La Cassazione traccia i confini tra critica (ammissibile) e offesa (punibile penalmente) al lavoratore da parte del sovraordinato

Il potere gerarchico o comunque di sovraordinazione consente di richiamare, ma non di ingiuriare, il lavoratore dipendente o di esorbitare dai limiti di correttezza e del rispetto della dignità umana con espressioni che contengano un’intrinseca valenza mortificatrice della persona e si dirigano più che all’azione censurata, alla figura morale della dipendente, traducendosi in un attacco personale sul piano individuale, che travalichi ogni ammissibile facoltà di critica.

Questo il principio di diritto affermato dalla sez. V Penale della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 35013, depositata il 20 agosto 2015, nella quale ha individuato, in tema di ingiuria consumata nel luogo di lavoro, la linea di discrimine tra i casi in cui le critiche del capo” sono rivolte all’azione del lavoratore da quelli in cui gli epiteti si dirigano alla sfera personale del dipendente, esorbitando dal legittimo richiamo per arrivare all’area del penalmente rilevante. Il caso concreto e le tappe processuali. Il giudice di prime cure condannava l’imputata, direttrice di un istituto tecnico e professionale, per aver rivolto espressioni quali, riferendosi alla precedente dirigente, le leccavi il culo e i piedi , per il delitto di ingiuria ex art. 594 c.p In secondo grado l’imputata veniva invece assolta dal reato perché il fatto non sussiste. Secondo il giudice d’appello la frase era stata pronunciata in uno stato di alterazione psicologica conseguente all’atteggiamento poco professionale della lavoratrice dipendente e non offendeva il bene giuridico dell’onore e della reputazione tutelato dalla fattispecie incriminatrice. In particolare, benché la direttrice le avesse fatto notare che era arrivata nuovamente in ritardo, la parte civile aveva risposto con tono di sfida sostenendo che per contestarle il ritardo avrebbe dovuto installare un rilevatore di presenza, entrando nel proprio ufficio, chiudendo la porta. L’imputata aveva allora convocato la dipendente nella propria stanza per chiarire la vicenda ma, per stessa ammissione di quest’ultima, aveva continuato a rispondere a tono, andando via senza congedarsi e chiudendo di nuovo la porta. È a questo punto che la direttrice avrebbe pronunciato l’espressione le leccavi il culo e i piedi , facendole notare, con questa espressione colorita, di avere un atteggiamento irrispettoso nei suoi confronti, mai assunto nei confronti della precedente dirigente scolastica. Il cuore della questione sottoposta alla Suprema Corte è allora le parole pronunciate dall’imputata erano dirette alla condotta della lavoratrice o alla sua persona? Diverse erano le risposte date dai giudici di merito e diametralmente opposta l’esito delle relative decisioni. L’onore e il decoro della persona come parametro di riferimento. Per valutare l’incidenza lesiva della condotta, la cui portata va esaminata ai fini di un compiuto giudizio sull'esistenza o meno di un pregiudizio per l'onore e il decoro della parte offesa nel proprio ambiente lavorativo ed umano, bisogna partire proprio dalla verifica del contenuto degli oggetti della tutela penale dell’ingiuria. Dei beni giuridici tutelati dall’art. 594 c.p. – l’onore e il decoro – il primo attiene alle qualità che concorrono a determinare il valore di un individuo, mentre il decoro concerne il rispetto o il riguardo di cui ciascun essere umano è comunque degno il giudizio sulla lesione effettiva di detti beni non può pertanto prescindere dal considerare se, rispetto all'ambiente nel quale una determinata espressione è profferita, la stessa si limiti alla pur aspra critica di un'opinione non condivisa ovvero trasmodi nello squalificare la persona destinataria rispetto ai profili appena indicati Cass., n. 37380/2011 , che annullava con rinvio una sentenza di assoluzione nei confronti di un preside di un istituto scolastico, che aveva insultato un collega, pronunciando l’espressione lei dice solo stronzate . Il contesto lavorativo non rileva come scriminante. La giurisprudenza di legittimità, in tema di tutela penale dell'onore, al fine di accertare se l'espressione utilizzata sia idonea a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 594 c.p., ha sempre sostenuto che occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell'offeso e dell'offensore nonché al contesto nel quale detta espressione sia stata pronunciata ed alla coscienza sociale. E così, è stata ritenuta priva di rilevanza offensiva l'espressione siete venuti a rompere le scatole proferita nel contesto di un vivace scambio verbale tra professoresse Cass., n. 39454/2005 . Ma ciò non significa che il contesto lavorativo faccia perdere valenza offensiva alle frasi profferite in tale ambito. Si è infatti ritenuto configurato il reato di ingiuria allorquando il datore di lavoro rivolga alla propria dipendente un'espressione oggettivamente spregiativa sei una stronza , non contribuendo ad escludere o attenuare la responsabilità datoriale il contesto - l'ambiente di lavoro - nel quale l'espressione è stata preannunciata Cass., n. 35099/2010 . E si è fatto rispondere del reato di ingiuria il superiore gerarchico il quale sul luogo di lavoro indirizzi frasi volgari ad un proprio sottoposto io voglio sapè te che cazzo ci stai a fa qua dentro, che nun fai un cacchio ed altro , censurandone l'operato perché mosso dall’intento di stigmatizzare un comportamento genericamente inopportuno del dipendente Cass., n. 42064/2007 . Il discrimen tra critica e ingiuria. Qual è allora il parametro giudico che consente di verificare se una determinata espressione rientri nell’ambito di una critica legittima o travalichi nell’ingiuria punibile penalmente? Ripercorrendo il proprio precedente e consolidato orientamento indirizzo interpretativo, gli Ermellini ricordano che in tema di ingiuria in ambito lavorativo, il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione consente di richiamare, ma non di ingiuriare il dipendente lavoratore, o di esorbitare dai limiti della correttezza e del rispetto della dignità umana, mediante l'uso di espressioni che travalichino ogni finalità correttiva e disciplinare Cass, n. 6578/2009 nel caso di specie si è ritenuto che l'uso di espressioni come penoso , mezzucci , mezze maniche e fregare il proprio datore di lavoro contenessero un'intrinseca valenza mortificatrice della persona e fossero dirette alla figura morale del dipendente, traducendosi in un attacco personale sul piano individuale, che travalica ogni ammissibile facoltà di critica. Quindi, affinché una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell'insulto a quest'ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell'errore, sottolineino l'eventuale trasgressione realizzata. Se invece le frasi usate, sia pure attraverso la censura di un comportamento, integrino disprezzo per l'autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che esse, in quanto dirette al soggetto, hanno potenzialità ingiuriosa. Le conclusioni della Suprema Corte. Recependo tali principi, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l’espressione le leccavi il culo e i piedi , non fosse rimasta circoscritta solo nell’ambito della censura di un comportamento della lavoratrice arrivare solitamente in ritardo a lavoro ma avesse sconfinato nella sua sfera personale, rappresentandola, attraverso il riferimento al rapporto con la precedente direttrice, in modalità tali da modificarne la figura morale. Di conseguenza, una volta riconosciuto il carattere ingiurioso della frase in questione, ha annullato, ai soli effetti civili, la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 18 giugno – 20 agosto 2015, n. 35013 Presidente Vessichelli – Relatore Caputo Ritenuto in fatto Con sentenza deliberata il 22/07/2009, il Giudice di pace di Catania aveva dichiarato I.C. colpevole del reato di ingiuria in danno di B.A. per averle rivolto espressioni quali, riferendosi alla precedente direttrice scolastica, le leccavi il culo e i piedi e l'aveva condannata alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni in favore della parte civile. Investito dell'appello dell'imputata, il Tribunale di Catania, con sentenza deliberata in data 09/05/2013, ha assolto I.C. dal reato ascrittole perché il fatto non sussiste. Avverso l'indicata sentenza del Tribunale dl Catania ha proposto ricorso per cassazione B.A., attraverso l'avv. F. P., denunciando, nei termini di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., violazione di legge l'espressione rivolta alla parte civile non rientra in un semplice richiamo alla dipendente, ma intaccava le qualità della stessa essendo diretta alla persona e non alla condotta, laddove l'imputata è stata motivata da stizza dovuta al comportamento di B., giunta a scuola in leggero ritardo, e l'eventuale richiamo legato alla condotta della dipendente era già stato avanzato in precedenza, quando I. aveva convocato la ricorrente nei suo ufficio per redarguirla. Considerato in diritto Il ricorso deve essere accolto, nei termini di seguito indicati. I giudici di merito concordano circa la ricostruzione del fatto e, dunque, circa l'espressione utilizzata da I., direttore dei servizi generali e amministrativi dell'istituto tecnico e professionale presso il quale lavorava, come assistente amministrativo, B Secondo il giudice di appello, la frase è stata pronunciata in un evidente stato di alterazione psicologica conseguente all'atteggiamento poco professionale tenuto da B. e non riveste la valenza offensiva richiesta dalla fattispecie incriminatrice benché I. avesse pacatamente e giustamente fatto notare a B. che quest'ultima era arrivata in ufficio in ritardo come avveniva solitamente, la parte civile aveva risposto con tono di sfida, dicendole che, al fine di contestare Il ritardo, avrebbe dovuto Installare un rilevatore dl presenza e, quindi, era entrata nel proprio ufficio chiudendo la porta I. aveva quindi convocato la dipendente nella propria stanza per chiarire la vicenda, ma, come ammesso dalla stessa B., questa, invece di ravvedersi, aveva risposto a tono, andando via senza congedarsi e chiudendo, di nuovo, la porta dietro le spalle a quel punto veniva raggiunta da I. che, se pur con espressione colorita, le faceva notare di avere un atteggiamento irrispettoso nel suoi confronti, mai assunto nel confronti della precedente direttrice scolastica. Le parole pronunciate da I., osserva il Tribunale di Catania, censurano un comportamento di B., ma non Intaccano le sue qualità, essendo dirette alla condotta e non alla persona. Così delineato l'iter argomentativo della sentenza Impugnata, sussiste la denunciata erronea applicazione della norma penale. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione consente di richiamare, ma non di Ingiuriare Il lavoratore dipendente o di esorbitare dal limiti della correttezza e dei rispetto della dignità umana con espressioni che contengano un'intrinseca valenza mortificatrice della persona e si dirigano più che all'azione censurata, alla figura morale dei dipendente, traducendosi In un attacco personale sui piano Individuale, che travalichi ogni ammissibile facoltà di critica così, In tema di diffamazione, Sez. 5, n. 6758 del 21/01/2009 - dep. 17/02/2009, Bertocchi, Rv. 243335 . Nel termini sopra richiamati, la frase rivolta da I. alla ricorrente, lungi dal restare circoscritta nell'ambito della censura al comportamento della dipendente, ha investito la persona, rappresentandola, attraverso il riferimento al rapporto con la precedente direttrice, In forma Idonea a mortificarne la figura morale. Si Impone, pertanto, l'annullamento agli effetti civili della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame al giudice civile competente per valore in grado di appello, che - fermo il carattere Ingiurioso della frase in questione - non sarà vincolato all'esame del soli punti indicati nella presente sentenza di annullamento Sez. 5, n. 34016 del 22/06/2010, dep. 21109/2010, Gambino, Rv. 248413 . P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello.