Mancata registrazione di fatture false: la dichiarazione è fraudolenta per l’uso di fatture inesistenti

La frode sanzionata dall’art. 2 d.lgs. n. 74/2000 non si distingue da quella di cui all’art. 3 per la natura del falso, ma per il rapporto di specialità reciproca esistente tra le due norme.

Lo ha stabilito la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 38544/15, depositata il 23 settembre. Il caso. Il tribunale aveva condannato un uomo alla pena ritenuta di giustizia perché, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, aveva indicato nella dichiarazione annuale elementi passivi fittizi, non esibendo una fattura e una successiva nota di credito - riconducibili ad una società inesistente perché cessata da anni e non annotandole nel registro acquisti IVA. La corte d’appello territoriale confermava la pronuncia di primo grado. Avverso tale pronuncia, propone ricorso per cassazione l’uomo, lamentando l’erronea qualificazione del fatto quale dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici effettuata dalla corte, dal momento che la mancata registrazione della fattura ritenuta falsa non potrebbe configurare la fattispecie di reato contestata, sul rilievo che si sarebbe in presenza di una falsa fatturazione e non dell’uso di altri mezzi fraudolenti. Il quadro normativo di riferimento. Gli Ermellini hanno ritenuto di dover riqualificare ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000 la fattispecie in esame. Tale disposizione, infatti, prevede che è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quanto tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria . Il successivo art. 3 del citato decreto, invece, prevede la pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni, il requisito del dolo specifico di evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, e punisce la condotta di chi, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e con l’utilizzazione di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento, indichi nella dichiarazione annuale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, alla duplice condizione che l’imposta evasa sia superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a € 30.000,00 e che l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, sia superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque superiore a un milione di euro. Qual è il discrimen tra la fattispecie di cui all’art. 2 e quella di cui all’art. 3? Sulla delineazione del rapporto tra tali fattispecie, proseguono i Giudici di Piazza Cavour, è intervenuta la giurisprudenza di legittimità, che ha stabilito che l’utilizzazione di documenti materialmente falsi rientra nella fattispecie di cui all’art. 2 e non in quella del successivo articolo 3 l’art. 2, nello specifico, deve ritenersi applicabile sia al falso ideologico, sia al falso materiale, dal momento che la frode sanzionata da tale disposizione non si distingue da quella di cui all’art. 3 per la natura del falso, ma per il rapporto di specialità reciproca esistente tra le due norme se il nucleo comune è costituito dalla dichiarazione infedele, infatti, nell’art. 2 l’elemento specializzante è l’utilizzazione di fatture o documenti equiparabili relativi ad operazioni inesistenti, mentre la specificità dell’art. 3 è data dalla falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie congiunta con l’utilizzo di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e con il superamento della soglia minima di punibilità. Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sovraesposto, dunque, secondo gli Ermellini la condotta di dichiarazione fraudolenta mediante fatture o documenti per operazioni inesistenti presenta una struttura bifasica , in cui la dichiarazione, quale momento conclusivo, dà vita ad un falso contenutistico, mentre la condotta preparatoria, cioè la registrazione o detenzione a fini di prova dei documenti che costituiranno il supporto della dichiarazione, può avere ad oggetto sia documenti contenutisticamente falsi emessi da altri in favore dell’utilizzatore sia documenti materialmente falsi, cioè contraffatti o alterati. Per contro, la dichiarazione fraudolenta sanzionata dall’art. 3 è costituita dal legislatore come frode contabile alla quale deve associarsi un quid pluris diverso dall’uso di fatture o altri documenti falsi, caratterizzato dall’idoneità ad indurre in errore e a impedire il corretto accertamento della realtà contabile del soggetto che presenta la dichiarazione di imposta. Tale distinzione, secondo i Giudici del Palazzaccio, trova applicazione anche nel caso di specie, e, pertanto, la fattispecie concreta deve essere riqualificata, ai sensi del richiamato art. 2 d.lgs. n. 74/2000.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 27 maggio – 23 settembre 2015, n. 38544 Presidente Squassoni – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con sentenza dei 21 maggio 2014, la Corte d'appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Alba del 26 novembre 2012, con la quale l'imputato era stato condannato alla pena di un anno e due mesi di reclusione, oltre pene accessorie, riconosciute le circostanze attenuanti generiche ed esclusa la contestata recidiva, per il reato di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, aveva indicato nella dichiarazione annuale relativa alle imposte per l'anno 2006 elementi passivi fittizi per un imponibile di € 640.000,00 su un ammontare complessivo di acquisti imponibili pari a € 650.403,00 così evadendo l'Iva per € 128.000, non esibendo una fattura e una successiva nota di credito, riconducibili ad una società inesistente perché cessata da anni, e non annotandole nel registro Iva acquisti 2006, così effettuando una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento. 2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si contestano la manifesta illogicità della motivazione e l'erronea qualificazione del fatto quale dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici . Si sostiene, in particolare, che la mancata registrazione della fattura ritenuta falsa non potrebbe configurare la fattispecie di reato contestata, sul rilievo che si sarebbe in presenza di una falsa fatturazione e non dell'uso di altri mezzi fraudolenti. La difesa sostiene, inoltre, che sarebbe configurabile, nel caso in esame, la fattispecie di cui al comma 3 dell'art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, applicabile ratione temporis, trattandosi di un fatto posto in essere il 1° ottobre 2007, data della presentazione del modello unico 2007. La contestata evasione dell'Iva sarebbe, infatti, di euro 128.000,00 e sarebbe perciò inferiore alla soglia prevista per l'applicazione della fattispecie non attenuata. Si afferma, inoltre, che la fattura oggetto dell'imputazione non sarebbe stata inserita nella contabilità dell'imputato e non sarebbe stata conteggiata ai fini dell'imposizione tributaria, ma semplicemente inserita, per errore materiale, nella dichiarazione Iva 2007. Si tratterebbe, del resto, di una fattura mai emessa dalla società che risulta quale sua formale emittenti società che aveva cessato l'attività da diverso tempo. Non si sarebbe considerato, infine, che non vi erano ulteriori mezzi fraudolenti utilizzati dall'imputato, il quale aveva, nel corso dell'accertamento tributario, consegnato ai verificatori la documentazione in suo possesso. 2.2. - In secondo luogo, si lamentano l'erronea applicazione dell'art. 223, primo comma, del regio decreto n. 267 del 1942, nonché la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza dell'elemento soggettivo del contestato reato di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000, sul rilievo che mancherebbe in concreto il dolo specifico rappresentato dal fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto. 2.3. - Con una terza doglianza, si lamenta l'inosservanza dell'art. 163 cod. pen., perché la Corte d'appello non avrebbe ritenuto concedibile il beneficio della sospensione condizionale della pena per l'esistenza di due condanne per delitti contro il patrimonio. Non si sarebbe tenuto conto - secondo la difesa - del fatto che tali due condanne si riferivano a fatti risalenti nel tempo e comunque uniti dal vincolo della continuazione. 2.4. - Con memoria depositata in prossimità dell'udienza davanti a questa Corte, la difesa sostiene che il reato sarebbe prescritto. Considerato in diritto 3. - La fattispecie deve essere riqualificata ex art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, con rigetto del ricorso nel resto. 3.1. - Tale disposizione prevede che 1. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi. 2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria . Un comma 3, abrogato dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, prevedeva un'ipotesi attenuata, per cui, se l'ammontare degli elementi passivi fittizi era inferiore a euro 154.937,07, si applicava la reclusione da sei mesi a due anni. Il successivo art. 3 prevede anch'esso la pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni, il requisito del dolo specifico di evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, e punisce la condotta di chi, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e con l'utilizzazione di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento, l'indichi nella dichiarazione annuale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, alla duplice condizione che l'imposta evasa sia superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro 30.000,00 e che l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, sia superiore al 5% dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, superiore a un milione di euro. Tale duplice condizione è il frutto della modifica della disposizione ad opera del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011. Vi è, inoltre, la previsione espressa di una clausola di riserva fuori dei casi previsti dall'articolo 2 . Per delineare il rapporto tra tali fattispecie, è necessario partire da quanto già affermato da questa Corte con la sentenza sez. 3, 23 febbraio 2012, n. 10987, con la quale si è definitivamente confermata l'interpretazione secondo cui l'utilizzazione di documenti materialmente falsi rientra appieno nella fattispecie di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 e non in quella di cui al successivo art. 3. In tale pronuncia si è, in particolare, evidenziato che l'art. 2 deve ritenersi applicabile sia al falso ideologico sia al falso materiale, tenuto conto che la frode sanzionata da tale disposizione si distingue da quella di cui al successivo art. 3, non per la natura del falso ma per il rapporto di specialità reciproca esistente tra le due disposizioni legislative ad un nucleo comune, costituito dalla dichiarazione infedele, si aggiungono, in chiave specializzate, nell'art. 2, l'utilizzazione di fatture o documenti equiparabili relativi ad operazioni inesistenti e, nell'art. 3, la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie congiunta con l'utilizzo di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e con il superamento della soglia minima di punibilità v. anche sez. 3, 9 febbraio 2011, n. 9673 . In tale quadro, la condotta di dichiarazione fraudolenta mediante fatture o documenti per operazioni inesistenti presenta una struttura bifasica, in cui la dichiarazione, quale momento conclusivo, dà vita a un falso contenutistico, mentre la condotta preparatoria, cioè la registrazione o detenzione a fini di prova dei documenti che costituiranno il supporto della dichiarazione, può avere ad oggetto sia documenti contenutistica mente falsi emessi da altri in favore dell'utilizzatore sia documenti materialmente falsi, cioè contraffatti o alterati. E ciò perché - come visto - la falsità può cadere, oltre che sul contenuto della fattura, anche sull'indicazione dei soggetti tra cui è intercorsa l'operazione, cosicché non vi è alcun fondamento razionale per affermare che l'ipotesi non ricorre quando i soggetti che appaiono emittenti del documento siano addirittura inesistenti, trattandosi, ad esempio di nomi di fantasia, o siano soggetti che non abbiano mai avuto alcun rapporto commerciale con il contribuente imputato. Per contro, la dichiarazione fraudolenta sanzionata dal successivo art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 è costruita dal legislatore come frode contabile alla quale deve associarsi in quid pluris non tipizzato ma necessariamente diverso dall'uso di fatture o altri documenti falsi, anche in senso materiale, e comunque caratterizzato dalla idoneità ad indurre in errore e a impedire il corretto accertamento della realtà contabile del soggetto che presenta la dichiarazione d'imposta. E, a titolo esemplificativo, tale quid pluris può essere rappresentato dalla tenuta di una contabilità nera dalla confusione di ricavi provenienti da fonti diverse, in modo da impedire di individuare il titolare effettivo degli stessi dallo spostamento artificioso di redditi tra soggetti rivolto a fare figurare come percepiti da terzi redditi propri del contribuente. Si tratta infatti - come visto - di una fattispecie espressamente prevista dallo stesso legislatore come residuale rispetto a quella del precedente art. 2. 3.2. - La distinzione appena delineata trova applicazione anche in caso di specie, in cui l'imputato ha formato una fattura materialmente falsa, attribuendone la provenienza ad un soggetto non più esistente, ha registrato la fattura in questione nel registro pagamenti, anche se non nel registro Iva, e l'ha comunque detenuta al fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria. La fattispecie concreta deve dunque essere riqualificata, ai sensi del richiamato art. 2, senza che tale riqualificazione abbia alcuna rilevanza per il trattamento sanzionatorio, perché lo stesso è fissato da tale disposizione e dal successivo art. 3 nell'identica misura della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Né può trovare applicazione l'invocata circostanza attenuante di cui al previgente comma 3 dell'art. 2, perché la stessa fa riferimento ad un ammontare degli elementi passivi fittizi che sia inferiore a euro 154.937,07, mentre nel caso di specie gli elementi passivi fittizi ammontano ad euro 640.000,00. Quanto all'interesse ad ottenere la riqualificazione della fattispecie ai sensi dell'art. 2 anziché ai sensi del successivo art. 3, deve rilevarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, lo stesso è ravvisabile solo allorché il gravame sia in concreto idoneo a determinare per il ricorrente, con l'eliminazione del provvedimento impugnato, una situazione pratica più vantaggiosa di quella realizzata dal provvedimento stesso sez. 5, 21 dicembre 2010, n. 7064/2011 sez. 3, 24 marzo 2010, n. 24272, rv. 247685 . Ciò che rileva a tal fine non è, però, l'effettiva fondatezza della pretesa del ricorrente, ma la prospettazione contenuta nel ricorso, la quale nel caso in esame - è diretta ad ottenere la riqualificazione del fatto ai sensi dell'art. 2 con il riconoscimento della circostanza attenuante di cui al comma 3 di tale articolo e la conseguente diminuzione della pena cosicché non può ritenersi in limine insussistente l'interesse alla riqualificazione in questione anche se dalla stessa riqualificazione, all'esito del giudizio, non derivano conseguenze pratiche vantaggiose per l'imputato. 4. - Il secondo motivo di impugnazione, che - al di là della sua intestazione formale - è sostanzialmente riferito alla motivazione della sentenza impugnata circa il dolo specifico di evasione dell'imposta, è manifestamente infondato. I giudici di merito hanno, infatti, correttamente evidenziato che il dolo specifico emerge dal falso materiale consistente nella redazione di documenti contabili apparentemente provenienti da una società terza, in realtà non più esistente da alcuni anni, e diretto all'inserimento in compensazione di un credito tributario basato su tali documenti. 5. -Del tutto generico è il terzo motivo di doglianza, con cui si lamenta l'inosservanza dell'art. 163 cod. pen., perché la Corte d'appello non avrebbe ritenuto concedibile il beneficio della sospensione condizionale della pena, per l'esistenza di due condanne per delitti contro il patrimonio. La difesa non prende in considerazione infatti - neanche a fini di critica - la corretta motivazione della sentenza impugnata, che si pone in totale continuità con quella della sentenza di primo grado, secondo cui a l'imputato ha già riportato due condanne per truffa b la circostanza che i fatti oggetto della seconda condanna siano stati posti in continuazione con quello oggetto della prima condanna non impedisce di formulare una prognosi negativa circa il comportamento futuro dell'imputato c tale prognosi negativa si basa sulle caratteristiche della condotta posta in essere, consistente in un falso materiale, che si pone in totale continuità con la reiterata continuazione dei delitti precedenti delitti, anch'essi commessi mediante frode. 6. - Né può essere dichiarata la prescrizione del reato. Lo stesso è stato, infatti, commesso il 10 ottobre 2007, data della presentazione della dichiarazione. Al complessivo termini di sette anni e sei mesi previsto per i delitti degli artt. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. devono essere aggiunti 62 giorni di sospensione del corso della prescrizione per l'adesione del difensore all'astensione collettiva dalle udienze proclamata da un organismo di categoria udienza del 20 marzo 2014 . Ne consegue che il reato si prescriverà soltanto il 2 giugno 2015. P.Q.M. Qualificato il fatto ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, rigetta il ricorso.