E’ contrabbando se l’elusione dell’accertamento si realizza con artifizi e condotte fraudolente

La contravvenzione di cui all’art. 303 d.P.R. n. 43/1973, relativa alla falsa dichiarazione d’origine di merci importate, non si configura se la discrepanza tra i valori denunciati e quelli accertati dei prodotti importati non deriva da una mera dichiarazione, ma da una condotta fraudolenta, finalizzata a sottrarre, interamente o parzialmente, le merci stesse al dovuto diritto di confine. In questo caso deve reputarsi integrata la più grave fattispecie di contrabbando.

In questo senso di è pronunciata la Corte di Cassazione, con sentenza n. 47041/2015, depositata il 27 novembre. Il caso. Il Tribunale di Napoli confermava il sequestro preventivo di merci, disposto dal gip del Tribunale di Nola, in un procedimento concernente gli illeciti di cui agli artt. 81, comma 2, 110 c.p. e 282, 292, 295, comma 2, lett. c , d.P.R. n. 43/1973, oltre agli artt. 483, 61, n. 2,640, comma 2, c.p. . In particolare, all’indagata veniva rimproverato di aver emesso una dichiarazione doganale attestante l’importazione di merci turche, oltre ad una dichiarazione sostitutiva di certificazione indirizzata all’ufficio delle dogane, in cui, in qualità di legale rappresentante di una società, rappresentava, falsamente, che questa avesse diritto all’emissione di una dichiarazione d’intento per l’importazione della merce, in regime di sospensione dell’IVA. All’indagata, inoltre, era contestato di aver introdotto nel territorio nazionale del tessuto di provenienza turca, sottraendolo al pagamento dell’IVA all’importazione, con l’aggravante di aver posto in essere tale condotta, attraverso gli illeciti contro la pubblica fede di cui sopra. L’indagata ricorreva per cassazione, lamentando violazione di legge in relazione alla carente motivazione del nesso di pertinenza tra le merci sequestrate ed i reati contestati. La ricorrente, inoltre, rilevava come nel caso di specie fosse ipotizzabile la violazione amministrativa di cui all’art. 303 del d.P.R. n. 43/1973 falsa dichiarazione d’origine e non i reati contestati. Le condotte fraudolente implicano la più grave ipotesi di contrabbando. La Suprema Corte ha ribadito l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’unico requisito richiesto, ai fini del sequestro preventivo, ai sensi dell’art. 321, comma 2, c.p.p. è da rinvenirsi nella confiscabilità delle cose, da ritenersi certamente sussistente con riferimento alle merci di contrabbando, ai sensi dell’art. 301, comma 1, d.P.R. n. 43/1973. Il Collegio ha, pertanto, escluso la necessità della dimostrazione della pericolosità delle merci e della loro connessione con l’illecito contestato. In merito alla contravvenzione di cui all’art. 303 d.P.R. n. 43/1973, gli Ermellini hanno precisato che la stessa non si configura ove la divergenza tra i valori denunciati e quelli accertati delle merci importate non derivi da una mera dichiarazione, ma da una condotta fraudolenta, finalizzata a sottrarre, interamente o parzialmente, i prodotti di cui sopra al dovuto diritto di confine. Nel caso di specie, la Corte di legittimità ha ritenuto fossero sussistenti gravi indizi in merito alla sussistenza del più grave illecito di cui all’art. 292 del d.P.R. n. 43/1973 contrabbando . Per le ragioni sopra esposte, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 23 settembre – 27 novembre 2015, n. 47041 Presidente Fiale – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza del 28 ottobre 2014, il Tribunale di Napoli ha confermato il decreto di sequestro preventivo di merci emesso dal Gip dei Tribunale di Noia il 19 settembre 2014, in relazione ai reati di cui agli artt. 81, secondo comma, 110 cod. pen., 282, 292, 295, comma 2, lettera c , del d.P.R. n. 43 del 1973, nonché 483, 61, n. 2 , 640, secondo comma, cod. pen. Si contesta, in particolare, all'indagata per avere, quale legale rappresentante di una società emesso la dichiarazione doganale dei 7 luglio 2014, attestante l'importazione di merci turche, nonché la dichiarazione sostitutiva di certificazione indirizzata all'ufficio delle dogane, sempre dei 7 luglio 2014, in cui asseriva falsamente che la società aveva diritto all'emissione di una dichiarazione d'intento per importare la merce suddetta in regime di sospensione dell'Iva per il plafond prodotto nell'anno fiscale precedente e ancora capiente emesso la dichiarazione d'intento dei 4 luglio 2014, in cui asseriva falsamente che la sua società aveva acquistato la qualità di esportatore abituale, mentre la società stessa non risultava avere mai effettuato cessioni all'esportazione né mai aveva acquistato il plafond e i requisiti normativi previsti introdotto nel territorio nazionale 865 rotoli di tessuto di provenienza turca, dei valore nominale di euro 114.396,11, sottraendoli totalmente al pagamento dell'Iva all'importazione, pari a euro 25.167,14 con l'aggravante di aver commesso il fatto in connessione con reati contro la pubblica fede capo A perché, al fine di commettere il delitto di cui al capo A, attestato e dichiarato falsamente che la sua società aveva la qualità di esportatore abituale e che aveva diritto all'emissione della dichiarazione d'intento per importare la merce in regime di sospensione Iva capo B mediante gli artifici e i raggiri di cui ai capi precedenti, indotto in errore i funzionari doganali sulla correttezza e liceità dell'importazione, procurandosi un ingiusto profitto patrimoniale, pari all'Iva evasa capo C . 2. - Avverso l'ordinanza indagata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si lamenta l'erronea valutazione circa la sussistenza di finalità preventive e la violazione dei principi di proporzionalità ed adeguatezza della misura, sul rilievo che non vi sarebbe la prova di un aggravamento dei reato né di un pericolo di reiterazione, perché il sequestro preventivo di una cosa di cui è consentita la confisca avrebbe quale presupposto il nesso strumentale tra la cosa e il reato. 2.2. - In secondo luogo, si prospetta la mancanza della prova dei nesso di pertinenza tra le merci sequestrate e il reato, sul rilievo che il Gip si era limitato a richiamare le notizie di reato e che il Tribunale non si sarebbe pronunciato sul relativo motivo di doglianza. 2.3. - In terzo luogo, si lamenta che il Tribunale non avrebbe considerato la decisiva prova a discarico rappresentata dalla circostanza che la formazione della dichiarazione d'intento era stata frutto di un errore esclusivo dei commercialista della società, il quale - ad avviso della difesa - aveva adeguatamente spiegato le ragioni di tale errore. 2.4. - Con una quarta censura, si rilevano la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, quanto alla mancata considerazione della documentazione fornita dal commercialista, dalla quale risultava che la predisposizione della dichiarazione d'intento era stata frutto di un errore materiale da parte sua. 2.5. - Non si sarebbe considerato, in quinto luogo, che era inverosimile che una società quale quella dell'indagata emettesse una dichiarazione d'intento per poter beneficiare dei regime sospensivo del versamento Iva, trattandosi di un atto facilmente riscontrabile e verificabile da parte dell'amministrazione competente. A tali considerazioni la ricorrente aggiunge che, nel caso in esame, sarebbe al più ipotizzabile la violazione amministrativa di cui all'art. 303 del d.P.R. n. 43 del 1973, fattispecie che punisce la dichiarazione infedele per negligenza, ignoranza, o grossolano errore nell'indicazione della quantità, qualità, valore delle merci. La condotta tenuta dall'indagata sarebbe, comunque, inoffensiva, perché l'induzione in errore del pubblico ufficiale potrebbe avere luogo soltanto qualora l'attestazione di questo non si limitasse a recepire dichiarazione del privato, ma fosse frutto di una verifica della conformità delle dichiarazioni documentali alla situazione riscontrata. Si lamenta, infine, che il blocco della merce persegue surrettiziamente la finalità della confisca, costituendo così una sorta di pena anticipata, in mancanza di una verifica dell'intrinseca pericolosità dei beni. Considerato in diritto 3. Il ricorso è inammissibile. 3.1. - Il terzo e il quarto motivo di ricorso - che possono essere esaminati congiuntamente per la loro sostanziale identità di oggetto, essendo entrambi relativi al fumus dei reati in contestazione - sono inammissibili. - La difesa non contesta la successione dei fatti e degli atti descritti nell'imputazione, limitandosi a lamentare, quanto ai gravi indizi dei reati contestati, la mancata considerazione della documentazione prodotta dal commercialista della società, da cui sarebbe risultato che la predisposizione della dichiarazione d'intento era stata frutto di un errore materiale da parte sua. Si tratta di affermazioni già ampiamente prese in considerazione dal Tribunale, il quale correttamente evidenzia che, sul piano oggettivo, la circostanza che la dichiarazione d'intento sia stata predisposta dal fiscalista non esclude la corrispondenza fra la fattispecie concreta e la fattispecie astratta, potendo al più rilevare per la sussistenza dell'elemento soggettivo, che non può essere preso considerazione ai fini dell'emanazione del provvedimento cautelare reale. A tali considerazioni lo stesso Tribunale aggiunge che, in ogni caso, la ricostruzione secondo cui il commercialista avrebbe commesso un errore risulta del tutto inverosimile, perché tale errore sarebbe consistito - secondo quanto letteralmente dedotto dalla difesa - in un non meglio specificato erroneo travaso di dati fiscali nell'apposito campo relativo alle esportazioni nella dichiarazione Iva dati fiscali inesistenti come tali, perché la società dell'indagata non aveva posto in essere nell'esercizio precedente alcuna operazione utile all'acquisizione della qualifica di esportatore abituale. 3.2. - Manifestamente infondati sono il primo e il secondo motivo di doglianza, perché riferiti ad una pretesa mancanza di prova della pericolosità delle merci e della loro connessione con i reati, nonché del pericolo di aggravamento dei reati stessi e di commissione di ulteriori reati. Si tratta, infatti, di elementi estranei al presupposto del sequestro preventivo, che, nel caso di specie, è stato emesso ai sensi del comma 2 dell'art. 321 cod. proc. pen., il quale richiede il solo requisito della confiscabilità delle cose, certamente sussistente per le merci di contrabbando ai in base all'articolo 301, comma 1, del d.P.R. n. 43 del 1973, e non anche la dimostrazione del pericolo in concreto ex multis, sez. 3, 25 giugno 2013, n. 43945, rv. 257418 . E ciò, a prescindere, dal fatto che - come correttamente evidenziato dal Gip e dal Tribunale - nel caso di specie il pericolo di aggravamento delle conseguenze dei reati contestati esiste in concreto, perché la rivendita delle merci porterebbe a compimento l'intento di illecito arricchimento patrimoniale perseguito dall'indagata attraverso gli artifici posti in essere. 3.3. - Inammissibile, per genericità, è la censura - proposta nell'ambito del quinto motivo di doglianza - secondo cui è inverosimile che una società quale quella dell'indagata abbia emesso una dichiarazione d'intento per poter beneficia del regime sospensivo del versamento Iva, trattandosi di un atto facilmente riscontrabile e verificabile da parte dell'amministrazione competente. La facilità di accertamento è infatti meramente asserita dalla difesa, la quale però non contesta il fatto che l'indagata abbia dichiarato di essere sostanzialmente un prestanome di terze persone che l'avevano coinvolta nell'operazione commerciale, così mettendo ella stessa in dubbio la serietà e il modus operandi della società della quale è legale rappresentante. Quanto al rilievo secondo cui nel caso in esame sarebbe al più ipotizzabile la violazione amministrativa di cui all'art. 303 del d.P.R. n. 43 del 1973 - fattispecie che punisce la dichiarazione infedele per negligenza, ignoranza, o grossolano errore nell'indicazione della quantità, qualità, valore delle merci - devi rilevarsi che lo stesso appare manifestamente infondato, come già correttamente evidenziato dal Tribunale. La linea di demarcazione fra il delitto di contrabbando aggravato e l'ipotesi di cui al richiamato articolo 303 è stata più volte tracciata dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha evidenziato1 tale ultima ipotesi non è configurabile qualora la discordanza tra i valori denunciati e quelli accertati delle merci importate sia conseguenza non di una semplice dichiarazione, ma di un fraudolento comportamento, volto a sottrarre le merci, in tutto o in parte, al dovuto diritto di confine ex multis, sez. 3, 9 febbraio 2011, n. 8096, rv. 249579 cosicché ciò che differenzia le due violazioni è la circostanza che l'elusione dell'accertamento doganale, nell'ipotesi dei delitto, non avviene mediante una mera dichiarazione, ma anche attraverso altre attività finalizzate ad avvalorarla, come la predisposizione di documentazione fittizia o altri simili artifici. Sussistono, dunque, nel caso di specie, ampi indizi della più grave ipotesi prevista dall'art. 292 del d.P.R. n. 43 del 1973, perché la dichiarazione non veritiera, oltre a non attenere alla qualità, quantità e origine della merce importata, si fonda su un meccanismo fraudolento, basato sugli atti falsi di cui all'imputazione. Manifestamente infondate risultano anche le altre considerazioni svolte nell'ambito dei quinto motivo di ricorso sulla pretesa inoffensività della condotta e sul preteso indebito perseguimento, attraverso il sequestro preventivo, della finalità della confisca. Quanto al primo profilo, è sufficiente qui rilevare che gli artifici posti in essere escludono in radice - come ampiamente sottolineato dal Gip e dal Tribunale - l'inoffensività della condotta, che è consistita nel trarre in inganno gli uffici competenti circa l'applicabilità dei regime di sospensione dell'IVA. Quanto al secondo, è sufficiente qui richiamare nuovamente il disposto dell'art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il quale prevede che il sequestro preventivo possa - come nel caso di specie - essere finalizzato alla confisca, indipendentemente dalla dimostrazione della concreta pericolosità della cosa che ne è oggetto. 4. - Il ricorso deve perciò essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese dei procedimento nonché quello dei versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.