Gratuito patrocinio, redditi ‘taroccati’: numeri forniti dalla moglie, ma la firma è del marito. Condannato

Non regge la linea difensiva adottata dall’uomo, che addebita ogni responsabilità alla moglie, la quale avrebbe fornito dati errati al loro legale. Rilevante, innanzitutto, la firma da lui apposta alla dichiarazione. E difatti, proprio l’uomo avrebbe dovuto verificare l’esattezza dei numeri indicati nella documentazione.

Tutto opera di mia moglie . Così l’uomo scarica ogni colpa sulla coniuge, ma la linea difensiva si rivela assai fragile Sua, difatti, è la firma alla dichiarazione reddituale – rivelatasi falsa – finalizzata all’ottenimento del patrocinio a spese dello Stato, e sua è la conseguente responsabilità. Ciò a prescindere dal fatto che, sempre secondo l’uomo, sia stata la donna a fornire i dati presenti nella documentazione relativa ai redditi. Corte di Cassazione, sentenza n. 34087/15, sez. IV Penale depositata oggi Patrocinio. Nessun dubbio ha attraversato la mente dei giudici di merito. ‘Carta canta’, e, difatti, dalla documentazione firmata dall’uomo, emerge che egli ha falsamente dichiarato di avere percepito, per l’anno d’imposta 2008, un reddito inferiore a 10mila euro – mentre, in realtà, il reddito complessivo del nucleo familiare era di quasi 13mila euro –, allo scopo di ottenere l’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato . Consequenziale la condanna alla pena di sei mesi di reclusione e 600 euro di multa. Redditi. Secondo l’uomo, però, i giudici hanno sottovalutato alcuni dati di rilievo, da cui era possibile dedurre l’errore incolpevole da lui compiuto. Chiara la linea difensiva egli ha sottoscritto un modulo prestampato, formato su carta intestata dell’allora difensore , e, viene aggiunto, le indicazioni reddituali riportate nell’atto sono state raccolte dallo stesso difensore sulla base di quanto dichiarato da sua moglie. Di conseguenza, sempre seguendo l’ottica difensiva, l’uomo è vittima di un errore, perché ha semplicemente firmato una certificazione predisposta sulla scorta delle sole indicazioni fornite dalla coniuge , mentre egli ignorava l’esatto ammontare del reddito familiare . Tale visione, però, viene ritenuta risibile dai giudici della Cassazione, i quali, pur accettando l’origine ‘rosa’ dei dati contenuti nella dichiarazione , evidenziano come sia stato l’uomo a sottoscrivere il documento e, quindi, ad indicare falsamente il reddito familiare percepito . E questa responsabilità è resa ancora più evidente dalla considerazione che proprio all’uomo spettava il compito di verificare l’esattezza dei riferimenti reddituali contenuti nell’autocertificazione da lui firmata. Peraltro, va aggiunto, è logico presumere che l’uomo non fosse all’oscuro del fatto che la moglie era titolare di redditi, oltre che da lavoro dipendente, anche da fabbricati e terreni , redditi che, aggiunti a quelli personali dell’uomo, individuavano entrate complessive superiori al reddito minimo indicato dalla legge per il riconoscimento del gratuito patrocinio. Tutto ciò conduce, ovviamente, alla conferma della condanna dell’uomo.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 26 febbraio – 4 agosto 2015, n. 34087 Presidente Zecca – Relatore Foti Ritenuto in fatto A M.G. è stato contestato il reato di cui all'art. 95 del d.p.r. n. 115/02 per avere falsamente dichiarato, al fine di ottenere l'ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, con dichiarazione sostitutiva ex art. 46 del d.p.r. n. 445/2000, di avere percepito per l'anno d'imposta 2008 un reddito inferiore a 10.000,00 euro, mentre, in realtà, il reddito complessivo del nucleo familiare era di euro 12.815,00, e dunque superiore al limite previsto dalla legge. Con sentenza del 5 marzo 2014, la Corte d'Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, ha confermato la sentenza del Gip del Tribunale di Nuoro, del 1 ° marzo 2012, resa nelle forme del rito abbreviato condizionato, che ne aveva affermato la penale responsabilità per il reato ascritto e lo aveva condannato, con le attenuanti generiche e con la diminuente del rito, alla pena di sei mesi di reclusione e 600,00 euro di multa. Deduce il ricorrente l'erronea applicazione dell'art. 95 del richiamato d.p.r., in relazione all'art. 47 cod. pen. Si sostiene, in particolare, nel ricorso che la falsa dichiarazione reddituale sarebbe il frutto di mero errore di fatto, atteso che, non solo l'imputato ha sottoscritto un modulo prestampato formato su carta intestata dell'allora difensore, ma le indicazioni reddituali riportate nell'atto erano state raccolte, dallo stesso difensore, dalla moglie dell'imputato. Stando così le cose, dunque, non potrebbe sostenersi che il ricorrente abbia manifestato la volontà di formare una falsa certificazione, in quanto al momento della firma del documento non era allo stesso noto che l'importo del reddito familiare era superiore a quello indicato. Se, soggiunge il ricorrente, la certificazione è stata predisposta sulla scorta delle sole indicazioni fornite dalla coniuge dell'imputato, il quale in realtà ignorava l'esatto ammontare del reddito, la sottoscrizione dell'atto rappresenterebbe un mero errore scusabile. Considerato in diritto Il ricorso è manifestamente infondato. Invero, anche a voler dar credito alle affermazioni del ricorrente circa l'origine dei dati reddituali contenuti nell'autocertificazione, resta il fatto che è stato lui a sottoscrivere il documento e ad indicare falsamente il reddito familiare percepito, e che a lui incombeva di verificare l'esattezza dei riferimenti reddituali contenuti nell'autocertificazione sottoscritta. Non poteva, peraltro, ignorare l'imputato che la moglie era titolare di redditi, oltre che da lavoro dipendente, anche da fabbricati e terreni che, aggiunti al reddito personale, pure taciuto dal M., individuavano entrate complessive superiori al reddito minimo indicato dalla legge. Non risulta, peraltro, che il ricorrente abbia posto il tema dell'errore di fatto all'attenzione della corte territoriale, davanti alla quale ha formulato censure del tutto diverse, concernenti il criterio di determinazione del reddito e la sua consistenza ciò che individua un ulteriore motivo di inammissibilità del ricorso. Alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in euro 1.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di 1.000.00 euro alla cassa delle ammende.