Stipendi arretrati, la lavoratrice si rifà sulla cassa: condannata

Ben 6 mesi di reclusione per la dipendente di un bar, adibita anche a cassiera. Nessun dubbio sulla condotta da lei realizzata, ossia prelevare illegittimamente denaro dalla cassa. Inutile il richiamo difensivo allo stato di necessità provocato dal mancato pagamento della prevista retribuzione.

‘Dolce vendetta’ per la dipendente del bar. Ella, ancora in attesa di ricevere alcuni stipendi, pensa bene di rifarsi col denaro presente in cassa. Illogico parlare di furto. Più corretto, invece, contestare il reato di appropriazione indebita. E su questo fronte è non discutibile la responsabilità della lavoratrice, condannata a ben 6 mesi di reclusione Cassazione, sentenza n. 6035/2016, Sezione Seconda Penale, depositata il 12 febbraio 2016 . Stipendio. Nessun dubbio per i giudici di merito grave la condotta della lavoratrice. Inutile il richiamo difensivo al mancato pagamento degli stipendi . Così il prelievo illegittimo di denaro dalla cassa viene inquadrato come appropriazione indebita aggravata . Ed essendo evidente la colpevolezza della donna, è consequenziale la condanna a 6 mesi di reclusione e 210 euro di multa . Secondo il legale, però, le valutazioni compiute dai giudici sono erronee. A suo dire, difatti, manca, innanzitutto, l’ ingiusto profitto per la lavoratrice ella aveva inteso solo appropriarsi di somme che la proprietaria le doveva per omessi pagamenti degli stipendi . E questo dato, sempre ragionando nell’ottica del legale, avrebbe dovuto condurre a riconoscere lo stato di necessità che ha spinto la lavoratrice a prelevare il denaro presente in cassa. Prelievo. Ogni obiezione, però, si rivela inutile, secondo i giudici della Cassazione. Ciò conduce, ovviamente, a confermare la condanna così come decisa in Appello. In primo luogo, i magistrati ritengono generico il richiamo al presunto omesso pagamento delle retribuzioni da parte del datore di lavoro . Peraltro, se anche questo dato fosse certo, andrebbe comunque censurata l’appropriazione di denaro ai danni del datore di lavoro per soddisfare una propria asserita pretesa sul fronte dello stipendio. Allo stesso tempo, va tenuto presente che la giustificazione dello stato di necessità non è applicabile, sottolineano i giudici, a reati provocati da uno stato di indigenza connesso alla situazione socio-economica della persona, soprattutto quando sia possibile porvi rimedio con comportamenti non criminalmente rilevanti . Peraltro, viene anche evidenziata la particolare fiducia riposta nella lavoratrice, adibita anche alle mansioni di cassiera ciò rende ancor più grave il ‘prelievo’ illegittimo di denaro. E in questa ottica, concludono i giudici, è irrilevante il richiamo al fatto che il datore di lavoro avesse fatto installare delle telecamere nel bar.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 27 gennaio – 12 febbraio 2016, n. 6035 Presidente Gentile – Relatore Rago Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 13/04/2015, la Corte di Appello di Lecce, riqualificato il reato di furto aggravato ascritto a D.M., come appropriazione indebita aggravata dall'art. 61 n° 11 cod. pen., rideterminava la pena in mesi sei di reclusione ed € 210,00 di multa. 2. Contro la suddetta sentenza, l'imputata, a mezzo dei proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi 2.1. VIOLAZIONE DELL'ART. 646 COD. PEN. per non avere la Corte assolto l'imputata sotto il profilo della mancanza dell'ingiusto profitto, in quanto la medesima, appropriandosi di denaro di proprietà della società presso la quale svolgeva le mansioni di cassiera, aveva inteso solo appropriarsi di somme che la proprietaria le doveva per omessi pagamenti degli stipendi 2.2. VIOLAZIONE DELL'ART. 54 COD. PEN. per non avere la Corte ritenuto la configurabilità dello stato di necessità 2.3. VIOLAZIONE DELL'ART. 61 N° 11 COD. PEN. per essere la suddetta aggravante insussistente in quanto il datore di lavoro aveva fatto installare delle telecamere 2.4. VIOLAZIONE DELL'ART. 70 COD. PROC. PEN. per avere la Corte ammesso la costituzione come parte civile del socio, nonostante fosse un soggetto giuridico diverso dalla s.n.c. dalla quale la ricorrente era stata assunta come dipendente. Considerato in diritto 1. VIOLAZIONE DELL'ART. 646 COD. PEN. la suddetta doglianza è manifestamente infondata. In punto di fatto, perché la Corte territoriale ha affermato che l'omesso pagamento delle retribuzioni da parte del datore di lavoro è solo affermata dall'imputata in assenza di riscontri convincenti ed in presenza di elementi contrari [ ] . In punto di diritto, perché l'ordinamento giuridico non prevede al di fuori dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni nella fattispecie non configurabile sotto il profilo dell'elemento materiale del reato l'appropriazione, all'insaputa e contro la volontà del datore, di denaro di costui, per soddisfare una propria asserita pretesa peraltro, nel caso di specie, anche rimasta priva di riscontri . 2. VIOLAZIONE DELL'ART. 54 COD. PEN. anche la suddetta censura è manifestamente infondata sotto un duplice profilo a in punto di fatto, perché lo stato di necessità non risulta provato, secondo quanto ha affermato la Corte b in punto di diritto perché l'esimente dello stato di necessità, che postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona non altrimenti evitabile, non può applicarsi a reati asseritamente provocati da uno stato di indigenza connesso alla situazione socio-economica qualora ad essa possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti Cass. 26143/2006 Rv. 234529 Cass. 28067/2015 Rv. 264560. 3. VIOLAZIONE DELL'ART. 61 N° 11 COD. PEN. la doglianza è manifestamente infondata, perché, per la legge, ciò che rileva è l'esistenza di una particolare fiducia che venga riposta nell'agente, circostanza questa che la Corte ha ampiamente motivato alla stregua di puntuali elementi fattuali pag. 4 . E', pertanto, del tutto irrilevante che il datore di lavoro avesse fatto installare delle telecamere. 4. VIOLAZIONE DELL'ART. 70 COD. PROC. PEN. anche la suddetta doglianza è manifestamente infondata in quanto, come ha già osservato la Corte territoriale, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, che in questa sede va ribadita, è nel senso che Il potere di querela per i reati contro il patrimonio in danno di una società spetta al legale rappresentante, ma i singoli soci, che subiscono le conseguenze patrimoniali dell'illecito, sono legittimati alla costituzione di parte civile Cass. 45089/2009 Rv. 245694 Cass. 40578/2014 Rv. 260363. 3. In conclusione, l'impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell'art. 606/3 c.p.p, per manifesta infondatezza alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in € 1.000,00. P.Q.M. DICHIARA inammissibile il ricorso e CONDANNA la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute, in questo grado, dalla parte civile Balilla Gianluca che liquida in € 3.500,00 oltre accessori di legge.