L’atto di individuazione di persona non richiede la presenza di un difensore

L’art. 364 c.p.p. non prevede tra gli atti di indagine con diritto di assistenza del difensore anche l’atto di individuazione di persona.

Questo l’orientamento condiviso dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 44380, depositata il 3 novembre 2015. Il fatto. L’imputata in relazione al reato di cui all’art. 495 c.p. Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri , per aver dichiarato ai carabinieri che, avendola sorpresa a sottrarre merce da un supermercato, l’avevano invitata a declinare le proprie generalità, un nome e una data di nascita diversi da quelli reali. Contro tale decisione propone ricorso in Cassazione l’imputata sostenendo il divieto di utilizzazione delle dichiarazioni sulle proprie generalità da lei rese sul luogo e nell’immediatezza del fatto agli agenti operanti, senza la presenza di un difensore. Atti di indagine e assistenza del difensore. I giudici di legittimità condividono sul punto l’orientamento ormai consolidato in giurisprudenza in base al quale l’art. 364 c.p.p. non prevede tra gli atti di indagine con diritto di assistenza del difensore anche l’atto di individuazione di persona, sia perché gli atti compiuti dal p.m. e dalla polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari hanno una funzione esclusivamente endoprocessuale, cioè finalizzata alla prosecuzione delle stesse, sia perché per la natura dell’atto è impossibile predisporre l’assistenza di un difensore prima di aver identificato la persona che, solo a partire da quel momento, assumerà la veste di persona sottoposta alle indagini . Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri. Precisa la Corte che correttamente la condotta dell’imputata è stata ricondotta al paradigma normativo di cui all’art. 495 c.p., falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri. Proprio il fatto che i carabinieri intervennero in relazione ad un tentativo di furto commesso dall’imputata, evidenzia che le dichiarazioni di questa in merito alle proprie generalità erano destinate ad essere trasferite negli atti pubblici delle attività di indagine. Pertanto, sono dichiarazioni preordinate a garantire al pubblico ufficiale le proprie qualità personali e quindi, se mendaci, idonee ad integrare la falsa attestazione, elemento distintivo del reato di cui all’art. 495 c.p Queste le ragioni in base alle quali la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 15 maggio – 3 novembre 2015, n. 44380 Presidente Vessichelli – Relatore Guardiano Fatto e diritto 1. Con sentenza pronunciata il 5.6.2014 la corte di appello di Palermo confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Palermo, in data 18.3.2013, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato G.L. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato di cui all'art. 495, c.p., per avere dichiarato ai carabinieri che, avendola sorpresa,in data 27.4.2012, a sottrarre mercé in un supermercato di , l'avevano invitata a declinare le proprie generalità, di chiamarsi L. e di essere nata il omissis , laddove gli agenti operanti avevano poi accertato che il nome dell'imputata era L. e che la stessa era nata il omissis . 2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, personalmente, l'imputata, lamentando 1 violazione di legge in ordine agli artt. 350, co. 6, c.p.p., 63, c.p.p. e 496, c.p., stante la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese agli agenti operanti dall'imputata, che, quando erano giunti i carabinieri, si era già resa responsabile del reato di tentato furto, per il quale era stata fermata dal direttore e dalla guardia giurata del centro commerciale, sicché la condotta della G. appare riconducibile, giusta la previsione dell'art. 349, co. 4, c.p.p., al paradigma normativo di cui all'art. 496, c.p. 2 vizio di motivazione, in quanto risulta dagli atti che la G. , all'atto del pagamento, aveva chiesto alla cassiera di compilare la tessera clienti per potere usufruire degli sconti, fornendo le sue esatte generalità, riportate sulla tessera in questione, acquisita agli atti, condotta che appare in contrasto con la volontà di celare le sue vere generalità, che, ove sussistente, si sarebbe manifestata sin dall'inizio della sua condotta criminosa. 3. Il ricorso non può essere accolto, per le seguenti ragioni. 4. Ed invero, deve ritersi infondato l'assunto difensivo sul divieto di utilizzazione delle dichiarazioni sulle proprie generalità rese dalla G. sul luogo e nell'immediatezza del fatto indagata agli agenti operanti, in assenza di un difensore. Come affermato, infatti, dall'orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, l'art. 364, c.p.p., non prevede tra gli atti di indagine con diritto di assistenza del difensore anche l'atto di individuazione di persona, sia perché gli atti compiuti dal p.m. e dalla polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari hanno una funzione esclusivamente endoprocessuale, cioè finalizzata alla prosecuzione delle stesse, sia perché per la natura dell'atto è impossibile predisporre l'assistenza di un difensore in incertam personam , prima cioè di avere identificato la persona che, solo a partire da quel momento, assumerà la veste di persona sottoposta alle indagini cfr. Cass., sez. III, 11.5.2004, n. 37870, rv. 230032 . Correttamente la condotta della G. è stata ricondotta al paradigma normativo di cui all'art. 495, c.p Come affermato dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, infatti, la differenza tra le ipotesi di reato previste dagli artt. 495 e 496 c.p. consiste nel fatto che nel primo caso le false dichiarazioni - in ordine ad identità o qualità della persona - devono essere rese al pubblico ufficiale in un atto pubblico art. 495 comma 1 c.p. o destinate ad essere riprodotte in esso art. 495 comma 2 c.p. , mentre nel secondo le false dichiarazioni, sempre rese a pubblico ufficiale, non hanno alcuna attinenza - né diretta né indiretta - con la formazione di atto pubblico cfr. Cass., sez. V, 19/11/1997, n. 11808 rv. 209234 . Il reato di cui all'art. 496, c.p., dunque, ha natura residuale, essendo configurabile solo quando la falsità, come si è detto, non abbia alcuna attinenza, né diretta né indiretta, con la formazione di un atto pubblico, inteso in senso lato cfr. Cass., sez. V, 04/12/2007, n. 4420, rv. 238343 . Orbene, proprio la circostanza che i carabinieri intervennero in relazione ad un tentativo di furto commesso dall'imputata, rende evidente che le dichiarazioni di quest'ultima in ordine alle proprie generalità erano destinate ad essere trasfuse negli atti pubblici inerenti alle relative attività di indagine, giusta la previsione dell'art. 349, c.p.p Si tratta, pertanto, di dichiarazioni che rivestono il carattere di attestazione preordinata a garantire al pubblico ufficiale le proprie qualità personali e, quindi, ove mendaci, ad integrare la falsa attestazione che costituisce l'elemento distintivo del reato di cui all'art. 495, c.p., nel testo modificato dalla l. n. 125 del 2008, rispetto all'ipotesi di reato di cui all'art. 496, c.p., gravando sull'indagato l'obbligo di fornire le proprie generalità secondo verità cfr. Cass., sez. V, 26.11.2014, n. 7286, rv. 262658 Cass., sez. sez. V, 5.2.2014, n. 15654, rv. 259876 . 2. Inammissibile deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, in quanto con esso vengono prospettate censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, in quanto tali, precluse in sede di giudizio di cassazione cfr. Cass., sez. V, 22.1.2013, n. 23005, rv. 255502 Cass., sez. I, 16.11.2006, n. 42369, rv. 235507 Cass., sez. VI, 3.10.2006, n. 36546, rv. 235510 Cass., sez. III, 27.9.2006, n. 37006, rv. 235508 . Ed invero non può non rilevarsi come il controllo del giudice di legittimità, anche dopo la novella dell'art. 606, c.p.p., ad opera della l. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, n. 22256, rv. 234148 . Esulando, pertanto, dal controllo demandato alla Suprema Corte la rilettura degli elementi di fatto posti a base della decisione, non costituisce vizio comportante controllo di legittimità la mera prospettazione di una diversa e, per il ricorrente, più favorevole valutazione delle emergenze processuali, come quella prospettata dalla ricorrente cfr. Cass., sez. V, 21.4.1999, n. 7569, rv. 213638 . Peraltro la corte territoriale, con motivazione approfondita ed immune da vizi, ha evidenziato come le reali generalità dell'imputata non vennero rappresentate da nessuno dei presenti nel supermercato ai carabinieri intervenuti, i quali riuscirono ad identificare compiutamente l'imputata solo grazie all'intervento del suo fidanzato, che sopraggiunse in un secondo momento, recando con sé la patente di guida dell'imputata recante le sue esatte generalità, dopo che la G. aveva reiteratamente fornito quelle false. Del resto, come correttamente rilevato dalla corte territoriale, i carabinieri non avrebbero adempiuto al dovere di identificazione previsto dall'art. 349, c.p.p., se si fossero limitati a ricavare le generalità dell'imputata dalle dichiarazioni del personale del supermercato ovvero dalla tessera clienti che, peraltro, non venne loro consegnata , senza procedere a richiederle alla diretta interessata. 5. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso di cui in premessa va, dunque, rigettato, con condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.