È necessaria l’indicazione specifica e temporale dei singoli atti persecutori?

Ai fini della rituale contestazione del delitto di stalking – che ha natura abituale – non si richiede che il capo di imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si sia concretato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un’adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e gli effetti derivatine alla persona offesa.

Questo il principio di diritto affermato dalla Quinta sezione Penale della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 49613, depositata il 16 dicembre 2015, nella quale gli ermellini continuano nella costante attività ermeneutica di specificazione dei contorni non sempre nitidi della fattispecie incriminatrice descritta dall’art. 612-bis c.p. e, come in questo caso, dei suoi risvolti processuali. Il caso concreto. Il ricorrente veniva condannato in primo e secondo grado per aver continuamente molestato la persona offesa, provocandole un perdurante stato di ansia e di paura ed uno stato di stress prolungato con assunzione di farmaci antidepressivi e costringendola a modificare le proprie abitudini di vita, cambiando abitazione, modificando i percorsi stradali per raggiungere il lavoro e facendosi accompagnare da terze persone. Lamenta l’imputato che il capo di imputazione non risulta essere determinato, sotto l’aspetto temporale, rilevando in particolare che il termine epoca” non consente di precisare il dies a quo dal quale trarre l’inizio della condotta persecutoria. Indeterminatezza del capo di imputazione? La Suprema Corte ritiene inammissibile il motivo premettendo che il delitto di atti persecutori è un reato di natura abituale appartiene, cioè, al novero di quei reati per la cui sussistenza è richiesta una pluralità di condotte le quali, isolatamente considerate, non costituirebbero reato reato abituale proprio , oppure costituirebbero altrettanti reati diversi da quello risultante dalla reiterazione reato abituale improprio . Qualche pronuncia di legittimità ritiene invece che il reato di stalking vada ricondotto solo nell'ambito dei reati abituali c.d. impropri, atteso che la fattispecie in esame si caratterizza per la presenza di una serie di condotte singolarmente idonee ad integrare fattispecie di reato perseguibili in via autonoma Sez. V, n. 20065/2014 . Nel consegue che ai fini della rituale contestazione, non si richiede che il capo di imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si sia concretato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un’adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e gli effetti derivatine alla persona offesa richiamata Sez. V, n. 7544/2012 . È comunque necessaria la descrizione dei singoli atti di stalking. La Suprema Corte precisa, comunque, che per consentire all’imputato di espletare il diritto di difesa, occorre indicare i segmenti della sequenza persecutoria e la loro cadenza temporale. Ciò assume fondamentale rilievo per consentire di verificare se i singoli atti non siano stati già oggetto di giudizio, non potendo, in tal caso, essere valutati come fatto integrante il reato oggetto del nuovo procedimento, né tali fatti già contestati possono essere valorizzati come elemento integrante la nuova condotta persecutoria, per non incorrere nel divieto del ne bis in idem è possibile solo valutarli come antecedente storico-giuridico, come accade quando si valorizza un reato definitivamente accertato Sez. V, n. 48391/2014 . Distinte denunce per molestie confluiscono nell’unica contestazione per stalking. Talvolta accade che nella progressione persecutoria, la vittima denunci i primi episodi molesti o minacciosi presentando più denuncia-querele che vengono successivamente riunite nell’unica contestazione di atti persecutori. Anche in questi casi, per evitare fenomeni di ne bis in idem , è necessario indicare le singole condotte moleste o minacciose, con i relativi riferimenti temporali di massima, in quanto, una volta perfezionatasi in concreto la fattispecie tipica del reato di atti persecutori, costituita dalla reiterazione delle condotte moleste e dal verificarsi da uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma, l’unica disciplina applicabile deve individuarsi in quella contenuta nell’art. 612- bis c.p. Sez. V, n. 5206/2014 . In mancanza dell’insorgenza di uno degli stati pregiudizievoli della libertà morale della persona offesa, invece, i singoli fatti denunciati andrebbero contestati come molestie o minacce continuate ex artt. 81 e 660 o 612 c.p In tali casi, qualora venisse ascritto il delitto di atti persecutori, il giudice dovrà qualificare diversamente i fatti derubricando gli stessi nelle più tenui figure incriminatrici. Possono essere contestate condotte persecutorie oltre i sei mesi dalla querela? Altra tematica collegata all’imputazione, di estremo interesse, è la seguente qualora per ipotesi gli atti persecutori si siamo perpetrati nell’arco temporale di un anno e sei mesi, al termine del quale la persona offesa presenti querela, potranno essere contestate solo le condotte dei sei mesi precedenti all’esercizio del diritto di querela o anche quelle, andando a ritroso, ancora precedenti quindi nel nostro esempio anche quelle del primo anno ? In quest’ultimo senso si è pronunciata la Suprema Corte reato Sez. V, n. 20065/2014 , ricordando che nei casi in cui il delitto non è procedibile d’ufficio i casi di procedibilità d’ufficio sono quando il fatto è commesso da soggetto ammonito dal Questore o ai danni di minore o persona diversamente abile o con minacce gravi o è connesso con altro delitto per il quale si procede d'ufficio in considerazione della natura del reato previsto dall'art. 612- bis c.p. Infatti, sul piano della condotta, in considerazione del carattere necessitato di una sua reiterazione nel tempo reato abituale , il delitto di stalking è reato abituale e non permanente. Differenza con il reato permanente. Diversamente dal reato permanente, nel quale la condotta offensiva si presenta unitaria e senza cesure temporali, nel reato abituale, invece, la condotta è caratterizzata da una pluralità di atti che, nel loro complesso, realizzano l'offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Pertanto, non è applicabile al delitto di atti persecutori il principio, proprio del reato permanente, secondo cui il diritto di presentare querela può essere esercitato dall'inizio della permanenza fino alla decorrenza del termine di sei mesi dal giorno della sua cessazione e la sua effettiva presentazione rende procedibili tutti i fatti consumati nell'arco della permanenza. Il delitto di atti persecutori, in quanto reato necessariamente abituale, non è configurabile in presenza di un'unica, per quanto grave, condotta di molestie e minaccia Sez. V, n. 48391/2014 e presenta l'ulteriore caratteristica della necessità, ai fini della configurabilità stessa del reato, della reiterazione delle condotte. Tale elemento rileva anche ai fini della procedibilità, pertanto nell'ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere oltre i sei mesi previsti dalla norma, rispetto alla prima o alle precedenti condotte, occorrerà necessariamente fare riferimento anche a tali pregresse condotte, indipendentemente dal decorso del termine di sei mesi per la proposizione della querela, ai sensi dell'art. 612- bis , comma 4, c.p

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 24 aprile – 16 dicembre 2015, n. 49613 Presidente Vessichelli – Relatore Positano Ritenuto In Fatto 1. B.C. propone personalmente ricorso per cassazione contro la sentenza pronunciata dalla Corte d'Appello di Venezia, in data 25 marzo 2014, che, in parziale riforma della decisione emessa dal Tribunale di Padova, in data 24 gennaio 2013, rideterminava la pena nei confronti dell'imputato, riconoscendo le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, confermando l'affermazione di responsabilità del B. per il reato di cui all'art. 612 bis c.p, per avere reiteratamente molestato G.M. , in modo da provocare nella medesima un perdurante stato di ansia e di paura ed uno stato di stress prolungato con conseguente assunzione di farmaci antidepressivi, così da costringere la persona offesa a modificare le proprie abitudini di vita, cambiando abitazione, modificando i percorsi stradali per raggiungere il lavoro e facendosi accompagnare da terze persone. 2. Il ricorso viene articolato in cinque motivi, lamentando la difesa - violazione di legge in relazione all'art. 552 c.p.p. per indeterminatezza, sotto l'aspetto temporale, del capo d'imputazione - mancata assunzione, ai sensi dell'art. 606 lett d c.p.p., di una prova decisiva consistente nella perizia psichiatrica nei confronti dell'imputato richiesta in sede di appello - vizio di motivazione nella parte in cui la Corte territoriale disattende la richiesta di perizia psichiatrica formulata dal difensore in sede di appello - carenza di motivazione sulla perdurante sussistenza del grave stato d'ansia in capo alla persona offesa - vizio di motivazione in ordine alla commisurazione della pena. Considerato in diritto La sentenza impugnata non merita censura. 1. Con il primo motivo il difensore lamenta violazione di legge in relazione all'art. 552 c.p.p. per indeterminatezza, sotto l'aspetto temporale, del capo d'imputazione, rilevando che il termine epoca non consente di precisare il dies a quo dal quale computare l'inizio della condotta illecita. 2. Il motivo è inammissibile poiché ripetitivo delle doglianze di appello e perché non si confronta con la puntuale motivazione contenuta nella sentenza di secondo grado nella quale, con argomentazione giuridicamente corretta, è evidenziato che, ai fini della rituale contestazione del delitto di stalking - che ha natura di reato abituale - non si richiede che il capo di imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si sia concretato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un'adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e gli effetti derivatine alla persona offesa Sez. 5, Sentenza n. 7544 del 25/10/2012 Rv. 255016 . 3. La Corte ha ragionevolmente precisato che, in considerazione della natura della contestazione, la data deve individuarsi in un momento successivo all'introduzione della fattispecie contestata e, dunque, a partire dal mese di febbraio dell'anno 2009. 4. Con il secondo motivo la difesa deduce la mancata assunzione, ai sensi dell'art. 606 lett. d c.p.p., di una prova decisiva, rappresentata dalla perizia psichiatrica nei confronti dell'imputato, richiesta in sede di appello e tesa ad accertare la capacità di intendere e di volere. 5. Con il terzo motivo il difensore lamenta vizio di motivazione nella parte in cui la Corte territoriale disattende la richiesta di perizia psichiatrica formulata dal difensore in sede di appello. 6. I motivi possono essere trattati congiuntamente attenendo alla medesima questione. La difesa fa presente di avere documentato l'accertamento espletato dalla Commissione medica di Padova, relativo al riconoscimento di una invalidità civile pari all'80%, nonché la consulenza tecnica del 15 settembre 1999 depositata nell'ambito del procedimento per separazione giudiziale, aggiungendo che l'imputato, nell'anno 2014 era stato sottoposto ad una perizia psichiatrica volta ad accertare la capacità di intendere e di volere nell'ambito di un procedimento penale relativo al reato di atti persecutori. Inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, dalla documentazione sanitaria emergeva un verbale di accertamento da parte dell'Inps, risalente all'anno 2012, attestante un disturbo di personalità paranoidea e morbo di Crohn. Dall'insieme di tali elementi non sarebbe possibile sostenere, come ritenuto la Corte territoriale, che i dati sanitari più recenti non riguardano problemi legati a patologie psichiatriche. 7. Preliminarmente va rilevato che la Corte territoriale sul punto ha opportunamente evidenziato che la richiesta era stata formulata, non nell'atto di appello, ma solo in sede di discussione davanti alla Corte e che la stessa difesa, nell'atto di appello, aveva escluso che i disturbi di cui soffriva l'imputato fossero idonei ad incidere sulla sua capacità d'intendere e di volere. I giudici di merito hanno esaminato la documentazione richiamata dalla difesa, rappresentata dagli atti depositati all'udienza del 13 marzo 2014 relativi al verbale redatto dalla ASL in occasione della visita del 23 gennaio 2006 attestante una personalità paranoide, dal giudizio definitivo dell'INPS che ha accertato una invalidità civile permanente nella misura dell'80% con diagnosi di Disturbo della personalità paranoidea, morbo di Crohn e rinvio a pregresse e generiche turbe psichiche. 8. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, con motivazione assolutamente congruente, la Corte territoriale ha osservato che era rimasto immutato nel tempo lo stile di vita, libero da impegni familiari e sociali, che aveva impedito alla personalità paranoide di scompensarsi in senso francamente psicotico , consentendo di escludere che la capacità di intendere e di volere fosse anche solo scemata. 9. Con il quarto motivo la difesa deduce carenza di motivazione sulla perdurante sussistenza del grave stato d'ansia in capo alla persona offesa. Secondo il difensore per ritenere provato l'evento del delitto in questione non sarebbero sufficienti le dichiarazioni della persona offesa e i riscontri costituiti dalle dichiarazioni del marito e dei medici che l'avevano in cura, essendo necessario un riscontro esterno oggettivo, costituito da un accertamento medico. 10. La censura è manifestamente infondata poiché la sussistenza del grave e perdurante stato di turbamento emotivo prescinde dall'accertamento di uno stato patologico conclamato, essendo sufficiente che gli atti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità dell'equilibrio psicologico della vittima, per cui assumono rilevanza tanto le dichiarazioni della persona offesa, quanto le sue condotte, conseguenti e successive all'operato dell'agente. L'orientamento assolutamente costante della giurisprudenza è nel senso che l'effetto destabilizzante deve essere in qualche modo oggettivamente rilevabile Cass. 14 aprile 2012, n. 14391 . Nel caso di specie la prova è correttamente ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavati dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, da quelle dei testi escussi e dai comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente. In particolare, sono state valorizzate le dichiarazioni della persona offesa che ha riferito che a causa dei comportamenti dell'imputato, rappresentati da minacce e molestie e in conseguenza degli appostamenti presso la nuova residenza, era stata costretta a rivolgersi ad uno psicologo e ad assumere antidepressivi e sonniferi e, da ultimo, era stata vittima di attacchi di panico. Circostanze queste confermate dal marito della donna e dal medico di base. Quest'ultimo ha riferito di essersi occupato della paziente perché stressata per la persecuzione operata da una persona che viveva nel suo stabile. Il professionista ha ricordato che la stessa presentava, per questo fatto, uno stato di stress, manifestando sintomi di una sindrome ansiosa depressiva, che le impediva di dormire e di riposare. 11. Con l'ultimo motivo il difensore deduce vizio di motivazione in ordine alla commisurazione della pena, rideterminata in anni 1 e mesi 6 di reclusione, successivamente ridotta per il rito abbreviato, nella pena finale di anni 1 di reclusione. Sotto tale profilo sarebbe insufficiente il riferimento generico ai criteri previsti dall'articolo 133 del codice penale, senza l'indicazione degli elementi giustificativi che avevano fatto ritenere alla Corte territoriale di dover applicare una pena base così distante dal minimo edittale, previsto dalla legge nella misura di mesi 6 di reclusione. 12. La censura è infondata poiché la Corte nel determinare la pena, dopo avere bilanciato la recidiva con il riconoscimento delle attenuanti generiche equivalenti, ha espressamente fatto riferimento alla gravità dei fatti contestati, sottolineando il periodo di tempo per il quale la condotta si è protratta, in relazione al danno cagionato alla persona offesa. 13. Alla pronuncia di rigetto consegue ex art. 516 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Del pari, il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità, che, in relazione all'attività svolta, vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo, oltre accessori di legge. 14. Considerata la peculiarità della fattispecie, riguardante reati commessi in ambito familiare, la Corte ritiene - ai sensi dell'art. 52 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 - di disporre l'omissione, in caso di diffusione del presente provvedimento, dell'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti del processo. Alla pronuncia di rigetto consegue ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente ai pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in complessive Euro 2000, oltre accessori come per legge. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti del processo a norma dell'art. 52 dlgs 196/03 in quanto disposto d'ufficio.