Omessa dichiarazione: l’amministratore di fatto non libera quello di diritto

Nei reati, anche omissivi, avvenuti in nome e per conto della società, l’amministratore di fatto va individuato nel soggetto attivo del reato, mentre il prestanome è il concorrente che non ha impedito l’evento che, in base all’art. 2392 c.c. responsabilità verso la società , avrebbe dovuto impedire.

Lo ribadisce la Corte di Cassazione nella sentenza n. 33397, depositata il 29 luglio 2015. Il caso. La Corte d’appello di Milano confermava la colpevolezza del legale rappresentante di una società unipersonale per il reato di omessa dichiarazione. Veniva infatti ritenuta non persuasiva la tesi dell’incolpevole e totale estraneità dell’imputato, il quale, pur avendo rilasciato una delega ad operare sul conto bancario, aveva comunque conservato la titolarità e di conseguenza anche il potere di svolgere le opportune verifiche sull’andamento societario. Non risultava inoltre nessun elemento che dimostrasse l’esistenza di impedimenti ad interessarsi della società posti in essere dall’amministratore di fatto. Ne consegue che la piena consapevolezza dell’esistenza della società e la mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali giustificava la responsabilità penale del legale. L’imputato ricorre per cassazione denunciando vizio della motivazione sotto il profilo del travisamento della prova. Si sostiene siano state tralasciate alcune conversazioni telefoniche tra l’imputato e il vero responsabile della società, da cui emergerebbe che il legale sia in realtà un mero prestanome. Travisamento della prova. La Corte si sofferma inizialmente sul travisamento della prova che consiste nell’introdurre, nella motivazione, un’informazione rilevante non esistente nel processo o nell’omettere la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia. Il vizio, per essere apprezzabile in sede di legittimità, deve risultare da atti del processo autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione scardini l’intero ragionamento del giudice e determini al suo interno radicali incompatibilità così da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione sez. VI, n. 9923/2011 sez. VI, n. 5146/2014 . Il ricorrente, inoltre, ha l’onere di illustrare le ragioni per cui il dato travisato compromette in modo decisivo la coerenza della motivazione e ha l’onere di specificare, in modo inequivoco, gli atti processuali che vuole far valere. La Cassazione ribadisce che per suffragare il travisamento di una prova non è sufficiente la citazione di alcuni brani degli atti che si intende far valere, ma è necessario fornire la completa trascrizione del loro contenuto tra le tante sez. F., n. 32362/2010 . Alla luce di queste specificazioni, nel caso in esame la conversazione telefonica registrata non è decisiva per provare l’innocenza dell’imputato. Equiparazione dell’amministratore di fatto a quello formalmente investito. La Corte ribadisce, inoltre, che gli amministratori di fatto sono equiparati a quelli formalmente investiti e ciò avviene sia in materia civile che in quella penale e tributaria sez. III, n. 23425/2011 sez. III, n. 10498/2015 . Si chiarisce inoltre che vero soggetto qualificato non è il prestanome, ma colui che gestisce effettivamente la società, perché solo lui è in grado di compiere l’azione dovuta, mentre l’estraneo è il prestanome. Si precisa che al prestanome può essere imputata una corresponsabilità solo in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 c.c. in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale e impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi. Gli Ermellini, quando si sono occupati di reati, anche omissivi, in nome e per conto della società, hanno individuato nell’amministratore di fatto il soggetto attivo del reato e nel prestanome il concorrente che non ha impedito l’evento che in base alla norma citata aveva il dovere di impedire. Siccome molto spesso il prestanome non ha potere d’ingerenza nella gestione della società, per potergli addebitare il concorso, la Corte ha fatto ricorso al dolo eventuale il prestanome che accetta la carica, ne accetta anche i rischi connessi Cass. nn. 7208/2006 22919/2006 . Il principio dell’equiparazione dell’amministratore di fatto a quello di diritto è stato recepito dal legislatore nella riforma societaria. L’art. 2639 c.c., introdotto con il d.lgs. n. 6/2003, dispone che, per i reati societari previsti dal c.c., al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista della legge è equiparato chi esercita in materia continuativa i poteri previsti dalla legge. Anche se il riferimento è limitato a una specifica categoria di reati il principio generale che se ne deduce è applicabile ad altri settori penali dell’ordinamento e incide non solo sulla configurabilità del concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri, nel senso che autore principale del reato è l’amministratore di fatto, salva la partecipazione di estranei all’amministrazione secondo le regole del concorso di persone nel reato Cass., sez. III, n. 23425/2011 . Alla luce di queste considerazioni il ricorso viene ritenuto inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 17 giugno – 29 luglio 2015, n. 33397 Presidente Mannino – Relatore Orilia Ritenuto in fatto 1 La Corte d'Appello di Milano con sentenza 5.12.2015- per quanto ancora interessa - ha confermato la colpevolezza di D.L. in ordine al reato di omessa dichiarazione per gli anni di imposta 2005 e 2006, commesso nella veste di legale rappresentante della società unipersonale LT srl. Condividendo le argomentazioni del primo giudice, la Corte territoriale ha ritenuto non persuasiva la tesi della incolpevole e totale estraneità dell'imputato il quale pur avendo rilasciato una delega ad operare sul conto bancario, aveva comunque conservato la titolarità e quindi il potere di svolgere le opportune verifiche sull'andamento societario, non risultando peraltro nessun elemento che dimostrasse l'esistenza di impedimenti ad interessarsi della società posti in essere dall'amministratore di fatto, C.B La piena consapevolezza dell'esistenza della società e la mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali giustificava pertanto la sua responsabilità penale. 2 Il difensore dell'imputato ricorre per cassazione denunziando, con un unico motivo, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sotto il profilo del travisamento della prova art. 606 comma 1 lett. e cpp rimprovera alla Corte d'Appello di avere liquidato in una sola pagina il diniego della richiesta assolutoria e di avere omesso di prendere in considerazione le prove assunte nel giudizio di primo grado. Rimprovera altresì alla Corte d'Appello di avere tralasciato l'esame del primo motivo di gravame con particolare riferimento al contenuto delle conversazioni telefoniche tra l'imputato e il C., vero responsabile della società, conversazioni da cui emergeva con chiarezza che costui, unitamente alla moglie, aveva provveduto personalmente all'amministrazione in luogo dei ricorrente, mero prestanome. Riporta quindi una serie di brani delle conversazioni, rimproverando alla Corte territoriale di non averle neppure menzionate nella motivazione. Critica il ragionamento seguito dai giudici di merito per giustificare l'affermazione di responsabilità soffermandosi sui principi che regolano la posizione dell'amministratore di fatto e di quello di diritto. Osserva che la conferma della univoca gestione societaria sta nella delega ad operare sul conto corrente rilasciata alla moglie del C., autorizzata ad eseguire tutte le operazioni senza dare conto di nulla di ciò che spendeva e incassava. Infine, ritiene di non dover rispondere neppure a titolo di dolo eventuale perché il suo esame aveva dimostrato che il legame di profonda fiducia con il C. gli rendeva inconcepibile il solo pensiero di poter dubitare della correttezza del suo operato, spingendolo ad eseguire personalmente dei controlli. Considerato in diritto II ricorso è manifestamente infondato. Come più volte affermato da questa Corte tra le varie, cfr. Sez. 6, Sentenza n. 9923 del 05/12/2011 Ud. dep. 14/03/2012 Rv. 252349 Sez. 2, Sentenza n. 7380 dei 11/01/2007 Ud. dep. 22/02/2007 Rv. 235716 Sez. 2, Sentenza n. 47035 del 03/10/2013 Ud. dep. 26/11/2013 Rv. 257499 , il travisamento della prova si realizza allorché si introduce nella motivazione un'informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Affinché tale vizio sia apprezzabile in sede di legittimità, non è sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente contrastanti con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e della responsabilità dell'imputato ne' che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio implica infatti l'analisi di una più o meno ampia mole di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra di loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del Giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. Al giudice di legittimità è infatti preclusa - in sede di controllo sulla motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente e plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa . Queste operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Occorre invece che gli atti dei processo su cui fa leva il ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione cfr. Sez. 6, Sentenza n. 9923/2011 cit. Sez. 6, Sentenza n. 5146 del 16/01/2014 Ud. dep. 03/02/2014 Rv. 258774 . Ma, perché tale vizio sia valutabile in sede di legittimità, è ìn ogni caso onere dei ricorrente, non solo illustrare le ragioni per cui il dato travisato inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'interna coerenza della motivazione, nel senso sopra precisato, ma soprattutto individuare in modo inequivoco e rappresentare in modo specifico gli atti processuali che intende far valere. A tal riguardo, questa Corte di legittimità ha più volte affermato che il ricorrente che intenda dedurre in sede di legittimità il travisamento di una prova ha l'onere di suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti che intende far valere, non essendo sufficiente per l'effettivo apprezzamento del vizio dedotto la citazione di alcuni brani dei medesimi Sez. F, n. 37368 del 13/09/2007, Torino, Rv. 237302 Sez. 4, n. 37982 del 26/06/2008, Buzi, Rv. 241023 Sez. 2, n. 38800 del 01/10/2008, Gagliardo, Rv. 241449 Sez. 1, n. 06112 del 22/01/2009, Bouyahia, Rv. 243225 Sez. F, n. 32362 del 19/08/2010, Scuto, Rv. 248141 . Fatte queste premesse, deve rilevarsi che nel caso di specie il dedotto vizio non ricorre. La conversazione telefonica registrata e sintetizzata nei motivi di ricorso non si rivela, infatti, decisiva per demolire la dichiarazione di colpevolezza dell'imputato essa al più evidenzia il coinvolgimento dei C. nelle illecite vicende societarie, quale amministratore di fatto, nel quale l'imputato aveva riposto massima fiducia, ma non vale certo a tenere indenne il D. dalle proprie responsabilità connesse al formale rivestimento della carica di legale rappresentante. Come già affermato più volte da questa Corte tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 23425 del 28/04/2011 Ud. dep. 10/06/2011 Rv. 250962 e, più di recente, Sez. 3, Sentenza n. 10498/2015 non massimata , l'equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti è stata affermata sia nella materia civile che in quella penale e tributaria cfr. nella materia civile Cass. 5 dicembre del 2008 n. 28819 12 marzo 2008, n. 6719 Sez. un. civile 18 ottobre 2005 n. 2013 in quella penale per tutte Cass. 7203 del 2008, Cass. n. 9097 del 1993 e per le violazioni tributarie cfr. Cass. Sez. quinta civile n 21757 del 2005 Cass. pen. n. 2485 del 1995 . Si è chiarito che vero soggetto qualificato non è il prestanome ma colui il quale effettivamente gestisce la società perché solo lui è in condizione di compiere l'azione dovuta mentre l'estraneo è il prestanome. Ma si è altresì precisato che a quest'ultimo una corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 cod. civ., in forza della quale l'amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi. Nelle occasioni in cui questa Corte si è occupata di reati, anche omissivi, commessi in nome e per conto della società, ha individuato nell'amministratore di fatto il soggetto attivo del reato e nel prestanome il concorrente per non avere impedito l'evento che in base alla norma citata aveva il dovere di impedire. Proprio perché il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d'ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, questa Corte ha fatto ricorso alla figura del dolo eventuale si è sostenuto cioè che il prestanome accettando la carica ha anche accettato i rischi connessi a tale carica cfr. Cass. 26 gennaio, 2006 n. 7208 Cass. 6 aprile 2006 n. 22919, Cass. 26 novembre 1999 Dragomir Rv 215199 . Orbene, in base al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, comma 4 la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta a pena di nullità dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l'amministrazione anche di fatto, o da un rappresentante negoziale. II rappresentante legale si deve considerare mancante, non solo quando manca la nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non ha alcun potere o ingerenza nella gestione della società e, quindi, non è in condizione di presentare la dichiarazione perché non dispone dei documenti contabili detenuti dall'amministratore di fatto. In tale situazione l'intraneo è colui che, sia pure di fatto, ha l'amministrazione della società mentre al prestanome il fatto potrebbe essergli addebitato a titolo di concorso a norma dell'art. 2392 c.c. e art. 40 cpv c.p. a condizione che ricorra l'elemento soggettivo proprio del singolo reato. Tale principio si riscontra anche in materia di sanzioni amministrative tributarie. Il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 11 parifica il legale rappresentante all'amministratore di fatto sancendo formalmente la diretta responsabilità per le sanzioni anche degli amministratori di fatto. Il principio dell'equiparazione dell'amministratore di fatto a quello di diritto è stato recepito dal legislatore in occasione della riforma del diritto societario. Dispone l'art. 2639 c.c. introdotto con il D.Lgs. n. 6 del 2003, che per i reati societari previsti dal titolo quindicesimo del libro quinto dei codice civile al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge è equiparato chi esercita in materia continuativa i poteri previsti dalle legge. La norma, ancorché riferita esplicitamente ai reati societari previsti dal codice civile, contiene la codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori penali dell'ordinamento e per la sua natura interpretativa è applicabile anche ai fatti pregressi sull'applicabilità ai fatti pregressi cfr. in motivazione Cass. n. 7203 dei 2008 . Tale principio incide non solo sulla configurabilità del concorso dell'amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri, nel senso che autore principale del reato è proprio l'amministratore di fatto salva la partecipazione di estranei all'amministrazione secondo le regole del concorso di persone nel reato cfr. cass. Sez. 3, Sentenza n. 23425/2011 cit. . Orbene, nel caso di specie, premesso che non vi è contestazione né sulla rilevante evasione fiscale per svariate centinaia di migliaia di euro né sul ruolo di amministratore di diritto del D. negli anni di imposta in contestazione, va rilevato che, secondo quanto accertato dai giudici di merito, l'imputato, anche se aveva rilasciato una delega alla moglie del C., aveva comunque mantenuto la titolarità dei conto corrente bancario e quindi era abilitato a controllare il funzionamento della LTD. Inoltre, la mancata presentazione negli uffici finanziari per chiarire la propria posizione è stata interpretata come scarsa prova di dissociazione dall'operato dei C. con il quale anzi - semore secondo la ricostruzione dei giudici di meirto - ha proseguito ad orchestrare quelle che credeva le iniziative necessarie per uscire dalla società senza pregiudizio per sé. Ancora, la Corte d'Appello ha rilevato la mancanza di elementi da cui poter desumere che l'imputato venisse ostacolato dal C. nell'interessamento alla società. E' stato dunque escluso dai giudici di merito, con tipico accertamento in fatto, che l'imputato fosse completamente privo di poteri di ingerenza negli affari societari concludendosi nel senso che la carica ricoperta implicava l'assunzione di obblighi tra cui quello di presentazione della dichiarazione annuale. Solo per completezza, va aggiunto che - contrariamente a quanto affermato in ricorso - i giudici di merito si sono fatti carico dell'esame dell'intercettazione telefonica rilevando che dalla conversazione traspariva l'esistenza di accordi tra l'imputato e il C. in ordine alla costituzione della società nonché la partecipazione di quest'ultimo alle vicende della stessa a cui il D. non poteva ritenersi estraneo cfr. in particolare pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata, nella parte in cui riporta - condividendole - le argomentazioni del primo giudice tecnica motivazionale senz'altro consentita, trattandosi di sentenze che concordano nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni cfr. Sez. 3, Sentenza n. 44418 del 16/07/2013 Ud. dep. 04/11/2013 Rv. 257595 Sez. 1, Sentenza n. 8868 del 26/06/2000 Ud. dep. 08/08/2000 Rv. 216906 . In conclusione, il ricorso, che tende in sostanza ad una non consentita rivisitazione dei materiale probatorio, deve essere dichiarato inammissibile. Non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost. sentenza 13.6.2000 n. 186 , alla condanna dei ricorrente al pagamento delle spese dei procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 616 cpp nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €. 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.