Qual è la competenza del giudice civile in materia di risarcimento per le condizioni di detenzione?

La ricognizione dello stato attuale della pertinente normativa deve far escludere che alla Magistratura di Sorveglianza sia attribuita la competenza a pronunciare su domande di carattere risarcitorio pur derivanti da pretese violazioni di diritti soggettivi di detenuti, anche se connessi allo stesso stato di detenzione.

La sentenza n. 20488/15 della Corte di Cassazione, depositata il 18 maggio, si occupa di un tema di scottante attualità, che tutt'ora espone il nostro Paese al rischio di nuove condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Più in dettaglio, definisce i criteri di competenza che regolano l'azione con la quale accedere al rimedio compensativo, concesso al detenuto per ristorare il danno causatogli da condizioni di restrizione degradanti. Gli Ermellini colgono l'occasione per riepilogare lo stato dell'arte della materia, arrivando a considerazioni prospettiche circa la necessità di una riforma organica dell'odierno sistema di tutela. Il caso. Il giudizio a quo riguarda un detenuto presso il carcere di Tolmezzo che, ritenendo d'aver espiato la pena in violazione dei limiti codificati dalla Corte di Strasburgo – spazio minimo di fruibilità pari a 3 metri quadri, ex art. 3 della Convenzione – richiedeva al Magistrato di Sorveglianza, mediante reclamo ai sensi dell'art. 35 O.P., che il Ministero della Giustizia fosse condannato al risarcimento del danno subito, perlomeno con l'erogazione di un equo indennizzo. Il Magistrato adito, tuttavia, dichiarava con ordinanza l'inammissibilità del reclamo proposto, con il quale si domandava una tutela di esclusiva competenza della giurisdizione civile. Soggiungeva nel merito, poi che nel carcere in argomento la dimensione delle stanze era pari a 10 metri quadri effettivi che le celle ospitavano, abitualmente, solo due detenuti solo eccezionalmente è capitato che ve ne fosse un terzo , con un conseguente spazio vitale” pari a 5 metri quadri che, in ogni caso, erano assicurate all'interno dell'istituto tutte le attività trattamentali materialmente esperibili. Il detenuto, per il tramite del proprio difensore, ricorreva quindi per cassazione, denunciando violazione di legge penale ed asseriti vizi dell'impianto motivazionale e ribadendo l'illegittimità delle condizioni detentive presenti nell'istituto, tanto con riferimento alla dimensione della cella che lo ospitava, quanto con riguardo al numero di detenuti che vivevano e, più in generale, all'effettivo trattamento ricevuto dai ristretti. La Corte – su parere difforme del Procuratore generale, che aveva chiesto il rigetto del ricorso – dichiara inammissibile l'impugnazione, con conseguente condanna alla spese del ricorrente. In ragione della novità dell'istituto coinvolto e dell'oggettiva incertezza interpretativa della fattispecie, tuttavia, ritiene priva di colpa [] la proposizione del gravame , escludendo così l'ulteriore condanna in favore della Cassa per le ammende. La motivazione, dopo aver risolto la preliminare questione di competenza, s'addentra in una articolata ricostruzione della disciplina applicabile e dei limiti operativi che sconta la legislazione emergenziale” formulata in seguito alle numerose condanne riportate dallo Stato in sede europea. L'Estensore, su questo piano, si muove in un delicato equilibrio tra la conferma dell'esegesi resa dal giudice di merito – impeccabile da un punto di vista dogmatico – e la pragmatica difficoltà di ricavare dall'ordinamento ora vigente un rimedio davvero efficace per tali lesioni. La competenza a conoscere della domanda risarcitoria. Il Collegio, in primis, statuisce la competenza del giudice civile, escludendo l'operatività dello strumento adoperato dal deducente ed elencando, poi, gli argomenti a sostegno dell'interpretazione delineata. Più in specie il combinato disposto delle norme applicabili, dalle quali si desume la funzione preventiva – eliminare le violazioni – della giurisdizione di sorveglianza, che dunque non può garantire anche di una tutela ex post per ciò che accade negli istituti la forma con la quale proporre il reclamo, certamente distante dalle ritualità previste per l'avvio di un'azione civile a contenuto risarcitorio a contrario, peraltro, si determinerebbe una sorta di tribunale specializzato del detenuto , che sottrarrebbe quest'ultimo al giudice naturale precostituito per legge i limiti intrinseci legati alla sede penitenziaria che, per ragioni di rapidità, impedisce l'integrazione di un effettivo contraddittorio anche lontanamente paragonabile a quello offerto in sede civile per questioni analoghe. Gli obblighi imposti dalla CEDU. La Suprema Corte, inoltre, rassicura circa l'assenza di contrasti tra il quadro descritto ed i principi sanciti dalla Corte EDU citando leading cases come Sulejmanovic v. Italia e Torreggiani ed altri v. Italia . Ed invero, con le condanne, si vincolava lo Stato italiano, per un verso, ad un più ampio ricorso a misure alternative alla detenzione, rafforzando le strutture coinvolte e, per l'altro, alla predisposizione di un complesso di norme tale da assicurare una tempestiva eliminazione delle violazioni – erogata, questa sì, dal Magistrato di Sorveglianza – garantendo un rimedio compensativo a chi abbia patito violazioni dei diritti fondamentali. Formalmente, quindi, tali obblighi sono stati assolti, benché gli stessi Giudici siano consapevoli delle lacune reali cui l'ordinamento va incontro. La tenuta complessiva del sistema. La Cassazione decreta, infatti, l'indiscutibile insufficienza del sistema allo stato della normativa vigente . La decisione è lapidaria nel criticare sia lo strumento penitenziario – la cui reale effettività è limitata dalla incapacità delle strutture di far fronte al sovraffollamento delle carceri – sia la tutela civilistica – poiché la ben nota lunghezza della via dell'azione risarcitoria in sede civile ha condotto la CEDU ad impartire all'Italia la disposizione di predisporre rimedi appropriati, pronti ed effettivi, e cioè di modificare i ricorsi esistenti o crearne di nuovi – astenendosi, per non invadere il campo dal legislatore, dal proporre soluzioni al problema. Conclusioni. La pronuncia in commento si connota per l'organicità espositiva nel ricostruire un punto dolente dell'attuale sistema di esecuzione della pena. Parte da presupposti teorici inconfutabili giungendo a conclusioni condivisibili, con il non comune pregio aggiuntivo di guardare oltre il formalismo giuridico, prendendo atto di una situazione non più sostenibile. C'è da sperare che il Parlamento si mostri altrettanto lungimirante nel riformare la materia, troppo spesso accantonata a favore di temi che incontrano – sia consentito dirlo – maggior consenso elettorale.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 26 marzo – 18 maggio 2015, n. 20488 Presidente Giordano – Relatore Bonito Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza in data 31 marzo 2014 il Magistrato di Sorveglianza di Udine dichiarava inammissibile il reclamo proposto ai sensi dell'art. 35 O.P. dal detenuto M.L. il quale, deducendo che durante la carcerazione da lui sofferta erano stati lesi suoi diritti soggettivi, in particolare per la restrizione con altri detenuti in spazi assai angusti, inferiori ai limiti minimi esigibili come previsto anche dalla normativa convenzionale art. 3 della CEDU , richiedeva che, previa istruttoria volta ad accertare tali lesioni, il Ministero della Giustizia fosse condannato al risarcimento del danno, o ad equo indennizzo, in suo favore. Deduceva a sostegno detto Giudice che l'istanza risarcitoria avanzata dal detenuto, per la sua natura giuridica, integrava una tutela ricompresa nella giurisdizione del giudice civile. 2. Argomentava comunque il magistrato adito anche nel merito della richiesta detta, evidenziando che nel carcere di Tolmezzo le celle, al netto dello spazio occupato dai servizi igienici, è pari a mq. 10, che in ognuna di esse vengono ospitati due detenuti e che, pertanto, lo spazio a disposizione è di mq. cinque per ognuno dei due occupanti, ben superiore al minimo di fruibilità indicato dalla CEDU, pari a mq. 3. Deduceva altresì il magistrato che si era reso necessario a volte ospitare in alcune celle anche un terzo detenuto, ma questa evenienza non era più attuale per i provvedimenti adottati dall'amministrazione, che in ogni caso ogni detenuto trascorreva un terzo della giornata fuori dalla sua cella e che nell'istituto, infine, erano poi assicurati iniziative trattamentali, ricreative e sportive. 3. Avverso tale ordinanza propone ricorso per cassazione il M. , che motiva l'impugnazione, con atto del suo difensore, deducendo violazione di legge e vizio della motivazione, in particolare negando la legittimità delle condizioni detentive imposte al detenuto ricorrente, sia in riferimento alle dimensioni della cella, sia al numero dei detenuti abitualmente ristretti in ognuna di esse, sia in relazione ad ogni altro profilo organizzativo della giornata tipo del detenuto. Considerato in diritto 1. Il ricorso non può essere accolto per le ragioni che seguono. Il tema precipuo investito dall'impugnazione attiene alla controversa sussistenza in capo al Magistrato di Sorveglianza della competenza a conoscere della domanda, di natura risarcitoria, relativa alla lesione di diritti soggettivi dedotta da parte di detenuti, nella fattispecie diritti inviolabili della persona costituzionalmente e convenzionalmente garantiti, competenza negata dall'ordinanza impugnata. Tale giudizio, corretto in base alla normativa vigente, deve essere qui convalidato. Punto necessario e prioritario da cui muovere è che in materia risarcitoria ed indennitaria il sistema normativo prevede in via generale la sua attribuzione alla giurisdizione civile. La summa divisio tra giurisdizione civile e penale è sancita invero dall'art. 1 cod. proc. civ. e dall'art. 1 cod. proc. pen. cui corrispondono le pertinenti norme del vigente Ordinamento Giudiziario. Da tale presupposto consegue che le attribuzioni al giudice penale di competenze in materia risarcitoria si pongono come eccezioni a tale generale ripartizione e, come tali, devono essere specificamente previste dalla normativa, quali si rinvengono, ad esempio, ove il giudice penale è chiamato a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria del danneggiato da un reato costituito parte civile art. 74 cod. proc pen. o su quella per ingiusta detenzione art. 314 cod. proc. pen. od anche per riparazione dell'errore giudiziario art. 643 cod. proc. pen. . È però certo che una siffatta attribuzione specifica non si riscontra nelle leggi in materia penitenziaria le quali, in via testuale, non prevedono alcuna attribuzione di competenza alla Magistratura di sorveglianza della materia risarcitoria o indennitaria pur discendente da quegli aspetti dell'ambito penitenziario, o più strettamente carcerario, che vengono attribuiti alla sua specifica competenza che è sempre legata alla giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penale . Soffermando dapprima l'esame sul dato testuale, giova annotare che quanto alle violazione dei diritti dei condannati e degli internati che possano essere rilevate nel corso del trattamento l'art. 69 ord. pen., comma 5, ultima parte, puntualmente prevede che il Magistrato di Sorveglianza impartisca disposizioni dirette ad eliminare siffatte eventuali violazioni, così all'evidenza delimitando in modo preciso il campo d'intervento, in coerenza con la generale funzione della Magistratura di sorveglianza, che è quella di vigilare sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena art. 69 ord. pen., comma 1 ai fini di una corretta esecuzione, in termini di legalità, della pena o della misura di sicurezza. È invero fuor di dubbio che le disposizioni dirette ad eliminare le rilevate violazioni hanno proiezione ripristinatoria volta al futuro e, dunque, funzione preventiva, ma non possono contenere, per insito limite concettuale, l'ambito di un ristoro risarcitorio per il passato. Nessuno può invero ragionevolmente sostenere che condannare ad un risarcimento sia compreso nel diverso concetto di eliminare le violazioni , ponendosi le due espressioni su piani diversi. Del resto la stessa clausola di chiusura di cui al cit. art. 69, u.c. secondo cui il Magistrato di sorveglianza svolge, inoltre, tutte le altre funzioni attribuitegli dalla legge , giustifica proprio la conclusione che le sue funzioni devono comunque avere un testuale e specifico riferimento normativo e non se ne rinvengono sul tema risarcitorio così già ponendo un chiaro limite a quella onnicomprensività per materia competenza funzionale esclusiva sostanzialmente predicata dal ricorrente con la sua domanda. Inoltre, sempre per restare ai dati testuali ricavabili dalla legge fondamentale dell'ordinamento penitenziario, l'art. 35, unico riferimento possibile, in concreto attivato dal ricorrente, prevede che detenuti ed internati possano rivolgere istanze o reclami, orali o scritti, anche in busta chiusa . Orbene, per quanto se ne voglia dare interpretazione dilatata, non è chi non veda come la stessa terminologia sia lontana da quella che può contrassegnare l'inizio di un'azione civile a contenuto risarcitorio, a parte l'assoluta anomalia che deriverebbe da una causa civile iniziata con istanza orale ancorché poi verbalizzata e raccolta anche dal direttore dell'istituto anche se poi trasmessa al Magistrato di Sorveglianza . Ricordiamo in proposito il disposto dell'art. 99 cod. proc. civ. Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente . Anche le azioni civili proponibili in ambito penale, ex art. 74, 314 e 643 cod. proc. pen., devono essere avanzate con domanda al giudice competente. Addirittura clamorose, poi, sono le distonie del procedimento di sorveglianza, rispetto a quello ordinario in ambito civilistico, e non facilmente adattabili si pensi solo al regime delle prove, alle impugnazioni, ecc. . Occorre dunque riconoscere che l'esame della normativa specifica consente di affermare la coerente saldatura dell'inesistenza, da un lato, di un potere di condanna di natura civilistica in capo al Magistrato di sorveglianza con l'inesistenza, dall'altro, di una facoltà di analoga richiesta in capo al detenuto o all'internato. 5. Venendo ora all'esame sistematico dell'ordinamento penale in materia penitenziaria, suggerito dal ricorso, si deve parimenti concludere che la magistratura di sorveglianza non ha competenze generali di cognizione se non quelle specifiche in ambito esecutivo resta eccezionale la disposizione di cui all'art. 680 c.p.c., comma 2, che trova ragione nella specialità della materia il Magistrato di Sorveglianza, nella sua essenza, resta un giudice che sovrintende all'esecuzione della pena dato confermato dalla stessa collocazione della figura all'interno del Libro decimo del Cod. Proc. Pen. . Non può dirsi, dunque, che l'ordinamento disegni un suo potere generale di jus dicere per qualsiasi questione afferente i diritti dei detenuti, pur collegati all'esecuzione della pena. Non c'è dubbio che un fatto costituente reato commesso in ambito carcerario, ai danni di un detenuto, anche se, per ipotesi, ad opera di un appartenente all'Amministrazione, non potrebbe essere sottratto alla normale competenza del giudice penale e di certo non potrebbe essere attribuito a quella della Magistratura di Sorveglianza in forza di un' inesistente competenza esclusiva. Né può essere dubitato che un detenuto che intenda essere risarcito per un danno che egli lamenti, ancorché subito in ambiente carcerario, non potrà essere sottratto al giudice naturale precostituito per legge per tale tipo di vertenza che è il giudice civile, competente per materia e territorio. Tanto deve valere anche ove il danno venga attribuito dal detenuto alla stessa Amministrazione penitenziaria, non essendovi ragioni di differenziazione. Non è chi non veda, dunque, che la tesi di una competenza esclusiva della Magistratura di Sorveglianza in ordine ai diritti dei detenuti prova troppo, perché trascinerebbe in tale ambito tante competenze, creando una sorta di tribunale specializzato del detenuto simile a quello per i Minorenni il che l'ordinamento di certo non ha voluto. Quanto fin qui elaborato è confermato poi dall'avvenuta eliminazione, per intervento della Corte Costituzionale, dell'art. 69 ord. Pen., comma 6, lett. a sentenza 341/2006 che, se da un lato ha rilevato l'inadeguatezza dello strumento processuale fornito dal rito di competenza penitenziaria art. 14 ter Ord. Pen. , ha evidentemente escluso, dall'altro, la configurabilità di una pretesa competenza esclusiva. Né può dirsi che gli interventi giurisprudenziali in materia, correttamente letti ed inquadrati, abbiano disegnato quella competenza esclusiva che il ricorrente ipotizza. Ed invero si è ben consolidato il principio v., per tutte, SS.UU. 25079/2003, Gianni secondo cui il reclamo al Magistrato di sorveglianza ex art. 35 Ord. Pen. può essere legittimamente attivato e sempre ai fini di ottenere dallo stesso disposizioni dirette ad eliminare le relative violazioni solo in ipotesi che la doglianza investa un diritto soggettivo ad esempio in tema di tutela della salute che il detenuto assume violato o compresso ad opera della Amministrazione, restandone fuori quelle lamentele che non raggiungono tale livello e la casistica è quanto mai ampia ad esempio la ricezione della televisione . Ciò significa una limitazione alla tutela giurisdizionale in tema di reclamo generico, restandone escluse doglianze che trovano collocazione nell'ambito amministrativo, ma non significa certo che tutti i diritti soggettivi che si pretendono violati debbano necessariamente essere convogliati alla Magistratura di sorveglianza e tutelati con gli strumenti processuali, spediti e contratti, previsti dal relativo ordinamento. Anche in base all'esame sistematico della vigente normativa, dunque, e pur alla stregua del bagaglio giurisprudenziale in materia, deve essere escluso che sussista una sorta di competenza esclusiva della Magistratura di sorveglianza in materia di tutti i diritti soggettivi dei detenuti. Non va poi sottovalutato ed anzi è argomento primario che comunque la procedura ex art. 14 ter Ord. Pen., imposta dall'art. 69, comma 6, concepita avendo a mente le necessità di speditezza insite nella materia penitenziaria, neppure prevede la comparizione dell'Amministrazione penitenziaria che, invece, in ipotesi sarebbe la parte convenuta che dovrebbe essere condannata, ammettendo solo quale ben limitata difesa la presentazione di memorie. Si produrrebbe pertanto la stessa situazione che ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 69, comma 6, lett. a , per insufficiente contraddittorio, compressione dei diritti difensivi e disparità di trattamento rispetto alle normali procedure per domande di carattere risarcitorio davanti alla giurisdizione civile. Una lettura costituzionalmente orientata impone, dunque, di evitare siffatta conseguenza che sarebbe connessa in mancanza di interventi legislativi alla tesi sostenuta dal ricorrente. In definitiva la ricognizione dello stato attuale della pertinente normativa deve far escludere che alla Magistratura di Sorveglianza sia attribuita la competenza a pronunce su domande di carattere risarcitorio pur derivanti da pretese violazioni di diritti soggettivi di detenuti anche se connessi allo stesso stato di detenzione. In definitiva ancora deve affermarsi che la Magistratura di sorveglianza non ha competenza esclusiva sui diritti dei detenuti, ma attribuzioni specifiche legate all'esecuzione penale. In materia di diritti di cui si assuma la violazione, la Magistratura di Sorveglianza ha il riconosciuto potere di impartire disposizioni all'Amministrazione con un accertamento, quindi, assolutamente incidentale ed a tale specifico fine preventivo, quello di eliminare eventuali violazioni. Risarcimento o indennità restano, nell'attuale stato della legislazione, nell'ambito della ordinaria competenza del giudice civile. Il quadro fin qui delineato non viene in contrasto, nelle sue linee generali, con i principi sanciti dalla CEDU, anche se resta l'indiscutibile insufficienza del sistema allo stato della normativa vigente. La Corte Europea, che già si era pronunciata affermando la necessità che in ambito carcerario siano rispettati i diritti fondamentali della persona, ed imponendo che la loro eventuale violazione avesse effettivo rimedio v. decisione 16.07.2009, Sulejmanovic contro Italia , ha del tutto recentemente ribadito tali principi si veda caso Torregiani ed altri contro Italia, decisione 08.01.2013 investendo sostanzialmente tre piani diversi ma tra loro funzionalmente collegati 1 un nuovo disegno delle previsioni sanzionatorie e delle modalità di esecuzione, con più ampio ricorso alle misure alternative, ed un rafforzamento delle strutture logistiche 2 un sistema che assicuri effettività alla sollecita eliminazione delle violazioni in concreto rilevate 3 un esito compensativo per chi abbia sofferto violazione dei diritti fondamentali. Il primo profilo è di spettanza costituzionale del Legislatore o di competenza del Governo. Per gli altri due il giudice nazionale, per i casi a lui sottoposti, deve procedere alla ricognizione del sistema, anche con interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. In tal senso va rilevato come, nella sopra citata ultima pronuncia della CEDU, si prenda atto che il rimedio offerto dall'ordinamento interno dato dalla legge penitenziaria con riferimento proprio al reclamo ex art. 35 Ord. Pen. è ritenuto, con quell'interpretazione che in questa sede si convalida si citano anche le ordinanze 18.04.2011 del Magistrato di sorveglianza di Vercelli e 24.12.2011 di quello di Udine, tesi maggioritaria, restando isolata la contraria opinione espressa dal giudice penitenziario di Lecce in data 09.06.2011 , avere carattere preventivo, proprio assolvendo ove ne segua effettività di esecuzione alla funzione di eliminare il protrarsi di eventuali violazioni. Si tratta di ricorso accessibile, ma la cui reale effettività è limitata dalla incapacità delle strutture di far fronte al sovraffollamento delle carceri. La stessa decisione della CEDU, però, come detto, avverte che le accertate violazioni comportano obblighi per lo Stato non solo di carattere preventivo, e cioè di eliminare le violazioni per cui è predisposto lo strumento ex art. 35 Ord. Pen. , ma anche compensativo, e cioè del ristoro per il detenuto che abbia visto riconosciuto la violazione dei suoi diritti soggettivi, prevedendo perciò la peraltro già affermata risarcibilità di tali riscontrate violazioni. Proprio la scarsa efficacia concreta del rimedio preventivo che imporrebbe reclami continui, in presenza di una sovraffollamento sistemico , e la ben nota lunghezza della via dell'azione risarcitoria in sede civile hanno condotto la CEDU ad impartire all'Italia la disposizione di predisporre rimedi appropriati, pronti ed effettivi, e cioè di modificare i ricorsi esistenti o crearne di nuovi. Non c'è dubbio, in definitiva, che non può trarsi dalla giurisprudenza della CEDU il principio che l'aspetto compensativo o risarcitorio , che pure si impone, debba essere compreso di necessità nell'ambito del ricorso alla Magistratura di sorveglianza, avendo i giudici comunitari ribadito che il profilo preventivo che ne emerge che pure può rivelarsi in concreto scarsamente efficace non è esaustivo degli obblighi per lo Stato, ma non avendo indirizzato una particolare lettura della normativa, né dato limiti ristretti allo Stato per l'adeguamento. Non è questa la sede per individuare i percorsi normativi de jure condendo per l'anzidetto sollecito adeguamento sul piano dei più efficaci rimedi preventivi e, per quel che qui interessa, compensativi anche se non mancano nel sistema istituti che possono fornire spunti di riflessione si pensi all'art. 314 Cod. Proc. Pen. , ferma restando l'imprescindibile necessità di provvedere ai profili logistici ed alle più ampie misure alternative, ma resta la conclusione che lo stato attuale della normativa esclude il profilo compensativo dall'ambito di competenza della Magistratura di sorveglianza, né un tanto può direttamente trarsi dalla giurisprudenza della CEDU. 2. Il ricorso deve perciò essere dichiarato inammissibile con la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. La notevole incertezza interpretativa della fattispecie induce poi a ritenere priva di colpa la parte ricorrente nella proposizione del gravame e ad escludere, per questo, la ulteriore condanna in favore della Cassa per le ammende. P.T.M . la Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.