Violenze sulla compagna, divieto di avvicinamento per l’uomo. Rientro a casa ‘forzato’: custodia in carcere

All’inizio di quest’anno l’ultimo episodio, ma le parole della donna tracciano uno scenario da incubo. E in questo quadro il ritorno dell’uomo tra le mura domestiche non è affatto valutabile come un segno di ricomposizione della coppia.

Amore – oramai esaurito – e odio – a piene mani – rapporto di coppia davvero difficile da gestire soprattutto per la donna, costretta a subire le costanti violenze – anche di carattere sessuale – del proprio compagno. Logica la contestazione del reato di maltrattamenti in famiglia, consequenziale il provvedimento di custodia cautelare in carcere” nei confronti dell’uomo. Irrilevante il fatto che quest’ultimo sia ‘rientrato’ in casa, dopo un primo divieto di avvicinamento” alla donna quel ritorno tra le mura domestiche, difatti, è valutabile come una forzatura, e non come un segno di ricomposizione della coppia Cassazione, sentenza n. 33601, sez. III Penale, depositata oggi . Lite violenta. Ottica condivisa dal gip e dal Tribunale della libertà confermata la custodia cautelare in carcere per un uomo, finito sotto accusa per maltrattamenti in famiglia , perpetrati, più precisamente, ai danni della compagna. Ultimo episodio, in ordine cronologico, quello verificatosi nei primi giorni di quest’anno, con una lite accesissima in automobile e caratterizzata da alcune lesioni riportate dalla donna. A rendere ancora più chiaro il quadro, secondo i giudici, poi, la constatazione che l’uomo, violando un precedente provvedimento che gli imponeva il divieto di avvicinamento alla oramai ex compagna, era rientrato, con la forza, nell’abitazione condivisa con la donna. Secondo l’uomo, però, quel ritorno tra le mura domestiche era testimonianza di una riconciliazione , con la consequenziale volontà di ripristinare la convivenza , anche tenendo presente la remissione di querela formulata dalla donna. Carcere. Ogni obiezione, però, si rivela inutile. Anche per i giudici della Cassazione, difatti, è legittima l’applicazione della custodia cautelare in carcere . Decisiva, sia chiaro, non solo l’ultima lite – ‘certificata’ anche dagli uomini della Polizia –, bensì pure i racconti fatti dalla donna, la quale ha spiegato di aver presentato altre denunce nei confronti del convivente , aggiungendo che quest’ultimo, nonostante il divieto di avvicinamento, adottato dall’autorità giudiziaria , ha imposto la sua presenza all’interno dell’abitazione , presenza non denunciata , aggiunge la donna, solo per tutelare i figli . Riflettori puntati, poi, proprio sulla nuova forzata convivenza tale elemento non ha modificato i rapporti. Difatti, la donna ribadisce che la situazione è insostenibile, considerato l’abituale comportamento violento tenuto dall’uomo, spesso sfociante in percosse e lesioni e talora nella costrizione ad avere rapporti sessuali . Per completare il quadro, infine, viene evidenziato anche lo ‘stile di vita’ dell’uomo, il quale non lavora e non cerca neppure un’occupazione , costringendo la donna a provvedere da sola al mantenimento della famiglia . Assolutamente risibile, quindi, la visione proposta dall’uomo il suo rientro a casa, in violazione delle prescrizioni cautelari impartitegli , è stato imposto letteralmente alla donna. Tutto ciò rende evidente la necessità di ‘bloccare’ l’uomo, soprattutto tenendo presente la notevole violenza esercitata nei confronti della convivente, che già versava in uno stato di profonda prostrazione fisica e psicologica confermata, perciò, la custodia in carcere .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 aprile – 30 luglio 2015, n. 33601 Presidente Mannino – Relatore Di Nicola Ritenuto in fatto 1. D.C. ricorre per cassazione impugnando l'ordinanza indicata in epigrafe con la quale il tribunale della libertà di Lecce ha confermato quella resa dal Gip presso il tribunale della medesima città che aveva disposto la custodia cautelare in carcere nei confronti del ricorrente per il reato di maltrattamenti in famiglia. 2. Per la cassazione dell'impugnata ordinanza D.C. solleva, a mezzo del difensore, due motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 2.1. Con il primo motivo deduce violazione della legge penale e illogicità e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza per il reato di maltrattamenti in famiglia sul rilievo che proprio dalla lettura del verbale di arresto emerge che, in relazione alle all'episodio avvenuto la notte del 6 gennaio 2015, il ricorrente non aveva alcuna intenzione di procurare lesioni alla persona offesa, come è stato riconosciuto dalla stessa ordinanza cautelare, ma avesse semplicemente cercato di impedire che la convivente scendesse dall'alto il movimento rischiando in quel caso gravissime lesioni e comunque non aveva l'intenzione di procurare lesioni alla stessa. Né le dichiarazioni della persona offesa sono caratterizzate, contrariamente a quanto si legge nell'ordinanza impugnata, da intrinseca coerenza logica. 2.2. Con il secondo motivo lamenta violazione della legge processuale ed illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'esigenza cautelare dei pericolo di reiterazione del reato. Si sostiene che il tribunale cautelare ha dato risalto alla violazione, da parte del ricorrente, del provvedimento che imponeva il divieto di avvicinamento alla persona offesa ma non ha considerato come agli atti del fascicolo vi fosse la remissione di querela formulata dalla convivente dei ricorrente dalla quale si evinceva una piena riconciliazione tra le parti, con la consequenziale volontà di ripristinare, pacificamente, la convivenza. Pertanto il ricorrente non intendeva certamente violare alcun divieto ma semplicemente continuare a dar corso alla precedente convivenza, soprattutto nell'interesse dei figli. La motivazione dell'ordinanza impugnata non sarebbe adeguata in merito alla concreta possibilità che le eventuali residue esigenze cautelare potessero essere soddisfatte mediante la misura cautelare degli arresti domiciliari da eseguirsi in altro Comune rispetto a quello di residenza della persona offesa a Lecce, presso l'abitazione dei genitori dell'indagato , lamentandosi inoltre il vizio di omessa motivazione sulla richiesta, formulata dal difensore e verbalizzata nel corso dell'udienza data del 27 gennaio 2015, di poter eventualmente disporre le procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici di cui all'articolo 275 bis cod. proc. pen. riguardo ai quali il ricorrente, alla predetta udienza, aveva anticipatamente prestato consenso . Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza e perché presentato fuori dai casi consentiti. 2. Quanto al primo motivo, il tribunale cautelare ha dato atto nel provvedimento impugnato delle risultanze emerse dal verbale di arresto ossia che la sera dei 6 gennaio 2015, al termine di una serata trascorsa insieme, facendo rientro presso l'abitazione, il ricorrente e la persona offesa iniziarono a litigare animatamente, in quanto la vittima aveva ribadito la propria volontà di interrompere definitivamente la convivenza, ormai divenuta intollerabile. Ad un certo punto, la donna aprì lo sportello, cercando di scendere dall'auto, ed il ricorrente, mentre con una mano guidava, con l'altra afferrò la donna per il pantalone, trattenendola all'interno dell'abitacolo dell'autovettura e, in questa fase, la S. urtò con il labbro contro lo spigolo dello sportello, mentre i pantaloni si strapparono. Il volto della S. iniziò pertanto a sanguinare mentre proseguiva il violento alterco tra i due, tanto che il ricorrente fu costretto ad arrestare la marcia dell'autovettura. La lite attirò l'attenzione di alcuni passanti e, poco dopo, sopraggiunse una volante della polizia. La donna, escussa dai militari, precisò di aver presentato altre denunce nei confronti del convivente e che questi, dai febbraio 2014, nonostante il provvedimento di divieto di avvicinamento adottato dall'autorità giudiziaria il mese precedente, aveva imposto la sua presenza all'interno dell'abitazione, circostanza, questa, non tempestivamente denunciata dalla S., nel tentativo di tutelare prevalentemente all'interesse dei figli, cercando di evitare reazioni violente da parte del ricorrente. Tuttavia, la donna evidenziò come la situazione fosse ormai divenuta insostenibile, considerato l'abituale comportamento violento tenuto dal ricorrente nei suoi confronti, spesso sfociante in percosse e lesioni, tanto che prima delle festività natalizie, a seguito delle percosse ricevute dal ricorrente, la donna non si presentò sul posto di lavoro per quasi quindici giorni, in preda ad uno stato di profonda angoscia e frustrazione. La vittima precisò pure di essere stata costretta dal ricorrente ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà e che, nei rari casi in cui si era rifiutata, l'uomo gli aveva impedito di uscire di casa. Da ultimo, la donna aggiunse che il ricorrente non intendeva modificare in alcun modo il suo stile di vita, non lavorava e non cercava neppure un'occupazione, e pertanto provvedeva soltanto lei al mantenimento della famiglia. Tenuto conto di ciò, il tribunale cautelare ha osservato come il ricorrente fosse stato già sottoposto ad un provvedimento di divieto di avvicinamento alla persona offesa, adottato sulla base delle dichiarazioni rese dalla stessa vittima e da padre di quest'ultima, con la conseguenza che la condotta violenta e prevaricatrice adottata dal ricorrente si era ininterrottamente protratta nel corso degli ultimi anni della relazione di convivenza con la S., anche a costo di violare palesemente il provvedimento cautelare adottato dall'autorità giudiziaria nel gennaio 2014, come il ricorrente ha fatto imponendo il suo rientro presso l'abitazione familiare già a decorrere dal mese successivo febbraio 2014 . Al cospetto di tali inequivoche acquisizioni, il tribunale cautelare, ricordando le regole di giudizio che governano le dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato, ha correttamente ritenuto la sussistenza di un grave quadro indiziario a carico del ricorrente avuto anche riguardo ai dati oggettivi costituiti dalla violazione delle prescrizioni cautelari, in precedenza imposte per analoghi reati, e dagli atti di violenza compiuti in data 6 gennaio 2015 dal ricorrente. Il quale, nel contestare la esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, non considera minimamente la motivazione del provvedimento impugnato e si limita a proporre una sua versione alternativa fondata sua una riappacificazione affermata in maniera del tutto apodittica e decisamente negata dalla vittima, la quale ha invece rimarcato come il rientro nell'abitazione da parte dei ricorrente, in palese divieto alle precedenti prescrizioni cautelari impartitegli, fosse stato imposto e non fosse invece il frutto di una libera scelta della donna. Va allora precisato che la valutazione cautelare del tribunale del riesame è sostenuta da adeguata motivazione, priva di vizi logici e perciò sottratta al sindacato della Corte di cassazione, mentre le censure del ricorrente si concentrano e si diffondono sugli aspetti fattuali della vicenda che sfuggono al controllo di legittimità qualora, come nella specie, non siano il frutto di mero arbitrio o di un ragionamento illogico. Consegue da ciò la manifesta infondatezza e, al tempo stesso, la genericità del motivo proposto atteso che la censura è dei tutto eccentrica rispetto alla ratio decidendi, che regge la motivazione del provvedimento impugnato in punto di ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. 3. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo. Quanto alle esigenze cautelari, il tribunale della libertà ha desunto il pericolo di reiterazione criminosa specifica dalla gravità dei fatti, con particolare riferimento alle modalità esecutive con le quali i delitti ascritti al ricorrente risultano perpetrati, caratterizzati dalla notevole violenza esercitata nei confronti della convivente, che già versava in uno stato di profonda prostrazione fisica e psicologica. Aldilà dell'oggettiva gravità dei fatti illeciti posti in essere dal ricorrente, il tribunale cautelare ha posto in risalto la personalità del ricorrente risultato gravato da diversi precedenti penali, soprattutto per contrabbando. Su questi presupposti, con logica ed adeguata motivazione, il tribunale ha ritenuto la sussistenza di un concreto ed attuale pericolo di recidiva ed ha giustamente condiviso la scelta operata dal Gip in ordine alla misura applicata, in ragione della inadeguatezza, nel caso di specie, di altre misure, ivi compresa quella degli arresti domiciliari, attesa l'impossibilità di ritenere che un soggetto, il quale già aveva dato prova di non attenersi alle prescrizioni impartitegli con l'applicazione di misure cautelari diverse da quella inframuraria, potesse, avendo già dimostrato di essere incurante delle precedenti imposizioni, osservare quelle necessariamente connesse al regime cautelare domestico. Quanto infine al denunciato difetto di motivazione circa il fatto che il tribunale cautelare avrebbe omesso di pronunciarsi sull'idoneità degli arresti domiciliari, eseguiti con particolari modalità di controllo elettronico, a salvaguardare l'esigenza cautelare individuata, occorre osservare che dal verbale di udienza non risulta formulata una tale richiesta, sulla quale il tribunale non aveva comunque l'obbligo di espressa motivazione in quanto tale onere motivazionale è stato introdotto con la legge 16 aprile 2015, n. 47, pubblicata sulla G.U.23/4/2015, avente ad oggetto modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla L. 26 luglio 1975, n. 354 , in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità ratione temporis non applicabile al caso di specie. 4. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Dispone che copia dei presente provvedimento sia trasmessa al direttore dell'istituto penitenziario competente, a norma dell'art. 94, comma 1 ter, disp. att. cod. proc. pen.