La Cassazione ribadisce l'onere di allegazione che grava su chi intenda avvalersi di esimenti o di cause personali di non punibilità

La Suprema Corte si pronuncia, in un caso particolarmente cruento, circa l'operatività delle cause di giustificazione e, soprattutto, sulla corretta ripartizione tra le parti dei doveri processuali in ordine alla loro dimostrazione.

Con la sentenza numero 37256/15, depositata il 16 settembre, la V sezione si pronuncia, in un caso particolarmente cruento, circa l'operatività delle cause di giustificazione e, soprattutto, la corretta ripartizione tra le parti dei doveri processuali in ordine alla loro dimostrazione. Più in dettaglio, ribadisce regole utili a saggiarne la sussistenza, quando dedotte dall'imputato, in rapporto ai risultati dell'istruttoria dibattimentale. La Corte coglie l'occasione, inoltre, in relazione ad uno dei motivi di ricorso, per tornare sui criteri che, nel calcolare la pena in concreto, governano l'applicazione delle singole diminuzioni legate al concorso di plurime circostanze attenuanti. Il caso. Il processo a quo , pendente nei confronti di una donna della provincia di Trento, riguardava la morte violenta del marito dell'imputata, da lei attinto in parti del corpo non vitali, nel corso di una colluttazione, con una serie di coltellate. La Corte d'Assise trentina, derubricando l'originaria imputazione di omicidio volontario, condannava l'autrice per omicidio preterintenzionale sentenza riformata in senso più mite, poi, con la diminuzione della pena inflitta, dalla Corte di secondo grado. Ricorre per Cassazione l'imputata, per il tramite del proprio difensore, esponendo tre articolate doglianze. Con la prima, lamenta vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge penale per il mancato riconoscimento, perlomeno in forma putativa, dell'esimente della legittima difesa. L'agente, infatti, sarebbe stata costretta a subire ripetuti maltrattamenti – da ultimo, durante l'episodio incriminato, una tentata violenza sessuale – da parte della vittima, spesso ubriaca, e l'evento mortale sarebbe scaturito come reazione alla chiara percezione di un'intenzione omicida all'apice dell'aggressione avrebbe affermato adesso te le faccio pagare tutte circostanze, queste, che troverebbero riscontri obiettivi nelle emergenze dibattimentali. La seconda e la terza, invece, contestano violazione di legge per l'erronea applicazione, nel calcolo svolto, dell'attenuante di cui all'art. 62, numero 6 c.p. e per aver disposto l'interdizione perpetua dai pubblici uffici che, in relazione alla pena principale inflitta in concreto, avrebbe dovuto esser limitata ad un periodo di cinque anni. La sentenza. La Corte – su parere conforme del Procuratore generale – accoglie solo parzialmente l'impugnazione, annullando senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla erroneamente irrogata interdizione dai pubblici uffici, che limita ad anni cinque e rigettando nel resto il ricorso. Come spesso accade, incidentalmente, espunge dai temi di discussione una serie di profili, cui si faceva cenno nell'impugnazione e che, alla luce del puntuale accertamento condotto nel merito e dell'esito positivo del giudizio logico operato sulla parte motiva, divengono insindacabili. La motivazione tratta compiutamente i diversi interrogativi, avendo cura di riprendere – per quanto possibile in sede di legittimità – ciò che è emerso dal contraddittorio, giudicando i risultati delle prove, superata l'obbligatoria valutazione di coerenza logica, in base ai canoni indicati da consolidati orientamenti giurisprudenziali, ed esaminando, quindi, le asserite criticità in punto di trattamento sanzionatorio. Il computo della pene. L'unico aspetto che coglie nel segno, infatti, concerne l'irrogazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, confermata in forma perpetua in appello e che invece, in forza della riforma quoad poenam con la sanzione principale scesa ad anni quattro, mesi due e giorni venti di reclusione , avrebbe dovuto essere contenuta in un periodo di cinque anni. Diverso è l'esito della censura rivolta alla pena principale, correttamente computata, ad avviso del Supremo Collegio, ai sensi dell'art. 62, comma terzo, c.p. ed invero la norma, stabilendo che, in caso di concorso di più attenuanti, le diminuzioni di pena si applichino sulla quantità risultante dalla diminuzione precedente, non ha previsto un ordine preferenziale vincolante. La prova della legittima difesa. Il nodo principale, tuttavia, concerne l'invocata applicazione dell'art. 52 c.p., analiticamente proposta nel ricorso eccependo la violazione di legge asseritamente commessa in seconde cure. In realtà, l'Estensore chiarisce come il lungo elenco di pretesi riscontri obiettivi precisati nell'atto introduttivo non appaia così dirimente, tanto a priori, per ragioni strutturali – si pensi alla confessione, che non può reputarsi neppure principio di prova – quanto per le effettive ambiguità delle altre circostanze rispetto alle quali l'imputata s'era contraddetta nel corso del giudizio ed i testimoni avevano fornito opinioni contrastanti . Non può dirsi dimostrata, pertanto, la scriminante in questione, posto che le regole rituali assegnano a chi voglia giovarsene se non un vero e proprio onere probatorio, inteso in senso civilistico, un compiuto onere di allegazione di elementi di indagine per porre il giudice nella condizione di accertare la sussistenza o quanto meno la probabilità di sussistenza dell'esimente si cita sul punto, tra le altre, Cass., numero 18711/12 e che, dunque, l'apprezzamento del compendio probatorio ha portato i giudici a mettere fondatamente in dubbio la probabile esistenza di una scriminante, risolvendosi, in questo caso, il dubbio” sull'esistenza dell'esimente nell'assoluta mancanza di prova al riguardo . Conclusioni. La decisione appena esaminata si occupa di un istituto oggetto di delicate tensioni, in costante equilibrio tra la necessità di non punire fatti che risultino privi, in presenza di determinate circostanze, di antigiuridicità e l'esigenza di ripartire correttamente, nel processo penale, l'onere probatorio dei diversi elementi che concorrono all'accertamento di responsabilità. In tale bilanciamento, assume una posizione legittimamente ortodossa, analizzando e decidendo le diverse questioni nel solco tracciato dai prevalenti indirizzi interpretativi. La soluzione proposta, pur condivisibile su un piano astrattamente dogmatico, lascia qualche dubbio circa la concreta possibilità che, in alcuni casi, si risolva nella forzata riconduzione di percezioni soggettive a comportamenti esteriori, in assenza della quale l'agente non potrà accedere alla giustificazione che la legge stessa gli concederebbe.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 17 aprile – 16 settembre 2015, n. 37526 Presidente Palla – Relatore Guardiano Fatto e diritto 1. Con sentenza pronunciata il 25.11.2013 la corte di assise appello di Trento riformava in senso favorevole al reo solo in punto di trattamento sanzionatorio la sentenza con cui la corte di assise di Trento, in data 13.12.2012, aveva condannato alle pene, principale ed accessoria, ritenute di giustizia A.S. in ordine al delitto di omicidio preterintenzionale commesso in danno del marito S.P. , previa derubricazione dell'originaria imputazione di omicidio volontario, confermando nel resto la sentenza impugnata. 2. Avverso la decisione della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l'imputata, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando 1 vizio di motivazione e violazione di legge in ordine al mancato riconoscimento della esimente della legittima difesa quanto meno in forma putativa. Al riguardo il difensore della ricorrente fornisce una lettura alternativa delle risultanze processuali, che, a suo dire, sono state erroneamente valutate dai giudici di merito, evidenziando come sia dimostrato che la signora A. nel pomeriggio del OMISSIS , aggredita dal marito, abbia visto in pericolo non solo la propria incolumità ma la sua stessa vita e si sia difesa colpendo il suo aggressore con il coltello. Ad avviso del difensore della ricorrente, in particolare, le prove testimoniali assunte e le stesse risultanze degli accertamenti effettuati dai consulenti di parte e dal perito d'ufficio nominato dalla corte di assise, dimostrano la fondatezza della versione dei fatti fornita dall'imputata, che, nelle circostanze di tempo e di luogo indicate nell'imputazione, era stata costretta dal marito, in evidente stato di ubriachezza, a seguirlo in camera da letto ed a stendersi sul letto, dove l'aveva immobilizzata con le gambe, per poi trascinarla, mentre la moglie, urlando invocava aiuto, nel bagno dove, come già era accaduto in passato, le aveva messo la testa sotto il rubinetto dell'acqua per farle schiarire le idee . A questo punto, essendosi l'A. riuscita a liberare, dirigendosi verso l'uscita dell'appartamento, secondo la narrazione dei fatti fornita da quest'ultima, si era verificato per la prima volta nella dinamica dei rapporti conflittuali tra i coniugi, che si ripetevano secondo un consolidato modus operandi, un fatto nuovo, in quanto lo S. non si era disinteressato della fuga della consorte, ma l'aveva seguita fino alla cucina, afferrandola per i capelli e trascinandola lungo il corridoio, per cui la donna, sconvolta da questa nuova dinamica della violenza del marito, avendo notato il coltello che lei stessa aveva poco prima lasciato sulla stufa mentre era intenta alle faccende domestiche, se ne era impossessata, per servirsene quale unico strumento di difesa a sua disposizione, tenendolo dietro la schiena, mentre, piegata in avanti, veniva trascinata dal marito per i capelli di nuovo verso la camera da letto, dove, costretta sul letto, era stata minacciata dal marito adesso te le faccio pagare tutte . In questo frangente, secondo quanto sostenuto dalla ricorrente, lo S. aveva tentato di consumare con lei un rapporto sessuale, cercando di trascinarla a cavalcioni sopra di lui e l'aveva afferrata per il collo mettendole una mano sulla bocca, per cui la donna, leggendo l'intento omicida nello sguardo del marito, lo aveva colpito con il coltello, in una parte del corpo, peraltro, non vitale, cagionandogli la ferita, che, aggravata dal comportamento dello S. , il quale aveva estratto dal suo corpo il coltello, ne avrebbe determinato la morte. Ad avviso del difensore dell'A. tutti i vari segmenti dell'azione come testé descritta trovano conferma in oggettivi riscontri le urla della donna sono state sentite da terzi estranei i graffi sul mento e le labbra blu dell'imputata testimoniano l'aggressione patita, come la catenina strappata la verificata presenza di alcool nel corpo della vittima la compatibilità della ferita cagionata allo S. con la dinamica dei fatti descritta dall'imputata, accertata dai consulenti tecnici e dallo stesso perito e, più in generale, nel contesto di elevata conflittualità tra coniugi in cui si inserisce il tragico episodio, caratterizzato dalle vessazioni e dalle violenze che lo S. esercitava nei confronti della propria moglie, animato da una folle gelosia e da particolari istinti sessuali. Esistono dunque, ad avviso del difensore, tutti i presupposti per il riconoscimento della legittima difesa o comunque un principio di prova al riguardo in relazione al quale risulta adempiuto l'onere probatorio che la giurisprudenza della Suprema Corte impone a carico dell'imputato che invoca l'applicazione di una esimente 2 violazione dì legge in relazione agli artt. 63 e 68, c.p., e vizio di motivazione, in quanto la circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 6, c.p., riconosciuta nella sua massima estensione, nel calcolo per la determinazione dell'entità della pena, è stata applicata per ultima e non per prima, ciò comportando un aggravamento della pena finale nella misura di 14 mesi e 20 giorni 3 violazione di legge per avere la corte territoriale mantenuta ferma l'applicazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici, che non si giustifica, in quanto l'imputata è stata condannata a pena inferiore ai 5 anni, 3. Il ricorso deve ritenersi fondato solo in relazione al terzo motivo di impugnazione, mentre va rigettato nel resto, perché sorretto da motivi infondati. 4. Con particolare riferimento al primo motivo di ricorso, appare opportuno operare una breve ricognizione dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, condivisi dal Collegio, sulla questione giuridica posta all'attenzione della Suprema Corte. Al riguardo va preliminarmente chiarito, trattandosi dì un punto ritenuto dirimente dalla stessa corte territoriale, il significato da attribuire alla disposizione normativa, contenuta nell'art. 530, co. 3, c.p.p., secondo cui il giudice pronuncia sentenza di assoluzione non solo quando vi è la prova, ma anche quando vi è il dubbio che il fatto sia stato commesso in presenza di una causa di giustificazione che, secondo la prospettiva della ricorrente, sarebbe la legittima difesa ovvero di una causa personale di non punibilità. Orbene come affermato da un condivisibile orientamento del Supremo Collegio, il concetto di dubbio contenuto nella menzionata disposizione deve essere ricondotto a quello di insufficienza o contraddittorietà della prova di cui al secondo comma dell'art. 529 c.p.p. ed al secondo comma dello stesso art. 530 c.p.p., sicché, quando la configurabilità di cause di giustificazione sia stata allegata dall'imputato, è necessario procedere ad un'indagine sulla probabilità della sussistenza di tali esimenti la presenza di un principio di prova o di una prova incompleta porterà all'assoluzione, mentre l'assoluta mancanza di prove al riguardo, o la esistenza della prova contraria, comporterà la condanna. Allorquando, nonostante tale indagine, non si sia trovata alcuna prova che consenta di escludere la esistenza di una causa di giustificazione, il giudizio sarà parimenti di condanna, qualora non siano stati individuati elementi che facciano ritenere come probabile la esistenza di essa o inducano comunque il giudice a dubitare seriamente della configurabilità o meno di una scriminante cfr. Cass., sez. I, 8.7.1997, n. 8983, rv. 208473 Cass., sez. II, 4.7.2007, n. 32859, rv. 237758 . Più recenti orientamenti, partendo dal presupposto che in tema di cause di giustificazione incombe sull'imputato, che deduca una determinata situazione di fatto a sostegno dell'operatività di un'esimente, se non un vero e proprio onere probatorio, inteso in senso civilistico, un compiuto onere di allegazione di elementi di indagine per porre il giudice nella condizione di accertare la sussistenza o quanto meno la probabilità di sussistenza dell'esimente, hanno evidenziato come la mera indicazione di una situazione astrattamente riconducibile all'applicazione di un'esimente, non può legittimare una pronuncia assolutoria, risolvendosi il dubbio sull'esistenza dell'esimente nell'assoluta mancanza di prova al riguardo cfr. Cass., sez. VI, 12.2.2004, n. 15484, rv. 229446 Cass., sez. VI, 5.7.2012, n. 28115, rv. 253036 Cass., sez. VI, 21.3.2012, n. 18711, rv. 252636 . Deve escludersi, pertanto, che l'allegazione da parte dell'imputato dell'erronea supposizione della sussistenza di una causa di giustificazione possa fondarsi su un mero criterio soggettivo, riferito al solo stato d'animo dell'agente, piuttosto che su dati di fatto concreti, tali da giustificare l'erroneo convincimento in capo all'imputato di trovarsi in presenza di una scriminante tale cfr. Cass., sez. VI, 21.3.2012, n. 18711, rv. 252636 . Il dubbio che, ai sensi dell'art. 530, co. 3, c.p.p., impone una sentenza di assoluzione a norma del comma primo del medesimo articolo, può, dunque, definirsi come la situazione di incertezza sulla sussistenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità , che deriva da una prova contraddittoria o insufficiente, come nei caso di prova incompleta o di un mero principio di prova sulla sussistenza della scriminante. Non vi sarà spazio per una sentenza di assoluzione, invece, in tutti ì casi in cui, pur in assenza di esplicite prove contrarie alla sussistenza di una causa di giustificazione, la valutazione delle risultanze processuali conduca il giudice a mettere fondatamente in dubbio la probabile esistenza di una scriminante, risolvendosi, in questo caso, il dubbio sull'esistenza dell'esimente nell'assoluta mancanza di prova al riguardo. Ne consegue che ogniqualvolta l'imputato alleghi una causa di giustificazione del suo agire, spetterà al giudice procedere alla relativa valutazione, che potrà condurre ad uno degli epiloghi decisori innanzi indicati, la quale costituisce un giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità quando gli elementi di prova siano stati puntualmente accertati e logicamente valutati dal giudice di merito cfr. Cass., sez. I, 19/02/2013, n. 3148, rv. 258408 Cass., sez. fer., 26/08/2008, n. 39049, rv. 241553 . Tanto premesso il motivo di ricorso non coglie nel segno, in quanto la corte territoriale, con motivazione approfondita ed immune da vizi, ha evidenziato come la versione dell'imputata risulti contraddetta dalle risultanze processuali. Il giudice di secondo grado, nel condividere la valutazione operata sul punto dalla corte di assise, ha evidenziato, in particolare, come l'A. non abbia fornito alcun principio di prova atto ad attestare la sussistenza dell'invocata esimente , ritenendo che nella non lineare e contraddittoria versione dei fatti fornita dalla persona offesa non è dato ritenere provata una condizione di pericolo per la vita o l'incolumità fisica della stessa , non risultando tale pericolo non altrimenti evitabile con la fuga o con l'uso dell'arma per minaccia , né alcuna proporzionalità tra l'offesa portata all'imputata e la difesa dalla stessa attuata cfr. p. 36 della sentenza oggetto di ricorso . A tale conclusione la corte territoriale è giunta attraverso un puntuale esame delle risultanze processuali, rilevando 1 come le dichiarazioni rese dall'imputata e da alcune deposizioni testimoniali sulla personalità violenta dello S. , siano contraddette dal contenuto di deposizioni testimoniali di segno opposto, attestanti l'assenza di pregressi atteggiamenti violenti della vittima e l'indole buona e tranquilla della stessa e, per converso, il compimento di atteggiamenti prevaricatori e di gelosia da parte dell'A. nei confronti del marito 2 che, ove anche volessero considerarsi attendibili le testimonianze probanti i comportamenti violenti di S. , da ciò non può necessariamente desumersi, secondo un meccanicismo deduttivo, come inequivocabilmente accertata, in difetto di ulteriori riscontri, la dinamica dell'episodio riferita dall'imputata e, tantomeno la sussistenza di una causa di giustificazione , anche perché nell'intero periodo di convivenza non risulta che l'imputata abbia fatto ricorso a cure mediche per le violenze subite, né che abbia denunciato il marito per le condotte mantenute, e neppure che avesse reso edotti i medici che l'avevano in cura della condizione di costante maltrattamento dalla stessa patita 3 che anche la circostanza, su cui ha insistito la difesa dell'imputata, circa la condizione di evidente ubriachezza dello S. il giorno del fatto, non trova un supporto probatorio di particolare consistenza 4 che la versione dei fatti fornita dall'imputata si presenta contraddittoria e, quindi, inattendibile, con particolare riferimento alla ragione che l'avrebbe spinta ad impadronirsi del coltello utilizzato per colpire il marito, in quanto, se, come affermato dalla stessa A. , solo successivamente quest'ultima, condotta di nuovo in camera da letto, sarebbe stata terrorizzata dallo sguardo dell'uomo, convincendosi solo in quel momento che il marito l'avrebbe uccisa, non vi sarebbe stato alcun motivo di afferrare il coltello per servirsene contro lo S. prima di essere ricondotta in camera da letto, in quanto, sino a quel momento, come sostenuto dall'imputata, la lite si era svolta secondo le usuali modalità e, quindi, non vi era alcun motivo per pensare che non si sarebbe conclusa senza alcuna minaccia per la vita o dell'A. , non potendosi ritenere, in mancanza di ulteriori elementi, che la decisione dello S. di non lasciare andare la moglie, ma di ricondurla nuovamente in camera da letto, si sia posta in assoluto contrasto con l'usuale andamento delle liti tra i coniugi, in modo da far insorgere per ciò solo nell'imputata un fondato timore per la propria vita 5 che, pertanto, apparendo l'impossessamento del coltello da parte dell'imputata logicamente giustificato più da finalità offensive che difensive, l'utilizzo dell'arma risulta determinato da una percezione assolutamente ed esclusivamente soggettiva e non altrimenti riscontrata di una condizione di estremo pericolo per la propria vita , che esclude radicalmente il riconoscimento dell'esimente invocata e, di conseguenza, anche l'ipotesi di una legittima difesa putativa 6 che non sussistono tracce obiettive in grado di dimostrare l'esistenza di un pericolo per l'incolumità fisica della donna, non risultando accertate lesioni in danno dell'imputata, ad eccezione di due modeste ecchimosi peraltro non databili , riscontrate dal medico del carcere e che possono avere la più varia eziologia, non ultima in quella caduta a terra nel tentativo di fuga descritta dalla stessa A. 7 che l'A. non presenta tracce di afferramento al collo gli unici modesti segni - graffi al mento, labbra blu - riferiti dai familiari della stessa, non risultano riscontrati dai carabinieri intervenuti nell'immediatezza che danno conto del solo capo bagnato della donna , ulteriore sintomo che anche in quell'occasione la lite tra i due coniugi si era sviluppata secondo le usuali modalità descritte dall'A. , né refertati all'atto dell'ingresso dell'imputata in carcere 8 che non vi sono tracce di un tentativo di violenza sessuale o, comunque, di rapporti sessuali, ai quali l'imputata aveva fatto riferimento in sede di interrogatorio innanzi al g.i.p., né sul corpo della donna, né sugli abiti della stessa, né sul corpo dell'uomo che si presentava perfettamente vestito , né per le condizioni del letto, che si presentava in ordine , circostanza, quest'ultima, obiettivamente incompatibile con quanto riferito dall'imputata in ordine al tentativo del marito di consumare con lei un rapporto sessuale, cercando di trascinarla a cavalcioni sopra di lui cfr. pp. 28-36 della sentenza oggetto di ricorso . Con tale rigoroso percorso motivazionale la corte territoriale ha assolto al suo onere motivazionale, muovendosi nel solco dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in subiecta materia, come innanzi indicati, apparendo, di converso, i rilievi difensivi al riguardo non conferenti, in quanto volti a sostenere una diversa ricostruzione dei fatti, che, tuttavia, risulta disattesa dalle risultanze processuali e, comunque, inidonea a scardinare l'intrinseca coerenza logica dell'apparato argomentativo. Va, infine, chiarito che, come correttamente ritenuto dalla corte territoriale cfr. p. 29 , non può considerarsi principio di prova , la confessione dell'imputata, il cui contenuto, rispetto al dato da provare la sussistenza dell'esimente ovvero di un dubbio sulla configurabilità della scriminante , va sottoposta a specifica valutazione, la quale, come nel caso in esame, può concludersi negandone in radice l'efficacia probante, anche solo parziale. 5. Infondata appare la censura relativa alla determinazione dell'entità della pena principale. Al riguardo la corte territoriale, partendo dalla pena base di dieci anni di reclusione, ha operato una prima riduzione per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, giungendo alla pena di anni otto mesi quattro di reclusione ha poi operato un'ulteriore diminuzione, per il riconoscimento della circostanza aggravante comune di cui all'art. 62, n. 2, c.p., giungendo alla pena di anni sei mesi quattro di reclusione ed, infine, ha operato un'ultima diminuzione, ex art. 62, n. 6, c.p., fissando la pena finale in anni quattro mesi due giorni venti di reclusione. In siffatto modo di procedere non può ravvisarsi nessuna violazione di legge. Ed invero, trattandosi di concorso di più circostanze attenuanti non ad effetto speciale, prevedendo ciascuna di esse una riduzione della pena non inferiore ad un terzo, deve trovare applicazione nel caso in esame la disposizione di cui all'art. 63, co. 2, c.p., secondo cui se concorrono più circostanze attenuanti, diverse da quelle ad effetto speciale, la diminuzione di pena si opera sulla quantità di essa risultante dalla diminuzione precedente, che non prevede una ordine preferenziale, vincolante per il giudice di merito, nell'applicazione delle suddette circostanze. 6. Fondata, invece, appare la censura relativa alla determinazione della durata della pena accessoria. Evidente, invero, l'errore di diritto in cui è incorsa la corte territoriale, laddove, una volta fissata la pena finale nella misura di anni quattro mesi due giorni venti di reclusione, ha confermato la sentenza di primo grado anche nella parte in cui la corte di assise ha applicato all'imputata la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, sul diverso presupposto della condanna alla pena di cinque anni di reclusione. Ai sensi dell'art. 29, c.p., infatti, la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore ai tre anni, ma inferiore ai cinque anni, importa l'interdizione dai pubblici uffici solo per la durata di cinque anni. 7. Sulla base delle svolte osservazioni, la sentenza oggetto di ricorso va, dunque, annullata senza rinvio con esclusivo riferimento alla durata della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, che va limitata a cinque anni, mentre nel resto il ricorso va rigettato. Nulla è dovuto alla parte civile a titolo di refusione delle spese dalla stessa sostenute in questo grado di giudizio, in difetto della relativa domanda. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, interdizione che limita a cinque anni. Rigetta nel resto il ricorso.