Sì alla tutela della libera espressione del giornalista, purché operi correttamente ed in buona fede

Il diritto del giornalista alla libertà di espressione è tutelato a condizione che egli agisca in buona fede, sulla base di fatti correttamente riportati, e fornisca informazioni affidabili e precise nel rispetto dell’etica giornalistica esprimere una valutazione su fatti reali quando non vi sia base oggettiva perché i fatti in questione si prestino alla lettura che ne viene offerta, può realizzare una condotta diffamatoria, così come a fortiori è offensivo dell’altrui reputazione addebitare a taluno fatti non sono reali.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39195/15, depositata il 28 settembre. Il caso. Il tribunale condannava un uomo alla pena ritenuta di giustizia per il delitto di diffamazione aggravato a mezzo stampa, con riferimento alla pubblicazione su un periodico – del quale l’uomo era direttore responsabile -, di più articoli a firma dell’imputato, lesivi del sindaco di un comune sardo, di sua moglie e del direttore generale del comune. La corte d’appello territoriale confermava la sentenza di primo grado. Avverso tale pronuncia, propone ricorso per cassazione l’imputato, richiamando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo secondo cui deve intendersi precluso agli Stati membri di adottare misure punitive atte a dissuadere gli organi di stampa dall’esercizio delle proprie funzioni di controllo, con la conseguenza che il ricorso alla sanzione detentiva può intendersi giustificato solo in ipotesi eccezionali che qui non potrebbero ravvisarsi, stante una presunta lesione dell’onore arrecata ad un numero assai contenuto di soggetti e mediante articoli apparsi su un giornale la cui distribuzione era limitata ad un ristretto ambito territoriale. È incompatibile con la CEDU disincentivare il giornalista dallo svolgimento del proprio compito. Sul punto, gli Ermellini hanno preliminarmente precisato che il giudice sovranazionale ha ripetutamente affermato che la legittimità dell’ingerenza di uno Stato nell’esercizio del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero – e, più in particolare, alla libertà di stampa -, deve essere valutata anche con riferimento alla natura ed all’afflittività delle pene, non consentendo l’art. 10 CEDU che si adottino misure punitive tali da dissuadere i mezzi di comunicazione dell’adempiere alla primaria funzione sociale di allertare il pubblico, garantendo alla generalità dei consociati di rimanere informati su eventuali abusi dei pubblici poteri . Tale principio, ricordano i Giudici di Piazza Cavour, appartiene anche alla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale è incompatibile con la CEDU la previsione, anche soltanto astratta, di strumenti che disincentivino il giornalista a svolgere serenamente il proprio compito informativo. Il giornalista deve però agire in buona fede. Secondo parte della dottrina, proseguono dal Palazzaccio, ciò comporterebbe l’automatica preclusione dell’applicazione di misure detentive ai reati commessi a mezzo della stampa tuttavia, secondo la Corte di legittimità occorre considerare che la stessa Corte europea ha riconosciuto nella materia in esame la perdurante legittimità di un trattamento sanzionatorio detentivo, nella ricorrenza di ipotesi eccezionali connotate dalla lesione, arrecata attraverso un mezzo di informazione, di altri diritti fondamentali . Secondo il Supremo Collegio, alle medesime conclusioni si deve pervenire in presenza di una notizia diffamatoria non in quanto espressiva di un giudizio di valore negativo e obiettivamente non condivisibile, ma tout court non rispondente al vero e pubblicata nella consapevolezza del giornalista circa la falsità dell’informazione. Il diritto del giornalista alla libertà di espressione, infatti, proseguono gli Ermellini, è tutelato a condizione che egli agisca in buona fede, sulla base di fatti correttamente riportati, e fornisca informazioni affidabili e precise nel rispetto dell’etica giornalistica esprimere una valutazione su fatti reali quando non vi sia base oggettiva perché i fatti in questione si prestino alla lettura che ne viene offerta, può realizzare una condotta diffamatoria, così come a fortiori è offensivo dell’altrui reputazione addebitare a taluno fatti che reali non sono solo nella prima ipotesi, tuttavia, alla luce della giurisprudenza sovranazionale, deve ritenersi inibito il ricorso alla pena detentiva. Nel caso di specie, la corte territoriale ha correttamente ed approfonditamente evidenziato i numerosi profili di falsità della rappresentazione delle notizie apparsi sugli articoli de quibus – elementi, questi, che precludono in radice qualunque spazio di tutela ai sensi dell’art. 10 CEDU. Per questi motivi, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso in esame.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 26 gennaio – 28 settembre 2015, n. 39195 Presidente Bruno – Relatore Micheli Ritenuto in fatto Il difensore di L.T. ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe, recante la conferma della sentenza di condanna del suo assistito emessa dal Tribunale di Cagliari, in data 15/12/2009 alla pena di mesi 10 di reclusione per il delitto di diffamazione aggravata a mezzo stampa, in ipotesi commesso in danno di L.R. ed I.D., costituitisi parti civili, nonché di una ulteriore persona offesa I.M. i fatti si riferiscono alla pubblicazione sul periodico Quartu Sera - dei quale il T. era direttore responsabile - di più articoli a firma dello stesso imputato, lesivi della reputazione dei R. sindaco del comune di Quartu Sant'Elena all'epoca delle condotte contestate , della di lui moglie e dei direttore generale dello stesso comune. Nel corpo della motivazione del provvedimento impugnato, si legge che l'opzione del giudice di primo grado per la pena detentiva, come pure l'entità dei trattamento sanzionatorio, si giustificano ampiamente in ragione dell'estrema gravità delle false accuse mosse dal T. alle persone offese. Né si ritiene che la valenza diffamatoria sia attenuata dal fatto che gli articoli in contestazione furono pubblicati in un periodico a diffusione assai circoscritta. In realtà, il periodico di T. era diffuso in modo assai capillare, anche gratuitamente, a Quartu Sant'Elena, che per numero di abitanti è fra i più popolosi comuni della Sardegna. D'altra parte, gli articoli diffamatori non riguardavano personaggi_ oscuri e ignoti ai più, bensì il sindaco oltre alla moglie e il direttore generale dei comune, anche in relazione ai loro ruoli istituzionali, con uno spargimento di discredito di straordinaria incisività e tale da suscitare interesse ed attenzione in tutti i cittadini . La Corte territoriale poneva altresì l'accento sulla necessità di valutare la corretta dosimetria della pena anche alla luce dei gravissimi e numerosi precedenti penali dell'imputato, che annoverava pregresse condanne - fra le altre - anche per estorsione e porto illegale di armi. Con l'odierno ricorso, il difensore del T. lamenta carenze motivazionali della sentenza impugnata, nonché violazione degli artt. 62-bis, 133 cod. pen. e 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Il ricorrente richiama giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo cui deve intendersi precluso agli Stati membri di adottare misure punitive atte a dissuadere gli organi di stampa dall'esercizio delle proprie funzioni di controllo perciò, il ricorso alla sanzione detentiva può intendersi giustificato solo in ipotesi eccezionali che qui non potrebbero ravvisarsi, stante una presunta lesione dell'onore arrecata ad un numero assai contenuto di soggetti e mediante articoli apparsi su un giornale la cui distribuzione era limitata ad un ristretto ambito territoriale. Per fini di raffronto in tema di concreta offensività tra diverse fattispecie, il ricorrente richiama il caso di cui alla sentenza di questa Sezione n. 41249 del 26/09/2012 , dove fu comminata una pena detentiva in presenza di una offesa ingiustificata ad un magistrato, contenuta in un articolo pubblicato su un quotidiano [ ] a diffusione nazionale, con successiva eco e clamore sugli organi di stampa e le televisioni di tutta Italia nella vicenda oggi in esame, invece, viene messa in discussione, su un giornale di paese, la reputazione di tre soggetti . Considerato in diritto 1. II ricorso deve ritenersi inammissibile. 1.1 Deve ricordarsi, su un piano generale, che la graduazione della pena, anche rispetto agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen., sicché è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena Cass., Sez. III, n. 1182 del 17/10/2007, Cilia, Rv 238851 . Ne deriva che la quantificazione della pena può essere sindacata dinanzi al giudice di legittimità soltanto allorquando sia stata effettuata in limiti superiori a quelli edittali ovvero in maniera illogica la determinazione in concreto della pena, infatti, costituisce il risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi offerti dalla legge, sicché l'obbligo della motivazione da parte dei giudice dell'impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato, anche in relazione alle obiezioni mosse con i motivi d'appello, quando, accertata l'irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, si affermi di averla ritenuta adeguata o non eccessiva. In tal modo, si dà atto di avere considerato - sia pure intuitivamente e globalmente - i parametri indicati nell'art. 133 cod. pen. e le eventuali doglianze esposte nei motivi di gravame. 1.2 In ogni caso, deve ritenersi legittima, anche in relazione all'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, l'inflizione della pena detentiva in ipotesi di condanna per il delitto di diffamazione a mezzo stampa commesso mediante pubblicazione non già di un giudizio in ipotesi, denigratorio nei confronti di una persona o di una condotta umana, bensì di una notizia pacificamente falsa. . A tale riguardo, infatti, il giudice sovranazionale ha più volte affermato che la legittimità dell'ingerenza di uno Stato nell'esercizio del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero e, più in particolare, alla libertà di stampa deve essere valutata anche con riferimento alla natura ed alla afflittività delle pene, non consentendo il ricordato art. 10 - come interpretato dalla Corte EDU, e dunque quale norma interposta di rango costituzionale ex art. 117 della Carta fondamentale - che si adottino misure punitive tali da dissuadere i mezzi di comunicazione dall'adempiere alla primaria funzione sociale di allertare il pubblico, garantendo alla generalità dei consociati di rimanere informati su eventuali abusi dei pubblici poteri. Il principio risulta espresso nel leading case di cui alla sentenza Cumpana e Mazare c. Romania n. 33348/96 , menzionata anche dall'odierno ricorrente, secondo cui è incompatibile con la Convenzione la previsione, sia pure soltanto astratta, di strumenti che abbiano l'effetto di disincentivare il giornalista a svolgere serenamente il proprio compito informativo. Secondo alcuni commentatori, ciò comporterebbe una sorta di automatismo nel precludere l'applicazione di misure detentive nello specifico settore dei reati commessi a mezzo della stampa, stante l'immediata violazione, in re ipsa, dei citato art. 10 ma occorre considerare che la stessa Corte europea - anche in epoca successiva - ha riconosciuto nella materia in esame la perdurante legittimità di un trattamento sanzionatorio detentivo, nella ricorrenza di ipotesi eccezionali connotate dalla lesione, arrecata attraverso un mezzo di informazione, di altri diritti fondamentali. II riconoscimento delle situazioni di eccezionalità de quibus è intervenuto talora mediante obiter dicta come nel caso della sentenza Fatullayev c. Azerbaijan, n. 40984/07, dove si fornisce l'esempio di condotte di incitamento all'odio od alla violenza , in altri in via diretta v. la sentenza Egeland e Hanseid c. Norvegia, n. 34438/04, in cui la Corte europea ha ritenuto corrispondente ad un pressante bisogno sociale l'applicazione di pena detentiva ai redattori capo di due quotidiani che avevano pubblicato fotografie - scattate senza il consenso dell'interessata - che ritraevano una donna in lacrime, nell'atto di essere accompagnata in carcere per scontarvi una pena assai elevata . Ritiene il collegio che a identiche, ed ancor più radicali, conclusioni, debba pervenirsi in presenza di una notizia diffamatoria non perché espressiva di un negativo, ed obiettivamente non condivisibile giudizio di valore, ma in quanto tout court non rispondente al vero, nonché pubblicata nella consapevolezza dei giornalista circa la falsità dell'informazione offerta al pubblico. Un fatto è, per sua natura, suscettibile di dimostrazione, a differenza di un giudizio che peraltro, secondo la stessa giurisprudenza della Corte EDU deve pur sempre fondarsi su una base fattuale sufficiente v. sentenze Mengi c. Turchia, nn. 13471/05 e 38787/07, nonché Katrami c. Grecia, n. 19331 , con il risultato che la divulgazione di notizie false non può mai presupporre una tutela della libertà di espressione di chi ne sia responsabile. In tali casi, la condotta rimane del tutto estranea all'ambito di applicazione dell'art. 10 della Convenzione, indipendentemente dalle potenzialità diffusive dell'offesa arrecata alla reputazione dei soggetto passivo tanto che la già ricordata sentenza Fatullayev c. Azerbaijàri, non-a caso, ribadisce come la ricerca della verità storica sia parte integrante della libertà di espressione, che nulla ha a che vedere con la gratuita volontà - svincolata dal diritto di informazione del pubblico su fatti reali - di criminalizzare una persona. Come già evidenziato nella sentenza n. 41249/2012 di questa Sezione, parimenti citata dal ricorrente, la giurisprudenza interna di legittimità e di merito e quella della Corte di Strasburgo concordano nel ritenere che la libertà di opinione, nella dimensione del diritto di informazione, pur in presenza di ampia tutela costituzionale, non può travalicare lo scopo di informazione della collettività e tradursi in una divulgazione - indipendente dalla legalità - di notizie non vere o tendenzialmente rappresentate, limitando così i diritti della persona, costituenti patrimonio morale di ogni essere umano . Non si rinvengono elementi di smentita di tali principi neppure nella più recente decisione della Corte EDU nel caso Belpietro c. Italia, n. 42612/10, dove peraltro si ribadisce che il diritto dei giornalista alla libertà d'espressione è tutelato a condizione che egli agisca in buona fede, sulla base di fatti correttamente riportati, e fornisca informazioni affidabili e precise nel rispetto dell'etica giornalistica la vicenda di cui a quest'ultima pronuncia, infatti, si riferisce a un addebito di-omesso controllo ex art. 57 cod. pen., su un articolo che conteneva accuse ritenute sprovviste di elementi fattuali a sostegno, tuttavia consistenti non già nella rappresentazione di notizie certamente false, bensì nella formulazione di giudizi ed interpretazioni sull'operato di alcune persone e sulle ragioni delle condotte che costoro avevano tenuto. Esprimere una valutazione su fatti reali, quando non vi sia base oggettiva perché i fatti in questione si prestino alla lettura che ne viene offerta, può realizzare una condotta diffamatoria, così come - a fortiori - è offensivo dell'altrui reputazione addebitare a taluno fatti che reali non sono ma solo nella prima ipotesi, alla luce della giurisprudenza sovranazionale, deve ritenersi inibito il ricorso a sanzioni detentive. 1.3 Venendo all'analisi dell'odierna fattispecie concreta, la Corte territoriale risulta avere evidenziato con analitica dovizia di particolari i numerosi profili di indiscutibile falsità nella rappresentazione delle notizie apparse sugli articoli in rubrica a mero titolo esemplificativo, non essendo certamente questa la sede per procedere ad un nuovo esame del merito della regiudicanda, si consideri il particolare che la D. partecipò ad un incanto per l'acquisto di un lotto di terreno quando il marito era ancora ben lungi dal diventare sindaco di Quartu Sant'Elena mentre invece il T. aveva lasciato intendere che il R. fosse già primo cittadino, tanto da ricordare la regola generale secondo cui amministratori e loro affini non dovrebbero trarre beneficio da situazioni particolari analogamente è a dirsi per gli episodi delle assunzioni dei R. e della D., entrambi medici, presso la USL allora diretta dal M., descritti indicando che quest'ultimo aveva sostanzialmente favorito i due coniugi, ovvero per il presunto inquadramento dello stesso M. nell'ambito di una società che forniva prodotti alle farmacie da lui controllate, riportato in uno degli articoli sulla base di una falsa visura camerale. Elementi, questi, che precludono in radice qualunque spazio di tutela ai sensi dell'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e che debbono comportare l'insindacabilità ad opera di questa Corte delle determinazioni adottate - e congruamente motivate - dai giudici di merito in punto di trattamento sanzionatorio. 2. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna dei T. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, --nonché - - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, in quanto riconducibile alla volontà del ricorrente v. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000 - al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di € 1.000,00, così equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.