarsi persona vicina a R.G. , presunto responsabile degli illeciti pregressi . Infine, la Società aveva anche messo a disposizione il denaro pertinente ad un futuro provvedimento di confisca, accantonando allo scopo la somma di Euro 108.000,00. Dal canto proprio la Corte di legittimità aveva accolto diversi dei rilievi proposti dal Pubblico ministero ricorrente. In primo luogo si era individuata carenza di motivazione, in termini tali da integrare la violazione di legge, circa l’effettiva funzionalità del modello organizzativo adottato dalla Società, con particolare riguardo alla designazione quale amministratore, in assenza di idonei contrappesi, di persona storicamente legata alla famiglia Rosi, in posizione dirigente nell’ambito di diverse società del gruppo, tutte ancora saldamente controllate dalla medesima famiglia. Un analogo vizio motivazionale era stato riscontrato poi riguardo all’effettivo risarcimento del danno, a prescindere dalla sua determinazione quantitativa, non parendo alla Corte sufficiente la costituzione di un accantonamento a riserva indisponibile, certificata dal collegio sindacale, comunicato agli enti comunali, in qualità di persone danneggiate dal reato, solo trenta giorni prima della scadenza del periodo di sospensione, perché in sintesi, la legge richiederebbe una diretta consegna alle persone danneggiate delle somme costitutive del risarcimento del danno prodotto ovvero con modalità che garantiscano la presa materiale della somma risarcita su iniziativa del danneggiato senza la necessità di una ulteriore collaborazione per la traditio dell’ente risarcente . Inoltre, poiché la disciplina in esame richiede non solo un’azione risarcitoria compiuta, ma anche l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, o comunque una efficace attivazione in tal senso, l’ente interessato sarebbe sempre chiamato ad una determinazione del danno e delle conseguenze non per iniziative unilaterali, ma in virtù di una collaborazione o comunque contatto tra parti contrapposte, tale da doversi ritenere efficace l’essersi adoperato, così come preteso dalla disposizione richiamata . Nel caso di specie - ha proseguito la Corte - la condotta della società era consistita nell’offrire trenta giorni prima della scadenza del tempo di sospensione della misura una somma determinata unilateralmente, senza alcuna possibile interferenza da parte degli enti territoriali danneggiati dalla condotta costitutiva di reato. Ciò tra l’altro era stato attuato nei soli confronti degli enti comunali, senza alcuna attività volta all’individuazione ed alla interlocuzione con i soggetti privati in ipotesi danneggiati attraverso le condotte di turbata libertà degli incanti. La Corte di legittimità, dunque, aveva annullato il provvedimento impugnato, chiamando il Giudice del rinvio alla verifica degli impegni come sopra individuati . 1.3 I giudizio di rinvio conseguente ai suddetti annullamenti della Corte di legittimità veniva a sua volta definito, disposta previamente la riunione dei due procedimenti, dal Tribunale di Pistoia, con provvedimento del 24/03/2014, con cui veniva revocata l’ordinanza genetica del trattamento cautelare, e, per l’effetto, si ometteva di provvedere in merito all’impugnazione dell’ordinanza di ripristino della misura dopo la sospensione disposta a norma dell’art. 49 del D.Lgs. n. 231 del 2001. Va, peraltro, precisato, che la revoca dell’ordinanza di applicazione della misura interdittiva non era disposta per un difetto genetico della misura stessa, quanto piuttosto in applicazione dell’art. 50 del D.Lgs. n. 231 del 2001, e cioè in accoglimento di una istanza difensiva, presentata nel corso dell’udienza camerale, che prospettava una carenza sopravvenuta delle condizioni legittimanti la temporanea interdizione. Ancora una volta questa Corte Sez. 6^ , con sentenza n. 18634/15 del 18/11/2014, su ricorso del Pubblico ministero, aveva cassato il provvedimento favorevole alla Società. In particolare, la Corte di legittimità evidenziava come i Giudici territoriali avessero omesso di pronunciarsi, nella sostanza e in un caso addirittura formalmente, sulle censure mosse ai provvedimenti impugnati, sviando l’oggetto dei relativi giudizi di gravame, e dunque lasciandoli, di fatto, privi di definizione. 1.4. Il successivo giudizio di rinvio si svolgeva sempre dinanzi al medesimo Collegio del Tribunale di Pistoia che nuovamente per la terza volta con provvedimento del 16/07/2015 così statuiva revocava l’ordinanza genetica del Giudice per le indagini preliminari del 23/10/2012, ritenendo insussistente il requisito del profitto di rilevante entità annullava quella del 30/05/2013 mediante la quale il Giudice per le indagini preliminari aveva ripristinato la misura cautelare del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per mesi sei nelle regioni Toscana e Umbria, ritenendo che la società avesse adempiuto alle condizioni previste dall’art. 49 del D.Lgs. n. 231/2001, disponendo la restituzione alla Società della somma di Euro 250.000,00 versata a titolo di cauzione revocava, infine, ai sensi dell’art. 50 del D.Lgs. n. 231/2011, l’ordinanza del 23/10/2012 sul presupposto che non fosse più attuale il pericolo di reiterazione del reato e, dunque, fossero venute meno le condizioni di applicabilità della misura cautelare previste dall’art. 45 del decreto legislativo. 2. Avverso tale ordinanza ricorre il Pubblico ministero, ritenendo il provvedimento impugnato segnato da plurimi vizi di legittimità. Al riguardo, deduce dieci motivi di ricorso 1 la violazione di legge nella parte in cui il Tribunale ha escluso la sussistenza del requisito del profitto di rilevante entità. In particolare, per avere il Collegio erroneamente ritenuto che l’ammontare numerico del profitto, inteso quale utile netto, fosse già di per sé inidoneo a farlo considerare di rilevante entità affermazione peraltro in contrasto con quanto ritenuto dalla Corte di legittimità nella sentenza n. 51151/13 , omettendone la comparazione con l’utile risultante dai bilanci della società. Inoltre, non considerando che la Società - come risultava dall’ulteriore documentazione depositata all’udienza del 24/3/2014 - aveva in realtà incassato somme ulteriori per le gare di appalto in contestazione, anche il solo corretto dato numerico avrebbe consentito al Tribunale di ritenere integrato il profitto di rilevante entità chiesto dal legislatore per l’applicazione della sanzione interdittiva 2 la violazione di legge nella parte in cui il Tribunale ha escluso la sussistenza del requisito del profitto di rilevante entità per mancanza di vantaggi economici ulteriori, omettendo di considerare che, dal fascicolo delle indagini e dalla documentazione prodotta all’udienza del 24/3/2014, emergevano in realtà una molteplicità di elementi specificamente elencati di supporto ad una positiva valutazione 3 la violazione di legge nella parte in cui il Tribunale ha escluso la sussistenza del requisito del profitto di rilevante entità, nonostante la contestazione di un reato associativo e di un’attività stabilmente organizzata e volta alla perpetrazione di reati . Il Tribunale sul punto ha disatteso l’orientamento giurisprudenziale secondo cui può essere ritenuto di rilevante entità il profitto della società per il fatto della sua partecipazione a numerose gare con assegnazione di appalti pubblici avuto riguardo alle caratteristiche ed alle dimensioni dell’azienda Sez. 6^, sentenza n. 44992 del 19/1/2005, Rv. 232623 . Tale orientamento bene si conforma ai fatti oggetto del presente procedimento ove alla Società è contestata l’effettiva partecipazione ad una molteplicità di gare pubbliche con assegnazioni illecite di appalti e al suo amministratore di fatto di avere partecipato ad un’associazione a delinquere dedita alla corruzione ed alla turbata libertà degli incanti. Il Tribunale, invece, ha escluso che il ricorso da parte della Società alla commissione di reati costituisca un modus operandi dell’ente e ciò in virtù del mero rapporto, ritenuto non particolarmente significativo, esistente tra il numero delle gare alle quali la Società ha partecipato in Toscana negli anni 2007-2012 n. 714 e quelle per le quali è risultata aggiudicataria n. 120 4 la violazione di legge per mancanza di motivazione nella parte in cui il Tribunale ha omesso, ai fini della valutazione del profitto di rilevante entità, di pronunciarsi sulla rilevanza degli ulteriori elementi ricavabili dalla successiva richiesta di rinvio a giudizio a carico della Società. In particolare, il Tribunale non ha precisato per quali ragioni le ulteriori contestazioni mosse alla Società di altri episodi di corruzione e turbata libertà degli incanti , anche per altre gare di appalto rispetto a quelle comprese nell’ordinanza genetica del Giudice per le indagini preliminari, nonché dell’illecito amministrativo di cui all’art. 24 ter D.Lgs. n. 231/2001 con riguardo al delitto di cui all’art. 416 cod. pen. , siano o meno rilevanti ai fini della configurabilità del requisito del profitto di rilevante entità 5 la violazione di legge per mancata osservanza del principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione nella sentenza di annullamento con rinvio n. 327/14 e per mancanza di motivazione sugli elementi addotti dal Pubblico ministero in relazione all’adempimento della condizione prevista dall’art. 17 lett. b del D.Lgs n. 231/2001 . Sarebbe illegittima, da parte del Tribunale, la valorizzazione dell’unico adempimento formalmente realizzato dalla Società, e cioè l’adozione di un modello di organizzazione e gestione mirato a prevenire nuovi fatti di corruzione o turbativa d’asta. Le censure sono qui particolarmente analitiche. Con la nota sentenza n. 327/2014 questa Corte aveva espressamente censurato l’apprezzamento espresso dal Tribunale per la designazione di un nuovo amministratore delegato nella persona di un soggetto da sempre orbitante nell’area della famiglia R. , senza una chiara indicazione di misure idonee a prevenirne l’eventuale continuazione degli stili gestionali in contestazione. Nel giudizio di rinvio, la Difesa della Società aveva segnalato la sopravvenuta designazione di un amministratore collegiale, contestuale al passaggio di mano dei pacchetti di controllo. Con memoria scritta il ricorrente aveva posto in rilievo come anche i nuovi amministratori fossero da tempo professionisti di fiducia e in un caso addirittura parenti stretti di R.G. , e che comunque era stata contestualmente conferita una procura generale con amplissimi poteri gestionali in favore di tale P.M. , dirigente della R. e già amministratore prima del già citato Po. segni evidenti, a parere del Pubblico ministero, di una mal dissimulata continuità della gestione sociale. Analoghi rilievi venivano svolti quanto alla donazione delle azioni dal padre al figlio, non foss’altro perché anche quest’ultimo, già componente del precedente consiglio di amministrazione, è sottoposto a giudizio per i reati di corruzione e turbativa d’asta relativamente a tutte le gare in contestazione. Nel contempo, e seguendo le indicazioni della Corte di legittimità, era stato proposto un esame di dettaglio delle norme di prevenzione assunte del modello organizzativo, denunciandone l’assoluta inadeguatezza. Nonostante tutto questo, il Tribunale ha ritenuto significative le misure adottate, in aperta violazione del principio enunciato in fase rescindente, e comunque con motivazione illogica, non consapevole e dunque assente, nonostante le espresse deduzioni dell’odierno ricorrente circa il valore sintomatico delle attività dissimulatorie poste in essere dalla Società 6 la violazione di legge per mancata osservanza del principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione nella sentenza di annullamento con rinvio n. 327/14 e per mancanza di motivazione sugli elementi addotti dal Pubblico ministero in relazione all’adempimento della condizione prevista dall’art. 17 lett. a del D.Lgs n. 231/2001. Il Tribunale ha errato nel ritenere satisfattiva, ai fini del verificarsi di tale condizione, la costituzione di un trust il cui importo veniva individuato unilateralmente in Euro 250.000,00 , la previsione in bilancio di un fondo di accantonamento di Euro 120.000,00 e la comunicazione alle persone offese di tali previsioni. Tali modalità, lungi dal porsi quali attività riparatorie idonee, contrastano con quanto stabilito dalla sentenza n. 327/14 che ha ritenuto insufficiente un semplice accantonamento in bilancio di una riserva indisponibile, inidonea a garantire l’efficacia dei risarcimenti. Inoltre, l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato non può farsi discendere da una determinazione unilaterale dell’ente seguita da una mera comunicazione alle persone danneggiate ma esige, in conformità a quanto stabilito dalla Corte di legittimità nella sentenza richiamata, una determinazione del danno che il Tribunale ha omesso e una collaborazione o comunque un contatto tra le parti contrapposte non ravvisabile nelle missive inoltrate in data 22/04/2013 che non aprivano ad alcuna trattativa o seria interlocuzione . Le misure predisposte dalla Società e ritenute erroneamente satisfattive dal Tribunale si pongono, poi, in contrasto con la stessa ratio del D.Lgs. n. 231 del 2001 che assegna agli obblighi risarcitori una valenza special preventiva e non consente all’ente di adottare forme di posticipazione del risarcimento all’esito del giudizio penale, quale quella della costituzione di un trust, peraltro con somma inadeguata Euro 250.000,00 a far fronte all’integrale risarcimento e a tale riguardo si richiama la nota del comune di Pistoia in data 5.5.2015 con cui in relazione ad una sola gara si stimano i danni patrimoniali in Euro 600.000,00 oltre quelli all’immagine e condizionato, pure, all’irrevocabilità della sentenza penale di condanna 7 la violazione di legge nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto il venir meno delle esigenze cautelari alla luce delle condotte tenute dall’ente ai sensi dell’art. 17 lett. a e b del D.Lgs. n. 231/2001. In particolare, la decisione risulta viziata nella parte in cui il Collegio ha ritenuto di poter ricavare la resipiscenza dell’ente dal fatto di avere predisposto forme di risarcimento già ritenute insufficienti ed inadeguate dalla Corte di legittimità nella specie dalla sentenza n. 327/14 , nonché dalle iniziative di modifica della propria compagine organizzativa, soltanto di carattere apparente, a fronte del periculum di reiterazione delle condotte illecite, posto che la Società continua a partecipare a gare di appalto per l’affidamento di lavori pubblici nel territorio della Toscana e della Liguria 8 la violazione di legge nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto il venir meno delle esigenze cautelari per il radicale mutamento della situazione di fatto, desunto dall’emissione di numerose misure cautelari personali a carico di associati e imprenditori operanti nella provincia di Pistoia, nonostante, invece, la Società continui ad operare, partecipando a gare di appalto e ottenendo lavori pubblici si cita a conferma altra ordinanza del Tribunale di Pistoia - la n. 35/13 confermata dalla Suprema Corte che, per altra società, ha ritenuto comunque sussistente il pericolo di reiterazione nonostante l’ente avesse ottenuto aggiudicazioni per importi inferiori 9 la violazione di legge nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto il venir meno delle esigenze cautelari in ragione del decorso del tempo e del fatto che il ricorso a condotte di corruttela di pubblici ufficiali non costituisca, per la Società, un modus operandi, contrariamente, invece, a quanto risulta dai numerosi elementi, dotati anche di novità ed ulteriore gravità rispetto a quelli apprezzati dal Giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza del 23/10/2012 cfr. memoria depositata all’udienza del 24/3/2014 , di cui il Tribunale ha omesso di tenere conto e/o di motivare in ordine alla loro rilevanza 10 la violazione di legge nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto di revocare la misura interdittiva per non proporzionalità ed inadeguatezza della misura, nonostante l’attualità delle esigenze special preventive. La valutazione di sproporzione e inadeguatezza della misura, laddove fondata, avrebbe dovuto, semmai, comportare, ai sensi dell’art. 50, comma 2, del D.Lgs. n. 231/2001, una modifica o attenuazione della misura e non la sua revoca. 3. Nelle more dell’udienza il Difensore della società ha depositato una memoria ex art. 611 cod. proc. pen., chiedendo il rigetto del ricorso. A titolo di premessa la parte nega il fondamento in fatto di alcune affermazioni contenute nel ricorso, essenzialmente relative alla serietà degli intenti di riparazione della Società interessata. In particolare, il trust di cui sopra si è detto è stato istituito, nominando un trustee ed un guardiano sostanzialmente indipendenti, dotando l’ente di deposito bancario per Euro 250.000,00, comunicando il fatto agli enti conferenti ed alle società concorrenti nelle procedure in contestazione limitatamente alle seconde classificate . Peraltro, osserva come la Suprema Corte, nella sentenza n. 327/14, ritenne adeguata la condotta riparatoria prevista dalla lett. c dell’art. 17 del D.Lgs. n. 231 del 2001, mentre non ritenne satisfattive le condotte ai fini delle lettere a e b , che la Società ha poi successivamente provveduto a realizzare, alla luce proprio delle indicazioni contenute nella suddetta sentenza della Corte di legittimità, con le modalità indicate nella memoria difensiva depositata il 15.7.2015 in sede di discussione avanti al Tribunale per il riesame e ritenute da tale Giudice satisfattive . In conclusione, osserva, quindi, di avere provveduto ad effettuare tutte le condotte riparatorie prescritte dalla legge. Con particolare riguardo, poi, ai motivi di ricorso del Pubblico ministero, ne evidenzia l’inammissibilità innanzitutto per intervenuto giudicato, avendo la Suprema Corte, con la sentenza n. 18634/15, accolto soltanto i primi due motivi del ricorso del Pubblico ministero - relativi alla mancanza di un profitto di rilevante entità ex art. 13 D.Lgs. n. 231 del 2001 e all’omessa definizione del sub procedimento relativo al corretto accertamento delle condotte riparatorie previste dalle lettere a e b dell’art. 17 - dichiarando inammissibili tutti gli altri. Ne deduce, altresì, l’inammissibilità perchè i motivi di ricorso non attengono a violazioni di legge. La parte ricorda come il ricorso per cassazione contro i provvedimenti assunti in sede di appello cautelare sia limitato alla violazione di legge, anche per effetto della specifica indicazione contenuta nell’art. 52 del D.Lgs. n. 231/2001. Evidenzia, nel contempo, come la giurisprudenza delle Sezioni unite penali di questa Corte abbia esteso la rilevanza del vizio di motivazione, oltre il caso della mancanza grafica, alle sole ipotesi di anomalie tanto radicali da rendere incomprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice il riferimento concerne Sez. U., Sentenza n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692 , traducendosi il vizio, pur sempre, in una motivazione mancante o apparente e comunque mai in una motivazione meramente illogica o in una criticabile valutazione di merito. Osserva come il ricorso del Pubblico ministero attenga - al di là del riferimento ad ipotetiche violazioni di legge - a valutazioni di merito e che il Tribunale, nell’ordinanza impugnata, ha indicato, in modo ampio, logico ed idoneo, le ragioni per le quali ha assunto la propria decisione. Il ricorrente, pur citando la giurisprudenza in materia, avrebbe denunciato proprio e solo vizi irrilevanti, perché pertinenti alla logica ed alla congruenza della motivazione, e dunque non sindacabili nella prospettiva dell’art. 125 cod. proc. pen. Per tali ragioni, i motivi di ricorso del Pubblico ministero contrassegnati dai numeri 1, 2, 3, 4 - 5 e 6 sono inammissibili perché contengono soltanto censure di merito e dai numeri 7, 8 e 9 perché su tutte le questioni si è formato il giudicato. Considerato in diritto 1. Il ricorso del Pubblico Ministero è fondato nei limiti di cui appresso si dirà. 2. La prima questione che va esaminata attiene alla corretta qualificazione del profitto quale condizione legittimante, ai sensi dell’art. 13 D.Lgs. n. 231/2001, l’applicazione della sanzione interdittiva. Trattasi di profilo che il Tribunale era chiamato espressamente ad affrontare a seguito dell’annullamento con rinvio, disposto da questa Corte con la sentenza n. 18634/15, della precedente ordinanza in data 24/3/2014 con cui lo stesso Tribunale aveva revocato - ai sensi dell’art. 50 D.Lgs. n. 231/2001 - il provvedimento genetico del 23/10/2012 con cui il Giudice per le indagini preliminari applicò alla Società la misura cautelare del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione nelle regioni Toscana e Liguria per mesi sei. Scopo del giudizio di rinvio, infatti, era proprio quello di eliminare il vizio determinatosi per l’erronea individuazione degli elementi di fattispecie, avendo in particolare riguardo al concetto di profitto rilevante, verificando se la misura cautelare applicata si legittimasse e per quanto occorra si legittimi in base alla corretta nozione che questa Corte aveva già, a sua volta, indicato nella sentenza n. 51151/13 con cui, sempre all’interno del medesimo procedimento, era stata annullata l’ordinanza del 15/6/2013 con cui il Tribunale di Pistoia ancora in sede di rinvio , revocò l’ordinanza cautelare del Giudice per le indagini preliminari ritenendo erroneamente che il profitto conseguito dalla Società non potesse essere considerato di rilevante entità. Questa Corte, infatti, ebbe modo di precisare, nella sentenza n. 51151/13, che la nozione di profitto di rilevante entità non può limitarsi ad un mero dato numerico, ma ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito cfr. ex plurimis Sez. 6^, sentenza n. 32627 del 23/06/2006, Rv. 235636 . 2.1. Seppur problematica, tanto in sede di interpretazione dottrinale quanto già in una significativa esperienza giurisprudenziale, è apparsa la questione della corretta identificazione del requisito del profitto di rilevante entità, va tuttavia osservato che i recenti approdi di legittimità, fatti propri ed esplicitati da questa Corte nella sentenza di rinvio n. 51151/13, hanno consentito di delineare con sufficiente certezza quelli che sono gli ambiti di tale nozione, sia rispetto alla dimensione qualitativa che in quella sostantiva . Sotto il primo profilo si è chiarito come l’entità del profitto rilevante non possa essere riferita al solo profitto inteso come margine netto di guadagno, in quanto la valutazione che il giudice è chiamato a compiere non va operata alla stregua di criteri strettamente economico-aziendalistici, ma deve tenere conto di tutti gli elementi che connotano in termini di valore economico l’operazione negoziale. Merita, dunque, adesione l’orientamento della Suprema Corte Sez. 6^, sentenza n. 32627 del 23/06/2006, Rv. 235636 , fatto proprio dalla sentenza di rinvio n. 51151/13, secondo cui la nozione di profitto rilevante ai sensi dell’art. 13 D.Lgs. n. 231/2001 va intesa innanzitutto come entità comprensiva dell’intero importo del contratto di appalto, anche se tale valore - certamente indicativo ed esaustivo laddove già di per sé di rilevante entità - non esaurisce l’ambito di tale nozione, dovendosi avere riguardo anche ad altri indicatori quali ad esempio il fatturato ottenuto a seguito del reato. Inoltre, pure discusso è se il profitto vada limitato al vantaggio economico attuale, immediatamente conseguito dal reato o se debba ricomprendere anche l’utile potenziale si pensi all’acquisizione di una posizione di mercato foriera di ulteriori vantaggi . Sulla praticabilità di un’ampia accezione di profitto, ad ogni modo, si sono pronunziate - obiter dictum – le Sezioni unite penali, secondo cui il profitto di rilevante entità richiamato nell’art. 13 D.Lgs. n. 231/2001 evoca un concetto di profitto dinamico che è rapportato alla natura ed al volume dell’attività di impresa e comprende vantaggi economici anche non immediati, ma per così dire, di prospettiva, in relazione alla posizione di privilegio che l’ente collettivo può acquistare sul mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi apicali o da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di questi Sez. U., sentenza n. 26654 del 27/03/2008, Rv. 239924 . Un’accezione ampia, dunque, di profitto che consente al giudice di valutare in tutta la sua portata il disvalore del reato e dell’illecito amministrativo, ancorata ad un giudizio di tipo quantitativo e a contenuto economico-patrimoniale che - alla stregua dei criteri che guidano analoghe valutazioni sul terreno penalistico si pensi all’aggravante della gravità del danno di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen. - evita sfasature sul piano della determinatezza. In tale ambito, potranno pertanto assumere valore, quali parametri rivelatori del profitto di rilevante entità a gli ulteriori lavori direttamente acquisiti dall’impresa in occasione della pregressa aggiudicazione illecita ad es. a seguito di una variante in corso d’opera o quali addizioni al progetto approvato b l’assunzione dei requisiti per la qualificazione dell’impresa ai fini della partecipazione a gare di affidamento di lavori pubblici c.d. attestazione SOA . Ciò in quanto l’acquisizione e l’esecuzione di appalti a seguito di condotte illecite comporta un aumento della cifra di affari realizzata dall’impresa, idonea e necessaria per vedersi riconosciuta o accresciuta la propria classifica di valore, così incrementando la capacità di acquisire appalti di importo più elevato c l’incremento del merito di credito dell’impresa presso gli istituti bancari e/o finanziari. L’aumento del fatturato e dell’utile aziendale in seguito all’acquisizione di appalti di natura illecita consente all’impresa di innalzare il proprio merito di credito al cospetto del sistema finanziario e di acquisire maggiori finanziamenti e a condizioni favorevoli. È noto, infatti, che con l’avvio e la progressiva crescita del fatturato dell’impresa, il sistema bancario, posto che appaiono positive le prospettive reddituali, si mostra propenso ad accordare finanziamenti a titolo di credito. Il volume di affari ascrivibile all’impresa costituisce, poi, uno dei requisiti unitamente ad altri, quali quelli di stabilità patrimoniale, di innovazione tecnologica, di tenuta finanziaria, di propensione all’investimento, della tipologia di mercato di appartenenza, ecc. del processo di valutazione dei fidi che incide sullo specifico segmento creditizio attribuibile alla clientela di impresa d l’aumento del potere contrattuale nei confronti dei fornitori e subappaltatori. L’acquisizione ed esecuzione degli appalti illeciti determina un incremento degli ordini emessi dalle imprese aggiudicatarie verso i propri fornitori e subappaltatori con aumento del potere contrattuale e della capacità di ottenere, anche in vista di appalti futuri, condizioni economiche favorevoli in termini di prezzi, qualità e tempi delle forniture, migliori condizioni di pagamento, ecc. e l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse aziendali. Con l’aumento del volume di affari conseguente alle aggiudicazioni illecite, le imprese conseguono anche un aumento dell’efficienza derivante dal maggior sfruttamento delle risorse aziendali. In termini di bilancio ciò si traduce in una minore incidenza sul fatturato delle spese fisse stipendi del personale, ammortamenti, costi fissi, oneri di sede, ecc. e in un aumento dell’utile aziendale in termini percentuali, oltre che assoluti ne deriva una maggiore redditività operativa f un maggiore accesso ad altri appalti, concorrendo in proprio, o acquisendo, in virtù delle aggiudicazioni illecite, una specializzazione di settore o attestazioni di lavori eseguiti anche ai fini di ipotesi consorziali. 2.2. Trattasi, all’evidenza, di elementi espressivi di utilità economiche che causalmente ed ordinariamente sono ricollegabili, anche in via mediata, all’aggiudicazione illecita, idonei a configurare il profitto di rilevante entità che l’impresa ha tratto dal reato. Altrimenti del tutto riduttivo sarebbe il ricorso ad una nozione meramente contabile di profitto che si porrebbe in contrasto con gli obiettivi di tutela che la disposizione di cui all’art. 13 D.Lgs. n. 231/2001 mira a soddisfare. Il riferimento alla rilevanza del profitto se da un lato tende ad evitare che l’ente sia esposto ad aggressioni eccessive, dall’altro, soprattutto con l’assenza di qualsiasi riferimento al parametro dell’ingiustizia, tende proprio ad impedire che movimentazioni di denaro o spostamenti di ricchezza siano tali da ledere la par condicio che deve esistere nel mercato, alterata in modo significativo da condotte riprovevoli ascrivibili a specifiche figure di reato, quale in primis quella di natura corruttiva. Spetta, poi, al giudice del merito verificare in concreto quali siano gli indici rivelatori della rilevante entità del profitto. Tale giudizio deve essere però condotto attraverso una valutazione globale dei fatti, con la presa in considerazione di tutti gli elementi dai quali sia possibile trarre l’esistenza di vantaggi economici ricollegabili causalmente al reato presupposto o ai reati per cui si procede e che hanno formato oggetto di contestazione , sulla base di specifici e puntuali accertamenti ed essendo anche possibile il ricorso a massime di esperienza , con motivazione che se congruamente e logicamente motivata è incensurabile in cassazione. 3. Venendo al caso in esame, il Tribunale, posta l’irrilevanza nel caso di specie del mero dato numerico costituito dalla valutazione ex se del profitto conseguito dalla Società in ragione dell’aggiudicazione illecita di gare di appalto stimato in complessive Euro 108.000,00 , ha omesso, innanzitutto, di comparare tale dato con l’utile risultante dai bilanci della società. Non ha, poi, valutato la memoria e la documentazione prodotta dal Pubblico ministero alla precedente udienza del 24/3/2014 con la quale si evidenziavano le ulteriori risultanze investigative acquisite nei confronti della Società e del suo socio di maggioranza tesa a dimostrare che la Società aveva incassato somme ulteriori per le gare di appalto in contestazione e che, pertanto, il profitto ottenuto dovesse essere quantificato tenendo conto anche di tali ulteriori introiti. Il Tribunale, invece, pur correttamente ricavando i vantaggi seppur non immediati che la Società ha tratto dal reato nelle altre gare alle quali l’impresa ha partecipato e di cui è risultata vincitrice , giovandosi dell’aggiudicazione degli appalti ritenuti oggetto di reato, ne ha escluso qualsiasi valenza sull’erroneo presupposto che in atti non vi è alcun indizio che possa consentire di individuare a quali gare la società ha partecipato e in quali è vincitrice grazie all’aggiudicazione degli appalti ritenuti oggetto di reato . Il Pubblico ministero, invece, proprio mediante il deposito della memoria sopra richiamata ha individuato sia le gare oggetto di illecita partecipazione che il quantum incassato in relazione alle gare oggetto di contestazione. Il Tribunale era, dunque, tenuto a confrontarsi con tale novum , trattandosi di elementi sopravvenuti idonei ad orientare la decisione, strettamente aderenti all’ambito dell’oggetto del giudizio già segnato dal devolutum , ritualmente sottoposti al contraddittorio della Difesa. Pertanto, omettendo di valutare tali risultanze quali specifiche doglianze formulate, dotate del requisito della decisività , il Giudice territoriale è incorso, sul punto, nel vizio di mancanza della motivazione sul vizio di motivazione per omesso esame di specifiche e decisive doglianze e per la mancata valutazione di allegazioni, cfr. Sez. 2^, sentenza n. 10758 del 29/01/2015, Rv. 263129 e Sez. 5^, sentenza n. 2916 del 13/12/2013, Rv. 257967 . 3.1. Analogo vizio è ravvisabile poi laddove il Tribunale ha escluso la rilevanza, ai fini dell’integrazione del profitto di rilevante entità, della possibilità di ottenere l’affidamento diretto dei lavori complementari ai sensi dell’art. 57, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006 da parte dell’esecutore dei lavori principali, stante la modestia dell’importo, nonostante il Pubblico ministero avesse evidenziato, con la memoria sopra indicata, successivi elementi consistiti nella percezione di ulteriori somme il cui importo di per sé non appare affatto irrilevante. 4. Fondato, anche se con le necessarie precisazioni che si andranno a compiere, risulta il ricorso del Pubblico ministero laddove censura il provvedimento del Tribunale nella parte in cui ha escluso il pericolo di recidiva dell’ente. Al riguardo, occorre premettere che questa Corte, nella sentenza n. 51151/13, premesso che l’applicazione in via cautelare delle sanzioni interdittive è subordinata, alternativamente e non congiuntamente, al conseguimento da parte dell’ente di un profitto di rilevante entità ovvero alla reiterazione nel tempo dell’illecito, precisò che il Tribunale aveva omesso di compiere alcuna valutazione in ordine alla contestazione di un reato associativo e di un’attività stabilmente organizzata e volta alla perpetrazione di reati, sicché sotto tale profilo la decisione impugnata è stata assunta in violazione di legge . Il Tribunale ha ritenuto che tale dictum investisse l’ulteriore requisito legittimante l’applicazione della misura interdittiva, consistente nella reiterazione nel tempo dell’illecito, ai sensi della lettera b dell’art. 13 D.Lgs. n. 231 del 2001, escludendone la presenza in forza del dato numerico relativo al rapporto tra le partecipazioni della Società alle gare di appalto tenutesi in Toscana nel periodo 2007-2012 e quelle oggetto di aggiudicazione. 4.1. Tale affermazione risulta errata sotto diversi profili. Innanzitutto, il pericolo di recidiva è stato apprezzato da questa Corte ai fini della sussistenza del periculum legittimante l’applicazione, nelle more del procedimento, della misura cautelare, ai sensi dell’art. 45 D.Lgs. n. 231 del 2001 che, come noto, richiede, oltre la sussistenza dei gravi indizi di responsabilità dell’ente per un illecito amministrativo dipendente da reato, che vi siano fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede. L’esigenza cautelare emerge dalla valutazione di due tipologie di elementi, il primo di carattere obiettivo, relativo alle specifiche modalità e circostanze del fatto, l’altro di natura soggettiva, attinente alla personalità dell’ente. Così, per quanto riguarda il primo aspetto si tratterà di valutare la gravità dell’illecito, ad esempio considerando il numero di illeciti commessi, nonché gli stessi elementi che l’art. 13 D.Lgs. n. 231/2001 indica come condizioni per l’applicabilità delle sanzioni, come l’entità del profitto, ovvero lo stato dell’organizzazione dell’ente d’altra parte, il fatto che si tratti di una persona giuridica non impedisce di considerarne la personalità , attraverso una valutazione che abbia come oggetto l’ente collettivo stesso, esaminandone, ad esempio, la politica d’impresa attuata negli anni e gli eventuali illeciti commessi in precedenza. Nessun richiamo, pertanto, questa Corte ha operato alla lettera b dell’art. 13 D.Lgs. n. 231/2001, né tantomeno, come erroneamente ritenuto dal Pubblico ministero, al rischio di recidiva quale indice di valutazione della rilevanza del profitto. Del resto, un riferimento di tal genere non sarebbe stato necessario, sia perché la reiterazione degli illeciti di cui parla tale norma si riferisce, come peraltro osservato correttamente dallo stesso Giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza genetica, all’ipotesi declinata dall’art. 20 del decreto legislativo, secondo cui si ha reiterazione quando l’ente, già condannato in via definitiva almeno una volta per l’illecito dipendente da reato, ne commetta un altro nei cinque anni successivi alla condanna definitiva, sia poi perché l’applicazione della misura cautelare interdittiva da parte del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pistoia si fonda, quanto alle condizioni previste dall’art. 13 del D.Lgs. n. 231/2001, esclusivamente sulla lettera a , essendosi espressamente escluso qualsiasi riferimento alla lettera b non ricorre la condizione di cui all’articolo 13 lett. b, dovendosi la reiterazione degli illeciti essere interpretata alla luce della successiva disposizione di cui all’art. 20 del d.leg.vo citato . Infine, perché sotto tale profilo, l’ordinanza genetica non è stata censurata dalle parti, e nella sentenza di questa Corte viene chiaramente distinto il profilo di diritto relativo alla qualificazione della rilevanza del profitto lettera a dell’art. 13 da quello differente attinente alla reiterazione degli illeciti e al periculum di recidiva. 4.2. Peraltro, l’argomentazione svolta dal Tribunale a sostegno dell’esclusione della reiterazione degli illeciti, non si presta comunque a soddisfare il principio di diritto enunciato da questa Corte nella sentenza n. 51151/13 e riferito al periculum , correttamente inteso quale presupposto della cautela reale interdittiva. Il Tribunale, infatti, ha escluso il rischio di recidiva richiamando il rapporto tra il dato numerico delle partecipazioni della Società alle gare di appalto in territorio toscano negli anni 2007-2012, che ammontano a 714, e quello delle gare oggetto di aggiudicazione, che sono 120. I dati illustrati , ad avviso del Tribunale, escludono di per sé , il pericolo di una ripetizione dei reati . La stringata motivazione adottata dal Tribunale non consente di comprendere le rationes sulle quali si fonda l’assenza di recidiva e, soprattutto, perché il dato numerico non assume alcun rilievo a detti fini, tenuto anche conto della molteplicità degli episodi di corruzione e di turbata libertà degli incanti ai fini della gravità del fatto , anche per altre gare di appalto, successivamente ascritti alla Società vedi al riguardo la richiesta di rinvio a giudizio allegata alla memoria del Pubblico ministero depositata all’udienza del 24.3.2014 e la contestazione dell’illecito amministrativo anche in ordine all’art. 24 ter D.Lgs. n. 231/2001 con riferimento all’art. 416 cod. pen In tale contesto, il Tribunale ha omesso anche di specificare, in positivo, quali siano gli elementi che, in ipotesi, possano escludere un continum nell’attività illecita perpetrata dalla Società. La motivazione, sulla questione di diritto posta da questa Corte si rivela, pertanto, non solo errata per le ragioni esposte, ma anche apparente e del tutto eccentrica rispetto al devoluto. Anche su questo punto, pertanto, l’ordinanza del Tribunale deve essere annullata con rinvio. 5. Altra questione da affrontare è quella se la Società abbia completamente ed efficacemente realizzato, entro il termine assegnatole, le attività riparatorie indicate all’art. 17 del D.Lgs. n. 231/2001. Nella sentenza n. 327/14 questa Corte censurava la decisione del Tribunale di Pistoia che aveva annullato l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del 30/5/2013 con la quale, all’esito del periodo di sospensione concesso alla Società ex art. 49 D.Lgs. n. 231 del 2001, era stata ripristinata la misura cautelare interdittiva sul presupposto che la Società non avesse adempiuto ad alcuna delle condizioni previste dall’art. 17 del decreto legislativo citato. Il Tribunale, infatti, aveva ritenuto che la Società avesse adeguatamente soddisfatto le tre condizioni menzionate dall’art. 17 ed aveva annullato l’ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari ai sensi dell’art. 49. Questa Corte, con la sentenza n. 327/14, accogliendo il ricorso del Pubblico ministero, annullava l’ordinanza del Tribunale di Pistoia in quanto la riteneva viziata da violazione di legge nella parte in cui non aveva considerato non adempiute le condizioni previste dall’art. 17 lettere a e b D.Lgs. n. 231/2001 e demandava al Tribunale di verificare nel giudizio di rinvio l’adempimento di tali condizioni alla luce dei principi espressi nella sentenza di annullamento. In particolare, il Tribunale avrebbe dovuto argomentare in punto di efficacia del modello organizzativo proposto a prevenire reati della stessa specie di quelli verificatisi, con riguardo all’attribuzione di cariche sociali a persone asseritamente legate alla famiglia proprietaria, avrebbe dovuto verificare se le condotte risarcitorie avessero trovato concreta attuazione non potendo in tal senso qualificarsi l’accantonamento unilaterale di una somma in bilancio , in favore di tutti i soggetti danneggiati dal reato, e non della sola persona offesa. Come si è visto, invece, il Tribunale ebbe esplicitamente a ricusare il provvedimento, assumendone l’inutilità dopo l’intervenuta revoca, ai sensi dell’art. 50 D.Lgs. n. 231/2001, dell’originaria misura cautelare, con ciò esponendosi all’ulteriore annullamento con rinvio disposto dalla 6^ Sezione di questa Corte con la sentenza n. 18634/15. 5.1. Ciò premesso, il ricorso del Pubblico ministero risulta fondato nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto che la costituzione di un trust, cui deve aggiungersi anche la previsione in bilancio di un fondo di accantonamento di Euro 120.000, nella forma di riserva legale certificata dal collegio sindacale, soddisfa le condizioni di cui all’art. 17 lett. a D.Lgs. n. 231 del 2001, perché costituisce una forma idonea a dimostrare un’efficace azione diretta a risarcire il danno e ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato. Tale assunto non rispetta le indicazioni fornite da questa Corte nella sentenza n. 327/14, avendo il Tribunale avallato un meccanismo che consente all’ente di posticipare il risarcimento del danno all’esito del giudizio penale, così contravvenendo non solo al principio di diritto affermato nella suddetta sentenza, ma anche alla ratio della disposizione e alla finalità special preventiva della condizione positiva prevista dall’art. 17 lett. a D.Lgs. n. 231/2001. Come affermato da questa Corte nella sentenza di rinvio, il sistema punitivo della responsabilità da reato degli enti assume, pena l’inefficacia, un carattere prettamente preventivo, volto a configurare sanzioni e misure cautelari per prevenire la commissione dei reati attraverso la strutturazione regolativa dell’organizzazione capace di controllare, da sé, se stessa. Ne consegue che le disposizioni funzionali alla regolarizzazione, attraverso schemi rigorosi, dell’organizzazione dell’ente tale da impedire la reiterazione dei reati, devono essere interpretate con il massimo rigore per poter perseguire la massima efficacia. Il che si traduce nella diretta consegna alle persone danneggiate, nella specie agli enti locali danneggiati dalla attività di corruzione, della somme costitutive del risarcimento del danno prodotto ovvero con modalità che garantiscano la presa materiale della somma risarcita su iniziativa del danneggiato, senza la necessità di una ulteriore collaborazione per la traditio dell’ente risarcente. Con argomento a contrario, poi, può rilevarsi che mentre per il profitto funzionale alla confisca la disposizione di legge prescrive la messa a disposizione del danneggiato, per l’integrale risarcimento non impone la medesima modalità di condotta, ma rimarca che la sua prestazione sia efficace, come efficace deve essere l’attività tesa al suo adempimento. Ciò del resto risulta pienamente coerente con quanto evidenziato nella relazione ministeriale al decreto legislativo n. 231 del 2001 ove si evidenzia che la disciplina predisposta per le sanzioni interdittive si lega - stante la sua natura special preventiva - con un modello sanzionatorio che ancora la minaccia a presupposti applicativi particolarmente rigorosi e funzionali al conseguimento di utili risultati per la tutela dei beni tutelati, visto che si consente all’ente di attivarsi, attraverso condotte riparatorie, per evitare l’applicazione di queste sanzioni. Da un lato, dunque, la minaccia presuppone il compimento di reati di particolare gravità ovvero la reiterazione degli illeciti dall’altro, si stagliano sanzioni positive che permettono di scongiurare l’applicazione delle sanzioni interdittive in presenza di comportamenti diretti a reintegrare l’offesa . Si profila, dunque, una politica sanzionatoria che non mira ad una punizione indiscriminata ed indefettibile, ma che, per contro, mira a privilegiare una dimensione che salvaguardi la prevenzione del rischio di commissione di reati in uno, con la necessaria, previa eliminazione delle conseguenze prodotte dall’illecito. In tale rigoroso ambito, la semplice costituzione di un trust non può, di per sé, essere considerata adempimento dell’obbligo risarcitorio previsto dalla lett. a dell’art. 17, essendo tale strumento condizionato al passaggio in giudicato della sentenza di condanna nel giudizio penale. Il legislatore, infatti, esige - quanto alla procedura di revoca della misura per il verificarsi delle ipotesi previste dall’art. 17 procedura che, come ricordato dalla 6^ Sezione di questa Corte nella sentenza n. 18634/14 è alternativa alla ricorrenza delle altre ipotesi di revoca sopravvenuta della misura cautelare - che l’ente anticipi il risarcimento del danno che potrebbe essere costretto a pagare all’esito del giudizio di merito. Pur essendo rimesso all’ente e all’apprezzamento del giudice del merito la verifica del verificarsi di tale condizione, anche sotto il profilo della congruità dell’importo stimato in relazione alla natura e al numero delle contestazioni elevate e delle persone offese, non bisogna, tuttavia, confondere la messa a disposizione con l’effettiva richiesta per la condotta risarcitoria, come sopra delineata. Peraltro, contrastante con la ratio della disposizione di cui all’art. 17, risulta anche la motivazione del Tribunale laddove ricava l’idoneità di tale forma risarcitoria dalla circostanza che per lo stato del procedimento all’epoca era stata depositata la richiesta di rinvio a giudizio non è ancora stata accertata definitivamente l’esistenza del danno e non sono stati identificati tutti i danneggiati. La procedura di cui all’art. 17 e, soprattutto, i benefici che ne derivano per l’ente preclusione nel merito all’applicazione delle sanzioni interdittive sono, invece, proprio legati al fatto che il risarcimento intervenga in una fase antecedente al merito prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado , dandosi così atto della piena risipiscenza dell’ente, tale da far meritare non solo la revoca della misura interdittiva che è stata cautelarmente disposta ma anche l’irrogazione, in caso di condanna, della sola sanzione pecuniaria. Laddove, poi, vi siano incertezze sull’esatta determinazione della somma da risarcire, questa Corte Sez. 2^ ebbe a rimarcare nella sentenza n. 327/14 che il risarcimento del danno è misura che, nella impossibilità, come nel caso di specie, di una determinazione ancorata a parametri rigidi, presuppone una condotta comunicativa con il danneggiato il quale potrebbe aderire all’offerta oppure rifiutarla allegando motivazioni non pretestuose ma oggettive e meritevoli di ogni seria considerazione. In proposito l’art. 17, lett. a del D.Lgs. n. 231/2001 richiede, per non dar luogo o revocare le misure interdittive, non solo che si sia risarcito integralmente il danno, ma che anche si siano eliminate, le conseguenze dannose o pericolose del reato e comunque di essersi efficacemente adoperato in tal senso. Il che presuppone gioco forza una determinazione del danno e delle conseguenze non per iniziative unilaterali, ma in virtù di una collaborazione o comunque contatto tra parti contrapposte, tale da doversi ritenere efficace l’essersi adoperato come preteso dalla disposizione richiamata. Nel caso di specie non può certo ritenersi, come ha fatto il Tribunale, condotta idonea ad assolvere l’onere di tenere una condotta comunicativa con i danneggiati la spedizione di una missiva in cui si dava atto dell’avvenuta costituzione del trust, senza che a ciò consegua una seria interlocuzione con i danneggiati sulla determinazione del danno. Va, pertanto, annullata con rinvio anche su tale aspetto l’ordinanza impugnata, non essendosi il Tribunale correttamente conformato al principio di diritto espresso da questa Corte nella sentenza n. 327/14. L’annullamento involge anche, stante la stretta conseguenzialità logico-giuridica, la disposta restituzione alla Società della somma di Euro 250.000,00 versata a titolo di cauzione. 6. Ad analoghe conclusioni può giungersi anche riguardo l’ulteriore profilo che il Tribunale era chiamato a scrutinare, relativo all’adozione di un efficace modello organizzativo e all’idoneità del nuovo amministratore della società a garantire una reale autonomia dell’organo amministrativo. Al riguardo, questa Corte, nella sentenza n. 327/14 aveva censurato la decisione del Tribunale per non aver verificato la tenuta del modello organizzativo predisposto in funzione riparatoria con la presenza di un nuovo amministratore delegato, nella persona di un soggetto da sempre orbitante nell’area della famiglia del socio di maggioranza della Società, il tutto in assenza di una chiara indicazione di contromisure idonee a depotenziare la serie intricata di cointeressenze tra la vecchia e l’apparente nuova gestione e a prevenirne l’eventuale continuazione degli stili gestionali in contestazione. Ebbene, sul punto, le sollecitazioni di questa Corte non hanno trovato una esauriente risposta da parte del Giudice del rinvio, in quanto gli elementi fattuali indicati quali sintomatici della volontà della Società di rompere rispetto al passato e alla precedente gestione risultano solo apparenti e si pongono in contrasto con il netto e deciso solco tracciato da questa Corte nella sentenza di annullamento. Il Tribunale, infatti, era chiamato ad un penetrante accertamento che superasse il dato formale della verifica obiettiva del modello, in ragione di una reale terzietà della nuova governance . Ebbene, sul punto, la motivazione resa dal Tribunale risulta meramente apparente, in quanto il rispetto del profilo soggettivo attinente al reale cambiamento della gestione della Società poggia esclusivamente su dati di carattere formale l’avvenuto cambiamento dell’amministratore con un nuovo organismo e la distinzione tra l’istituito ruolo di procuratore generale e quello di amministratore e non tiene conto degli specifici elementi di possibile contaminazione e di stretto collegamento con la vecchia compagine sociale di tali soggetti in particolare di B.S.S. , nipote di R.G. e di R.L. e del conferimento dei poteri di procuratore a P.M. , per come indicato dal Pubblico ministero nella memoria depositata all’udienza del 24/3/2014, a seguito delle ulteriori indagini svolte e delle intercettazioni effettuate. E in tale contesto, concorre a concretizzare la violazione di legge sotto il profilo motivazionale anche la chiara inidoneità della donazione di azioni da R.G. a R.L. , apprezzata dal Tribunale quale elemento indicativo della cessazione del pericolo di reiterazione e, dunque, di cesura col passato, omettendo di verificarne la possibile natura strumentale, tenuto conto che anche R.L. risulta imputato nel presente procedimento penale, essendo stata esercitata nei suoi confronti l’azione penale per i delitti di concorso in corruzione e turbata libertà degli incanti contestati al R.G. e ad altri. 7. Parimenti fondato è il ricorso del Pubblico ministero, con le precisazioni di cui al prosieguo della motivazione, con riferimento ai restanti profili di censura punti 7, 8, 9 e 10 che investono la decisione impugnata nella parte in cui il Tribunale del riesame ha ritenuto di poter procedere alla revoca della misura cautelare, ai sensi dell’art. 50 D.lgs. n. 231/2001, stante il venir meno delle condizioni di applicabilità previste dall’art. 45 del decreto legislativo nella specie periculum in mora . Tra gli argomenti a sostegno della competenza del giudice del riesame in sede di appello alla verifica della persistenza delle esigenze cautelari si cita innanzitutto una pretesa legittimazione conferita dalla sentenza n. 18634/2015 di questa Corte Sez. 6^ la quale aveva posto in luce, pur nel contesto di un annullamento di una decisione favorevole alla parte privata, la necessità di valutare il rischio di reiterazione dei reati. Nel merito, il Tribunale ha sostenuto, per un primo verso, che le circostanze in precedenza apprezzate quali fattori costitutivi della fattispecie di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 231 del 2001 adozione di un nuovo modello organizzativo, sostituzione dell’amministratore, istituzione di più fondi di accantonamento, ecc. potrebbero essere valutate anche, in prospettiva non pregiudicata dalla fase rescindente, quali misuratori del concreto rischio della commissione di illeciti da parte della Società da escludersi alla luce delle molteplici iniziative adottate , e per altro verso, rispetto alle precedenti fasi del sub-procedimento, che sarebbero sopraggiunti nuovi elementi atti a tranquillizzare circa il futuro comportamento della R. . In tal senso sono citati una serie di elementi, tra i quali la nomina di un consiglio di amministrazione che non comprende la persona già ritenuta espressione di una perdurante volontà di governo da parte di R.G. la donazione da parte del citato R. , in favore del figlio L. , del pacchetto di maggioranza di azioni della società l’avvenuta costituzione di un trust destinato a soddisfare le pretese risarcitorie delle persone offese ed alla rimozione delle conseguenze dannose o pericolose dell’illecito la comunicazione agli enti territoriali offesi dai reati dell’esistenza del menzionato fondo di accantonamento, nonché, unitamente anche alle società che si sono classificate per seconde nelle gare di appalto che sono state aggiudicate alla Società R.L. s.p.a., dell’avvenuta costituzione del trust e dell’imminente consegna di una fideiussione bancaria a prima richiesta di Euro 250.000,00 rilasciata a garanzia delle obbligazioni per cui è stato istituito. Secondo il Tribunale del riesame tali misure, per la loro efficacia, varrebbero ragionevolmente ad escludere il rischio di reiterazione degli illeciti, osservandosi, comunque, che la situazione di fatto sarebbe ormai diversa da quella esistente all’epoca del provvedimento genetico, essendo stati arrestati o rimossi dagli incarichi i funzionari coi quali i dirigenti della Società avevano stretto i presunti rapporti corruttivi. Il Tribunale, infine, ha aggiunto che il concreto ripristino della misura determinerebbe effetti privi del necessario carattere di proporzionalità, poiché, nel mutato contesto storico e di fatto, non vi sarebbe una reale funzionalità di prevenzione speciale e resterebbe per converso compromessa definitivamente la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, con tutte le negative conseguenze sul piano occupazionale. 7.1. Prima di affrontare il merito della questione, occorre preliminarmente affermare l’interesse del Pubblico ministero a ricorrere avverso questo capo della decisione, nonostante il rappresentante dell’ufficio abbia espresso, all’udienza camerale, parere favorevole sull’istanza di revoca della misura avanzata dalla Difesa. È principio generale in tema di impugnazioni, espresso dall’art. 570, comma 1, cod. proc. pen., applicabile per simmetria di sedes e identità di rationes anche ai gravami di natura cautelare, che il procuratore della Repubblica presso il tribunale può proporre impugnazione indipendentemente dal tenore delle conclusioni formulate in udienza dal rappresentante del pubblico ministero e anche avverso la decisione che le abbia eventualmente accolte, perché l’interesse della parte pubblica all’impugnazione attiene alla scelta da compiere dopo avere avuto piena conoscenza del provvedimento e in base ad una valutazione complessiva, in vista del soddisfacimento di interessi generali di giustizia nel senso dell’estensione di tale principio anche per le impugnazioni delle misure cautelari, vedi ex multis Sez. 6^, sentenza n. 30891 del 25/2/2008, Rv. 240922 . Tale conclusione è pienamente aderente al dato normativo vigente, non solo di carattere processuale l’art. 570 del codice di rito già citato , ma anche ordinamentale, posto che l’art. 73 del R.D. 14 gennaio 1941, n. 12, tra le attribuzioni del Pubblico ministero, enuncia quella di vegliare all’osservanza delle leggi e l’art. 70, comma 3, del predetto regio decreto attribuisce tale compito anche ai titolari degli uffici di procura nel caso in esame il ricorso è stato proposto direttamente dal procuratore della Repubblica . 7.2 Ciò premesso, venendo al merito delle censure sollevate, ritiene questa Corte che il Tribunale del riesame nel provvedere, su istanza della Difesa, alla revoca della misura cautelare, abbia non correttamente utilizzato i poteri ed i compiti spettanti al giudice del riesame in sede di appello e di rinvio, operando anche un non puntuale richiamo alle motivazioni della sentenza n. 18634/2015 con cui la Sesta sezione ebbe ad annullare l’ordinanza del Tribunale di Pistoia, in funzione di giudice di appello cautelare, del 24/3/2014. Il Tribunale, infatti, muove dall’errato presupposto che sia sempre e comunque consentito al giudice del riesame procedere, sia di ufficio che su istanza di parte, alla revoca o alla modifica della misura cautelare allorché ne risultino mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall’art. 45 del d.lgs. n. 231 del 2001 ossia i gravi indizi ed il pericolo di recidiva . E a tanto giunge mediante l’espresso richiamo di un passaggio della motivazione della sentenza della Sesta sezione sopra indicata citando la pagina 19 . La conclusione non è condivisibile nel senso che in materia di impugnazioni riguardanti provvedimenti cautelari, il giudice del rinvio non può abbandonare il thema decidendum segnato dai motivi di ricorso che hanno determinato l’annullamento, e definire il giudizio attraverso l’introduzione di nuovi punti per la decisione, ma deve in primo luogo eliminare il vizio rilevato dalla Corte di cassazione, e solo successivamente, muovendo da tale presupposto, può affrontare ulteriori questioni attinenti all’attualità delle condizioni legittimanti la cautela, poiché, per effetto del collegamento sequenziale tra pronuncia rescindente e fase rescissoria, non deve venir meno la continuità di oggetto del giudizio Sez. 6^, sentenza n. 18634 del 18/11/2014, Rv. 263951 . In questo senso va dunque interpretato il quadro di principi stabiliti da questa Suprema Corte Sez. 6^, sentenza n. 19008 del 17/04/2012, Rv. 252874 Sez. 6^, sentenza n. 34970 del 21/05/2012, Rv. 253331 , secondo cui l’appello de libertate conferisce al giudice ad quem tutti i poteri ab origine rientranti nella competenza funzionale del primo giudice e comporta, dunque, una valutazione globale della prognosi cautelare, con l’attribuzione al giudice dell’appello cautelare del potere di decidere, sempre nell’ambito dei motivi prospettati e, quindi, del principio devolutivo, anche su elementi diversi e successivi rispetto a quelli utilizzati dall’ordinanza impugnata, applicandosi anche a tale procedimento l’art. 603, commi 2 e 3, cod. proc. pen. Sez. 6^, sentenza n. 23729 del 23 aprile 2015, Rv. 263936 . Ciò premesso, il Tribunale del riesame ha adottato, come emerge dal dispositivo della sua decisione, una prima ordinanza di revoca, ex art. 52 d.lvo n. 231/2001 relativa al provvedimento emesso dal Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Pistoia il 23 ottobre 2012 che ha applicato alla R.L. s.p.a. la misura interdittiva del divieto di contrattare con la P.A. nelle regioni Toscana e Liguria per sei mesi per difetto del profitto di rilevante entità e con ciò ritenendo di conformarsi al principio di diritto espresso da questa Corte nella sentenza n. 51151/13 ha poi annullato l’ordinanza di ripristino della misura pronunziata dal Giudice per le indagini preliminari ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. n. 231 del 2001, disponendo la restituzione alla R.L. s.p.a. della somma di Euro 250.000,00 versata a titolo di cauzione ed ha poi disposto la revoca, ex art. 50 divo n. 231/2001 relativa sempre al provvedimento emesso dal Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Pistoia il 23 ottobre 2012, per sopravvenuta mancanza delle esigenze cautelari periculum in mora , nonostante lo stesso Tribunale riconosca che la revoca della misura cautelare genetica faccia ritenere superata la questione concernete l’ordinanza che ha revocato la sospensione disposta ex art. 49 d.lvo n. 231/2001. Il Tribunale, pertanto, dopo avere erroneamente definito i temi posti dalla decisione di annullamento con rinvio della Suprema Corte che riguardavano la sussistenza dei presupposti legittimanti l’applicazione della sanzione interdittiva e le condizioni di ripristino , ha ritenuto di poter delibare su un’istanza autonoma di revoca della misura cautelare presentata direttamente nel corso della procedura di gravame. Nel caso in esame, invero, non ci si trova dinnanzi ad una variazione della base cognitiva che rappresenti un aspetto della progressione dinamica del giudizio cautelare, perché solo in tale ipotesi il relativo tema può ritenersi ritualmente introdotto e pertinente, e potrebbe essere oggetto dell’appello per ciò che concerne la valutazione di attualità delle esigenze. L’appello de libertate , infatti, attribuisce al giudice ad quem tutti i poteri ab origine rientranti nella competenza funzionale del primo giudice e comporta una valutazione globale della prognosi cautelare da esprimere anche in relazione a circostanze sopravvenute al momento genetico della modifica operata dal giudice competente, ma pur sempre nel rispetto di quanto devoluto, Sez. 6^, sentenza n. 19008 del 17/04/2012, Rv. 252874 . In tal caso, infatti, la valutazione di attualità delle esigenze cautelari è connessa all’immanenza del tema nel relativo procedimento pur nel rispetto di quanto devoluto , mentre non può essere surrettiziamente evocata attraverso l’irrituale proposizione di domande con presupposti diversi rispetto a quelli iniziali. La sentenza di annullamento pronunziata dalla Suprema Corte non muta, infatti, la fisionomia tipica del giudizio di gravame del quale la sentenza di annullamento impone la ripetizione , e cioè che lo scorrere delle fasi processuali non comporta, in nessun caso, il cambiamento di oggetto della procedura, ed in particolare l’abbandono dei punti delle decisioni cui si riferiscono le censure poste ad oggetto degli atti di impugnazione, se non nei ristretti e precisi limiti sopradelineati. Il sistema, del resto, consente ugualmente la più pronta reazione al mutamento delle condizioni e delle esigenze che legittimano il trattamento cautelare, la quale consiste nella domanda di revoca rivolta al giudice della cautela, cioè al giudice che procede ovvero, al giudice - g.i.p. o giudice del dibattimento in atto procedente . Il problema non è, dunque, l’effettività del principio stabilito all’art. 50 del D.Lgs. n. 231/2001, che estende alle persone giuridiche il requisito di perdurante attualità delle esigenze assicurate mediante la cautela. Il problema è solo quello della sede in cui le variazioni possono essere rappresentate, con efficacia eventualmente immediata della relativa domanda. Peraltro, la conclusione raggiunta dal Tribunale non può ritenersi legittimata dalla motivazione della sentenza di annullamento pronunziata dalla Sesta sezione. Una corretta lettura delle motivazioni di tale decisione, nella parte citata dal Tribunale la pagina 19 , rende chiaro che il riferimento al giudice che può, anche d’ufficio, rilevare, ove ne sussistano i presupposti, la sopravvenuta insussistenza delle condizioni legittimanti il permanere della misura , è quello della cautela v. anche pag. 17 ultimo capoverso paragrafo 4 della sentenza di annullamento con rinvio della Corte di cassazione Sez. 6^, n. 18634/2015 e non il Tribunale del riesame in sede di appello. Del resto, che il riferimento operato dalla Sesta sezione fosse rivolto illo tempore al giudice per le indagini preliminari e non a quello di appello si ricava anche dal tema nell’ambito del quale il principio è stato affermato. La Sesta sezione, infatti, censurava l’illegittimità del provvedimento impugnato sotto il profilo del non liquet riguardo all’appello contro l’ordinanza di ripristino della misura cautelare deliberata dal Giudice per le indagini preliminari, a norma dell’art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 231/2001, richiamando la necessità di definizione della relativa procedura nell’ambito della quale era stata versata una cauzione . E tale compito spetta chiaramente a tale giudice, perché giudice della cautela e l’unico che dovrà disporre, in caso di esito negativo dell’accertamento, la devoluzione alla Cassa delle ammende della cauzione prestata. Ed è logico e consequenziale che sia proprio tale giudice a poter rilevare - anche d’ufficio - la sopravvenuta insussistenza delle condizioni che debbono permanentemente sorreggere, a norma dell’art. 50 del d.lgs. n. 231/2011, la restrizione cautelare delle prerogative funzionali dell’ente. Il provvedimento deve quindi essere annullato anche su tale punto. 8. Alla luce delle suesposte considerazioni il provvedimento impugnato va, dunque, annullato, con rinvio al Tribunale di Pistoia, affinché il Tribunale dell’appello cautelare possa deliberare sulle impugnazioni sottoposte al suo giudizio secondo i principi processuali e sostanziali sopra enunciati. P.Q.M. Annulla con rinvio l’ordinanza impugnata e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Pistoia per nuovo esame.