La vendetta dell’ex associato: sottrae dati ed atti dall’ex studio professionale. La proprietà è comune, si tratta di furto

E non del più blando reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 392 c.p Un fascicolo che raccoglie dati o atti alla cui formazione hanno contribuito gli associati ed il cui mandato è stato acquisito dall’associazione professionale, costituisce insieme complesso ed articolato, cui va negato il diritto di ogni professionista alla sottrazione, per lo più clandestina, come nel caso.

Così ha stabilito la Cassazione, Quinta Sezione Penale, nella sentenza n. 32383/15, depositata il 23 luglio. Il fatto . Il professionista decide in malo modo di recedere da un’associazione professionale. Senza preavviso e prima della definizione dei rapporti pendenti in sede arbitrale, sottrae al database di studio una miriade di dati e formulari asseritamente riconducibili all’attività personalmente espletata nonché una mole di documentazione in verità ricomprensiva di materiale estraneo alla sua esclusiva opera professionale. La Corte d’appello lo condanna – in riforma della sentenza di primo grado che ne aveva accertata la responsabilità per furto ex art. 624 c.p. - per l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 392 c.p. – reato più blandamente punito - e lo assolve per l’ipotesi di frode informatica ex art. 640 ter c.p. Ricorrono sia il Procuratore Generale che l’imputato. Il primo contesta, in particolare, quanto riformato dal giudice del gravame in punto di qualificazione giuridica del fatto, attesa la proprietà comune e dell’associazione di ogni bene o atto che l’imputato aveva invece attribuito alla propria, personale ed esclusiva conoscenza e consultazione. Si tratta di furto e non di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. C’è il profitto Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 392 c.p. non richiede che l’agente abbia acquisito od abbia voluto acquisire un profitto. Il reato tutela l’ordinamento giudiziario ed il monopolio statale per la composizione delle controversie su diritti. L’acquisizione di un profitto – da identificare nell’esclusivo possesso di beni e di dati la cui titolarità era ancora in capo agli ex associati, poi di fatto divenuti concorrenti – consente di esulare dal reticolato normativo cit. per cadere sotto altre previsioni. In caso di sottrazione di beni si tratta di furto ex art. 624 c.p e la proprietà è comune. Va infatti precisato che il fascicolo che raccoglie dati o atti alla cui formazione hanno contribuito gli associati – per le distinte competenze in capo ad ognuno – ed il cui mandato è stato acquisito dall’associazione professionale, costituisce insieme complesso ed articolato, cui va negato il diritto di ogni professionista alla sottrazione, per lo più clandestina, come nel caso. La proprietà del fascicolo era comune, sebbene il professionista agente di reato avesse cercato di estrapolare solo gli atti da questi formati. Siccome proprietà comune – dunque non esclusiva dell’agente di reato -, qualsiasi sottrazione integrale o parziale del fascicolo costituisce furto, in compresenza di un profitto. Costituisce profitto” anche il profitto negativo” dei concorrenti . La Cassazione estende le maglie del profitto. Non è tale solo quello diretto, acquisito per l’immediata maturazione in capo all’agente di qualsivoglia utilità. Costituisce profitto anche il vulnus recato allo strumentario funzionale al guadagno dei concorrenti, ex associati, nel cui medesimo mercato l’agente di reato operava. Di fatto, sottraendo parte dei fascicoli cartacei e dei dati contenuti nel database, non solo l’agente aveva impedito, per l’avvenire, che gli altri professionisti potessero accedere a fascicoli completi ed integrali, in cui ogni parte sarebbe stata liberamente consultabile. L’agente di reato aveva pure sottratto la possibilità di accedere ai moduli informatici funzionali alla formazione di atti professionali – determinando, di seguito, un rallentamento del lavoro degli altri professionisti, che avrebbero dovuto formulare daccapo gli schemi di atti o di documentazione -. Manomettere un altrui sistema informatico per rallentare” l’altrui utilizzo, costituisce frode informatica ex art. 640 ter c.p La Cassazione si rifà all’orientamento ormai prevalente. Ogni manomissione od utilizzo del sistema informatico, compresa la mera violazione procedurale delle regole che ne governano l’utilizzo – v. uso delle altrui password, ad esempio -, oltre le direttive e le prescrizioni del titolare all’utilizzo ed alla sicurezza dei sistemi informatici – che di certo non consentivano la cancellazione dei dati -, costituisce frode informatica ex art. 640 ter c.p., non necessitando l’oggettiva alterazione dei programmi software contenuti nei terminali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 19 febbraio – 23 luglio 2015, n. 32383 Presidente Fumo – Relatore Micheli Ritenuto in fatto 1. Il 15/05/2014, la Corte di appello di Torino riformava la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in data 01/12/2011 nei confronti di C.P. , assolto in primo grado dai reati di frode informatica, furto e appropriazione indebita, in ipotesi commessi in danno di A.B. e M.A. avvocati e colleghi di studio dell'imputato . Secondo l'ipotesi accusatoria, il C. sarebbe intervenuto sulla banca dati dello studio A. -C. -M. , già associazione professionale, rimuovendo i dati concernenti una serie di clienti dell'associazione medesima, dopo avere comunicato ai colleghi la propria volontà di recedere inoltre, egli avrebbe materialmente sottratto una gran mole di fascicoli, per parte dei quali si era procurato le liberatorie solo in data successiva rispetto a quella in cui egli era stato convocato per l'accettazione eventuale della proposta di definizione dei rapporti con gli altri associati formulata da un arbitratore, che era stato nominato come da previsioni statutarie . A seguito di impugnazioni proposte dal P.M. e dalle parti civili, la Corte territoriale riqualificava tutte le condotte contestate ai sensi degli artt. 81, 61 n. 11 e 392 cod. pen., dichiarando la penale responsabilità del C La ricostruzione dei fatti, come operata dalla Corte torinese, era la seguente - il C. , comunicata la propria intenzione di recedere dall'associazione, aveva rappresentato che non sarebbe rimasto oltre la data del 30/01/2007, non rispettando l'obbligo di dare un preavviso non inferiore a quattro mesi - il 29/01/2007 era stato fissato un incontro per valutare la proposta conciliativa dell'arbitratore, ma nella notte tra venerdì 26 e sabato 27 l'imputato si era recato presso lo studio di cui aveva trattenuto le chiavi , asportando oltre 800 pratiche, nonché l'agenda utilizzata per gli impegni di tutti gli associati - nella stessa occasione, il C. aveva anche effettuato una copia, cancellando contestualmente gli originali, di oltre 10.000 documenti contenuti nel server dello studio, afferenti non solo l'attività professionale propria e degli altri avvocati, ma anche materiale strettamente personale di colleghi e collaboratori modulistica di uso comune, fatture, lettere private, fotografie, ed altro , come pure tutte le proposte di parcella emesse dall'associazione fino a tutto il 2006 - solo la mattina del 29 l'imputato aveva inviato un fax in cui dava atto dell'asportazione dei fascicoli, in seguito rappresentando che non intendeva restituirli, né accettare la proposta di conciliazione le modalità della cancellazione dei files, come accertate a seguito di consulenza tecnica, avevano fatto emergere l'impossibilità che si trattasse di evento accidentale, mentre tutto il materiale de quo era stato poi rinvenuto e sequestrato su un personal computer nella disponibilità del C Tanto premesso, riteneva la Corte di appello che nei fatti come appena descritti non fossero ravvisabili i reati inizialmente contestati a carico dell'imputato, per difetto della consapevolezza da parte di quest'ultimo di agire con l'intento di trarre un illecito profitto”. Ad avviso dei giudici di secondo grado, assumeva peculiare rilievo la circostanza che dei dati informatici cancellati dal prevenuto dovevano esistere altre copie era stato accertato su base testimoniale che ogni associato disponeva di un cd-rom contenente la copia della cartella del computer principale nel contempo, dei 10.000 files in questione soltanto 1.000 non erano di pertinenza del C. , ed operarne una selezione sarebbe stato assai impegnativo. Perciò, egli aveva agito per avere il possesso di quanto riteneva di suo esclusivo interesse, piuttosto che mirando a danneggiare gli altri associati. In ordine al furto dei fascicoli, il C. doveva considerarsi il legale dei soggetti che avevano a lui come tale, non già come professionista inserito in un dato studio e/o in un'associazione conferito la presupposta delega egli era perciò l'unico soggetto abilitato ad avanzare richieste di copie o ad accedere presso la Cancelleria in forza di quel mandato. L'imputato, in virtù di quelle deleghe, manteneva la titolarità dei fascicoli e dei relativi dati, fermo restando il dovere civilistico di esibizione degli atti verso l'associazione per la relativa contabilizzazione, nella prospettiva della divisione degli utili secondo i patti intercorsi con i colleghi il rilievo, peraltro, doveva valere anche per i casi in cui i clienti avevano rilasciato liberatorie tardive, espressive comunque della volontà di affidare al solo imputato la tutela delle loro ragioni. Era invece ravvisabile, secondo la Corte territoriale, il diverso delitto di cui all'art. 392 cod. pen A riguardo, i giudici torinesi segnalavano sul piano dell'elemento materiale che la violenza sottesa al delitto di ragion fattasi può consistere anche nell'alterazione di un programma informatico, ovvero nell'impedimento arrecato alla funzionalità di un sistema informatico o telematico aggiungevano quindi che anche nel caso di sottrazione del materiale cartaceo [ .] si può ritenere, alla stregua delle osservazioni svolte, che l'imputato abbia agito con la convinzione di esercitare il proprio diritto del loro prelievo”. 2. Avverso la decisione di secondo grado propone ricorso il Procuratore generale presso la stessa Corte di appello di Torino, lamentando violazione degli artt. 392, 640-ter, 624 e 646 cod. pen., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza impugnata. Secondo il Pubblico Ministero, nella fattispecie concreta sarebbe configurabile il furto inizialmente ipotizzato, avendo la Corte territoriale travisato l'oggetto del profitto illecito perseguito dal C. questo non avrebbe dovuto individuarsi nella volontà dell'imputato di impossessarsi dei fascicoli dei suoi clienti, piuttosto che di quelli dell'associazione professionale, giacché l'illecito profitto che l'imputato mirava a conseguire - e le modalità d'azione del C. dimostrano la piena consapevolezza del carattere illecito di tale profitto - va ravvisato invece nella volontà assolutamente palese di rendere di fatto impossibile all'associazione la corretta quantificazione dei propri crediti e quindi nel riservare a sé medesimo - ed a sé solo - la possibilità di ricevere dai clienti crediti spettanti all'associazione per l'attività svolta non da lui personalmente, ma da lui stesso quale legale inserito in un'associazione professionale associazione che era il soggetto giuridico che si faceva carico di fornire struttura, personale e copertura costi ”. Il P.M. ricorrente analizza quindi la struttura della fattispecie criminosa disegnata dall'art. 392 cod. pen., anche alla luce dell'interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, facendo osservare che nel caso in esame l'imputato aveva certamente coscienza dell'ingiustizia della pretesa in ipotesi fatta valere. Quanto all'esclusione del delitto di cui all'art. 640-ter dello stesso codice, la Corte di appello segnala che dei dati in ipotesi cancellati sarebbe rimasta comunque una copia elemento, ad avviso del P.g. territoriale, che non può ritenersi dimostrato e che rimane in ogni caso irrilevante, dal momento che la norma incriminatrice non richiede la irrecuperabile eliminazione del dato informatico, bensì che questo sia oggetto soltanto di un intervento illegittimo. Inoltre, era evidente il danno che il soggetto attivo cagionava asportando modelli di atti e ricerche, costituenti il vero e proprio avviamento di una associazione professionale scrive il ricorrente che l'Avv. C. aveva dunque diritto di copiare quei dati, così da poterne usufruire anche nella sua nuova ed autonoma attività, ma non certo di cancellarli privando i propri colleghi di quel know how, di quel patrimonio che essi stessi avevano contribuito, negli anni, a formare”. Fra l'altro, l'imputato ebbe a cancellare tutte le proposte di parcella emesse dall'associazione fino al 31/12/2006, al fine palese di non consentire una ricostruzione dei crediti dell'associazione mentre, se avesse inteso agire a tutela dei clienti, anche per fini di riservatezza, avrebbe dovuto farne una copia senza cancellare alcunché . Il Pubblico Ministero pone quindi l'accento sulle modalità della condotta del C. , visto che la cancellazione de qua avvenuta non a caso di venerdì notte aveva riguardato anche materiale certamente di pertinenza di altri associati o collaboratori. Quanto al furto, la circostanza che quattro dei fascicoli asportati riguardavano clienti che a quella data non avevano rilasciato all'Avv. C. alcuna nomina in via esclusiva, e che sottoscrissero una liberatoria in tal senso solo successivamente, era stata parimenti male interpretata dalla Corte torinese quella sopravvenienza non poteva avere valore di mera ratifica, stante la natura istantanea del delitto di cui all'art. 624 cod. pen. ed il rilievo che per la sua consumazione deve aversi riguardo alla titolarità della res al momento della sua apprensione”. In ogni caso, secondo la ricostruzione offerta dal P.g. torinese, anche nei casi nei quali le liberatorie erano state tempestive, va considerato che soltanto alcuni atti contenuti all'interno del fascicolo possono dirsi di pertinenza esclusiva del cliente, mentre il fascicolo nel suo complesso appartiene al difensore od all'associazione professionale di cui egli faccia eventualmente parte”. Né risulta che gli altri associati avessero mai negato al C. la disponibilità di atti processuali relativi a clienti che avevano ritenuto di confermare solo a lui l'incarico professionale al contrario, fu lui a rifiutarsi di restituire fascicoli, agende ed archivio informatico nonostante le espresse diffide che ebbe a ricevere, così venendo a realizzare l'ulteriore delitto di appropriazione indebita in ordine al quale, in punto di elemento soggettivo, osserva il P.g. che non si vede per quale ragione l'imputato abbia dovuto attendere un venerdì notte per sottrarre atti che riteneva di dover portare legittimamente con sé” . 3. Propone altresì ricorso il difensore del C., deducendo cinque motivi. 3.1 Con il primo, la difesa dell'imputato lamenta inosservanza ed erronea applicazione di legge processuale, con riferimento agli artt. 178 e 597 del codice di rito, per avere la Corte di appello diversamente definito sul piano giuridico i fatti contestati, senza che la differente qualificazione potesse intendersi rientrare nella cognizione dei giudici di secondo grado in difetto di devoluzione, sul punto, da parte del P.M. appellante . La tesi difensiva è che il mutamento del nomen iuris non può essere operato dal giudice di appello ex officio, ma soltanto in quanto espressamente sollecitato nell'atto di impugnazione” la violazione del principio appena ricordato avrebbe comportato un evidente pregiudizio dei diritti della difesa, atteso che il mutamento di qualificazione giuridica risulta avere chiaramente inciso anche sul fatto nelle sue componenti naturalistiche, come reso evidente dalla frettolosa riconduzione delle tre condotte materiali, originariamente contestate come differenti reati contro il patrimonio, ad un'unica ipotesi di delitto contro l'amministrazione della giustizia”. 3.2 Con il secondo motivo, il difensore del C. censura la sentenza impugnata sotto un ulteriore profilo di presunta violazione di legge processuale, relativamente agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. nel caso in esame, per le ragioni segnalate al punto precedente, deve ritenersi sia intervenuta una condanna per un fatto diverso da quello ritenuto dal Tribunale. Anche sotto il profilo formale in esame si lamenta quindi l'avvenuta violazione dei diritti della difesa, rilevante ex artt. 111 Cost. e 6 Cedu, giacché nell'interesse dell'imputato si era fatto sempre doveroso ed esclusivo riferimento, financo in una memoria formalmente depositata, alla linea sostenuta dal P.M. nei motivi di impugnazione senza contare che un'eventuale qualificazione ab initio dei reati in rubrica ai sensi dell'art. 392 cod. pen. reato comunque procedibile a querela avrebbe ben potuto determinare il C. a diverse opzioni difensive. 3.3 Un terzo aspetto di violazione di legge, ancora in rito, riguarda gli artt. 178, lett. c , e 533 cod. proc. pen. il difensore dell'imputato richiama la giurisprudenza di legittimità secondo cui non è sufficiente, in caso di riforma di una decisione assolutoria, prospettare una ricostruzione ritenuta soltanto di maggiore plausibilità, bensì indicare - all'esito di una confutazione completa degli elementi evidenziati dal giudice di primo grado - argomentazioni dotate di una forza persuasiva superiore tale da far cadere ogni ragionevole dubbio”. Nel caso di specie, invece, vi sarebbe stata una mera rivisitazione in diritto, in senso peggiorativo, delle risultanze probatorie”. 3.4 Con il quarto motivo di ricorso, si deduce mancanza e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata in punto di ritenuta sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La Corte non avrebbe infatti indicato quale sarebbe stato il diritto che l'imputato, dopo il recesso dall'associazione professionale, avrebbe potuto azionare al più, secondo previsione statutaria era stabilita la possibilità di ricorrere ad una procedura arbitrale, del resto già esperita al momento dei fatti de quibus. Inoltre, sarebbe contraddittorio ritenere arbitrarie le condotte poste in essere dal C. su fascicoli cartacei ed informatici, quando la stessa Corte territoriale conviene con il Tribunale nel ritenere che quei beni fossero di proprietà esclusiva dei clienti, e non già dell'associazione professionale manca poi il necessario requisito della violenza sulle cose, perché la sottrazione dei fascicoli cartacei avvenne senza alcuna modalità di tal fatta, e non vi fu modifica od alterazione di programmi informatici - come erroneamente ritenuto dai giudici di appello - bensì un'attività che ebbe ad oggetto semplici files, dei quali il C. aveva detenzione qualificata in virtù della delega ricevuta dai clienti. Infine, laddove la Corte torinese sostiene che l'imputato agì con la convinzione di esercitare il proprio diritto al prelievo” dei fascicoli, viene sostanzialmente ad affermare che sussisteva quanto meno una scriminante putativa, incompatibile con il dolo richiesto dal reato ipotizzato. 3.5 L'ultimo motivo è dedicato alla mancanza di motivazione sulla concessione del beneficio della sospensione condizionale, che l'imputato non aveva comunque richiesto neppure in via subordinata e che nel caso di specie si risolve in un pregiudizio, riguardando una pena pecuniaria. 4. Con atto depositato il 14/01/2015, il difensore della parte civile Avv. Brunella Arri quale presidente dell'associazione professionale sopra ricordata ha fatto pervenire note di udienza in replica al ricorso depositato nell'interesse dell'imputato, segnatamente in ordine alle questioni dedotte in rito. Considerato in diritto 1. Il ricorso del Pubblico Ministero deve intendersi fondato. In punto di distinzione concettuale tra le ipotesi criminose di cui si discute nel caso in esame, la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare che non integra il delitto di furto art. 624 cod. pen. , ma quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose art. 392 cod. pen. , l'appropriazione della cosa mobile altrui [ .] finalizzata esclusivamente alla tutela del possesso e in assenza del fine di profitto” Cass., Sez. V, n. 4975 del 13/12/2006, Gobetti, Rv 236316 . La fattispecie concreta relativa alla pronuncia appena richiamata riguardava la rimozione di cartelli posti da altri in un'area di pertinenza del soggetto attivo quest'ultimo, secondo le risultanze processuali, intendeva soltanto eliminare i cartelli che reputava essere stati abusivamente esposti, escludendosi invece un fine di profitto, che avrebbe presupposto un proposito di utilizzo da parte dell'imputato. Mutuando gli stessi principi nella disamina della vicenda oggi sub judice, è invece di palese evidenza che il C. non soltanto agì nella chiara consapevolezza della altruità dei beni sottratti, almeno in larga parte, ma fu al contempo mosso da un chiaro fine di profitto, vuoi intendendo utilizzare i beni de quibus vuoi soprattutto mirando ad impedire che altri ne disponessero, come sarebbe stato nelle loro legittime facoltà. Anche al di là del dato logico che la materiale apprensione dei fascicoli e dei dati informatici avvenne con modalità sostanzialmente clandestine, e tali da ritardare il più possibile la scoperta dei fatti precludendo alle persone offese, al contempo, di porvi efficacemente rimedio , è infatti necessario distinguere lo specifico atto curato da un professionista su incarico del cliente, rispetto al carteggio - nella sua organicità ed interezza - in cui l'atto medesimo risulti inserito. Del primo, pure nel caso in cui vi sia già stata remunerazione dell'attività, il professionista può certamente trattenere copia perché frutto di opera dell'ingegno, e suscettibile di riutilizzazione per redigere altri atti o per soli fini di studio non così del fascicolo, giacché - come correttamente osservato dal P.M. ricorrente, rifacendosi a schemi tipici delle associazioni professionali anche tra medici, ingegneri o quant'altro – la titolarità del fondo comune, e quindi dei beni che ne fanno parte, è [ .] dell'associazione quale soggetto di diritto e non dei singoli associati, con la conseguenza che il fascicolo sottratto è di proprietà dell'associazione professionale, quanto meno con riferimento a tutti quei documenti frutto del lavoro e delle spese degli associati”. Sul piano dell'elemento materiale del reato non ha dunque pregio la distinzione, nell'ambito dei fascicoli concretamente sottratti dal C. , tra i casi in cui vi erano state o meno liberatorie tempestive da parte dei clienti il rilievo che egli ottenne in alcuni casi le liberatorie in questione anche molto tempo dopo i fatti, pur risultandovi date antecedenti a quelle delle sottoscrizioni effettive, dimostra piuttosto la sua piena consapevolezza dell'illiceità del comportamento adottato. Analogamente è a dirsi quanto ai files sottratti dal server dello studio, tra i quali appare di valenza dimostrativa dirimente in chiave accusatoria l'avere copiato e cancellato la totalità delle proposte di parcella fino a meno di un mese prima mentre la scelta di apprendere, in quell'unica soluzione, financo documenti di stretta pertinenza personale di altri soggetti fu evidentemente dettata dall'esigenza di impossessarsi in fretta e furia della maggior quantità possibile di dati. Risulta illogica, pertanto, l'osservazione della Corte territoriale secondo cui, su circa 10.000 documenti sottratti, soltanto 1.000 o giù di lì fossero certamente estranei al C Soprattutto, non è chi non veda come la modulistica, quand'anche l'imputato fosse stato convinto che questa derivasse da un suo lavoro preponderante rispetto a quello degli ex colleghi di studio, costituisse il frutto di ricerche ed applicazioni strumentali all'esercizio dell'attività professionale di tutti gli associati ricerche che egli aveva comunque compiuto in quanto inserito nell'associazione od aveva consentito che i risultati di quegli studi, ove risalenti a data anteriore, confluissero nell'associazione che aveva concorso a costituire, accettandone la disciplina giuridica ai sensi della legge 23/11/1939 n. 1815, e succ. modif., in specie ai sensi della c.d. legge Bersani , n. 266 del 1997 . In vero, uno studio associato si pone all'esterno come un unico centro di imputazione di interessi, in quanto il contratto d'opera intellettuale presenta, quali parti, da un lato il cliente e dall'altro i professionisti riuniti nell'associazione e non è un caso che l'art. 5 del TUIR d.P.R. n. 917 del 1986 preveda espressamente l'ipotesi di redditi prodotti in forma associata , considerando unitariamente l'associazione tra professionisti come soggetto passivo ai fini dell'accertamento del reddito. Ciò esclude in radice la possibilità che il C. ebbe ad agire nella convinzione di esercitare diritti che riteneva gli spettassero, e per i quali gli sarebbe stato possibile agire in giudizio al contrario, la sua condotta fu animata dall'intenzione di impedire agli altri associati, prima ancora di una tutela giurisdizionale, un effettivo controllo sulle reciproche spettanze. Quanto infine alla sussistenza del delitto di cui all'art. 640-ter cod. pen., la circostanza che non venne realizzata una effettiva alterazione dei programmi inseriti nel server non vale ad escludere la configurabilità della frode informatica, che ricorre già in presenza di un intervento sul sistema con modalità tali da alterarne il funzionamento rispetto a quanto possibile sino al momento della condotta v. Cass., Sez. II, n. 6958 del 25/01/2011, Giambertone . 2. Per converso, non può trovare accoglimento il ricorso del C. le ragioni esposte in punto di non configurabilità del delitto di ragion fattasi dovendosi ritenere ravvisabili i delitti contro il patrimonio originariamente contestati impongono una valutazione di non fondatezza del quarto motivo, risultando invece assorbite le questioni afferenti i lamentati vizi processuali e la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. 3. Si impongono pertanto le determinazioni di cui al dispositivo. Il rigetto del ricorso dell'imputato comporta la condanna del C. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, mentre dovrà essere rimesso al definitivo il governo delle spese fra le parti private. P.Q.M. In accoglimento del ricorso del P.g., annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Torino. Rigetta il ricorso dell'imputato, che condanna alle spese del procedimento.