Cella troppo piccola? Dipende dai casi…

In tema di trattamento dei detenuti, nel sancire il divieto della tortura, delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti, l'art. 3 Cedu non ha tipizzato le condotte integratrici della violazione del divieto e, analogamente, neppure l'art. 27, comma 2, Cost. ha stabilito alcuno specifico canone per la determinazione dei trattamenti vietati, limitandosi solo a stabilire che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Perciò, il giudice, adito dalla doglianza del detenuto di sottoposizione a trattamento inumano o degradante, per essere ristretto in ambienti carcerari di ampiezza così esigua da non soddisfare i requisiti minimi della abitabilità intramuraria fissati dalla Cedu, è chiamato ad accertare e valutare la condizione di fatto della carcerazione esclusivamente alla stregua dei canoni e degli standard giurisprudenziali, in difetto di alcuna disposizione normativa.

Lo ha ribadito la sez. I Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8570, depositata il 26 febbraio 2015. La fattispecie rilevante nella giurisprudenza della CEDU La Corte europea dei diritti dell’uomo ha avuto più volte modo di pronunciarsi circa la violazione dell'art. 3 Cedu, e dunque circa trattamenti degradanti dei detenuti nelle carceri italiane. In una delle suddette decisioni, essa ha ritenuto che, per il ricorrente, detenuto nel carcere romano di Rebibbia, avere a disposizione solo 2,70 metri quadrati aveva causato disagi e inconvenienti quotidiani, costringendolo a vivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima ritenuta auspicabile dal CPT Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti . Sebbene non sia possibile fissare in maniera certa e definitiva lo spazio personale che deve essere riconosciuto all'interno delle singole celle a ciascun detenuto ai termini della Convenzione – aveva affermato la Corte – la mancanza evidente di spazio personale costituisce violazione dell'art. 3 CEDU. In una decisione del 2013, la CEDU ha invece avuto modo di accertare il carattere strutturale e sistemico della situazione carceraria italiana, ed ha adottato una sentenza ‘pilota’, sospendendo tutti i ricorsi dei detenuti italiani aventi ad oggetto il riconoscimento di analoga violazione e concedendo allo Stato italiano un anno dal passaggio in giudicato della decisione per adottare le misure necessarie ossia istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi ed idonei ad offrire una riparazione del danno adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario. ed in quella della Corte costituzionale. La Consulta, nel 2012, ha deciso sulla legittimità dell'art. 147 c.p. nella misura in cui non prevede un rinvio della pena per le situazioni in cui l'esecuzione della pena carceraria debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità. La Corte ha dichiarato inammissibile il quesito perché il sovraffollamento non avrebbe potuto essere contrastato con il rinvio della pena ex art. 147 c.p., il quale, anche ove riuscisse ad abbattere il numero della popolazione carceraria, giungerebbe a questo risultato in modo casuale, e dunque a prezzo di una disparità intollerabile di trattamento tra i detenuti, in mancanza di un criterio idoneo a selezionare chi debba ottenere il rinvio fino al raggiungimento del numero dei reclusi compatibile con lo stato delle strutture carcerarie ma ha riconosciuto l’insopportabilità della situazione generale delle carceri e l'esigenza di predisporre, a fronte dei concreti casi di compressione di diritti, un rimedio individuale in grado di far cessare il pregiudizio e compensare il detenuto del danno patito, rilevando in proposito come gli attuali reclami fossero un rimedio non ‘effettivo’, in mancanza della possibilità di assicurare concreta esecuzione delle decisioni della magistratura di sorveglianza. In un’altra decisione, la Corte Costituzionale ha statuito che le decisioni del magistrato di sorveglianza, rese su reclami proposti da detenuti a tutela di propri diritti e secondo la procedura contenziosa di cui all'art. 14- ter o.p., devono ricevere concreta applicazione e non possono essere private di effetti pratici da provvedimenti dell'amministrazione penitenziaria o di altre autorità. Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato che non spettava al Ministro disporre che non fosse data esecuzione all'ordinanza del magistrato di sorveglianza che aveva ordinato all'amministrazione penitenziaria il ripristino della possibilità per un detenuto – sottoposto al regime di cui all'art. 41- bis o.p. – di assistere a determinati programmi televisivi. I reclami al magistrato di sorveglianza. Recentemente il d.l. n. 146/2013, recante Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria G.U. n. 300 del 23 dicembre 2013 ha innovato la materia dei reclami al magistrato di sorveglianza, sia per quanto riguarda il reclamo c.d. generico art. 35 o.p. che soprattutto per quanto concerne il reclamo giurisdizionale art. 35- bis sino ad ora privo di riconoscimento normativo ma operante nella prassi per effetto degli interventi della Corte Costituzionale cfr. C. Cost. n. 26/1999 . Tale reclamo è oggi proponibile sia contro i provvedimenti di natura disciplinare adottati dall'amministrazione penitenziaria, sia in caso di inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni penitenziarie dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei diritti . Ove sia accertata la sussistenza del pregiudizio e la sua attualità, il giudice ordina all'amministrazione penitenziaria di porre rimedio spostamento del detenuto in altra cella o trasferimento in altro istituto , con possibilità di attivare un giudizio di ottemperanza presso lo stesso magistrato, nel caso di mancata esecuzione del provvedimento . Il giudice ha il potere di nominare un commissario ad acta dichiarare nulli gli eventuali atti dell'amministrazione che si pongano in violazione o elusione del provvedimento rimasto ineseguito determinare la somma dovuta al detenuto a titolo di riparazione, con il limite massimo di 100 euro per giorno.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 29 ottobre 2014 – 26 febbraio 2015, n. 8570 Presidente Cortese – Relatore Rocchi Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 6/2/2014, il Magistrato di Sorveglianza di Venezia, all'esito della procedura prevista dall'art. 35 bis ord. pen. così come introdotto dal d.l. 146 del 2013, provvedendo sul reclamo avanzato da S.L. , rigettava l'istanza di assegnazione ad una cella avente uno spazio individuale di almeno 7 metri quadrati ma disponeva che il richiedente fosse collocato nell'attualità, ma anche nel prosieguo della detenzione, presso una stanza di pernottamento avente una superficie calpestabile media pro-capite non inferiore a 3 metri quadrati rigettava nel resto il ricorso, ritenuto infondato. Il detenuto aveva chiesto di essere assegnato ad una cella nella quale godere di uno spazio individuale di almeno 7 metri quadrati, con servizi igienici separati, e di essere autorizzato a permanere fuori dalla propria cella per almeno otto ore al giorno. Il Magistrato riteneva infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale della nuova normativa sollevata dal Ministro della Giustizia con riferimento alla questione dello spazio minimo riservato ad ogni detenuto - da interpretarsi come spazio minimo di fruibilità di una superficie collettivamente goduta, in caso di stanza di pernottamento a più posti, ovvero come spazio minimo vitale, nel caso di cella singola occupata da un solo detenuto - il Magistrato richiamava la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo secondo cui, al di sotto di una certa metratura, individuata in mq. 3, la detenzione deve essere considerata trattamento inumano e degradante. Nel caso di specie, lo spazio minimo riservato al detenuto era inferiore a 3 metri quadrati in effetti, tale spazio doveva essere calcolato al netto del mobilio presente le altre questioni sollevate dal detenuto in ordine alle caratteristiche della cella e alla possibilità di restare per alcune ore fuori da essa erano ritenute infondate. Di conseguenza, in forza dell'art. 69, comma 5 ord. pen., il Magistrato di Sorveglianza impartiva all'Amministrazione Penitenziaria l'ordine di non allocare - il reclamante in celle avente una superficie calpestabile media pro capite non inferiore a 3 metri quadrati. 2. Ricorre per cassazione il Ministro della Giustizia, deducendo violazione degli artt. 3 e 46 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, 6 ord. pen. nonché ali. C d.P.R. 138 del 1998. Il ricorrente contesta che il limite minimo di 3 mq come spazio procapite all'interno della cella debba essere conteggiato al netto della superficie occupata dal mobilio, richiamando la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo 5 marzo 2013, Tellissi contro Italia che l'aveva conteggiata al lordo, includendo sia la superficie degli arredi, sia quella del locale adibito a bagno, trattandosi di spazi comunque fruibili dal detenuto e dei quali, in assenza di apposita previsione normativa, non è possibile prescindere. La Corte Europea ha stabilito tale principio di diritto per la prima volta in maniera esplicita proprio con tale sentenza. Il ricorrente ricorda che spetta alla legislazione nazionale definire le condizioni minime e sottolinea che il citato D.P.R. 138 del 1998 fa riferimento alla superficie lorda, e non a quella netta. In un secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge in punto di omessa statuizione sulla richiesta, formulata dalla difesa erariale, di condanna alle spese di lite e degli onorari della difesa. Il Magistrato di Sorveglianza aveva ritenuto di non poter pronunciare sulla domanda, atteso che si trattava di procedimento penale camerale latu sensu riconducibile a quello di esecuzione. Secondo il ricorrente, il principio della soccombenza doveva invece essere applicato. Il reclamo era di carattere giurisdizionale e la pretesa del detenuto aveva sicuramente natura patrimoniale, non solo in considerazione della possibilità, per l'Amministrazione della Giustizia, di essere condannata - anche se in un secondo momento - al pagamento di somme di denaro, ma anche in relazione alla competenza riconosciuta al giudice di assicurare ottemperanza ai suoi provvedimenti, indicando alla parte che li deve attuare modalità e tempi di adempimento. Deve pertanto trovare applicazione la regolamentazione di cui agli artt. 90 e ss. cod. proc. civ. e, in base all'art. 158 T.U. spese di giustizia, il soccombente deve essere condannato al pagamento delle spese prenotate a debito, così come previsto quando parte è un'Amministrazione pubblica. Il ricorrente conclude per l'annullamento dell'ordinanza impugnata. 3. Il Procuratore generale, nella requisitoria scritta, conclude per la declaratoria di inammissibilità o per il rigetto del ricorso. 4. Con successiva memoria il ricorrente ha rilevato che, secondo le misure indicate nell'ordinanza mq. 23,42 + mq. 4,83 per il locale bagno il limite dei 3 mq. non risulta violato. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. Come sottolineato dal Procuratore Generale e come presupposto anche dal ricorrente, il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del Magistrato di Sorveglianza è ammesso solo per violazione di legge l'art. 236, comma 2, disp. coord. cod. proc. pen., che esclude l'applicazione del capo II bis dell'ordinamento penitenziario nelle materie di competenza del Tribunale di Sorveglianza , non reca alcun riferimento alle materie di competenza del Magistrato di sorveglianza. Di conseguenza per dette materie trova applicazione l'art. 71 ter legge 354 del 1975 che limita il ricorso per cassazione alla violazione di legge Sez. 1, n. 25468 del 05/06/2012 - dep. 28/06/2012, Slimani, Rv. 253040 che, come noto, in relazione alla motivazione, si realizza solo in caso di motivazione inesistente o meramente apparente. Ora, sul piano formale, nessuna norma stabilisce con precisione lo spazio vitale minimo al di sotto del quale sussiste un trattamento penitenziario inumano né l'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che si limita a vietare pene o trattamenti inumani o degradanti , né l'art. 27, comma 2 Cost., che stabilisce anch'esso che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità , né, infine, l'art. 6 legge 354 del 1975, in base al quale i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente e i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti una dimensione minima non è specificamente indicata nemmeno in sede regolamentare. Piuttosto esiste una elaborazione giurisprudenziale da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che ha indicato alcuni canoni e standard di riferimento, individuando, in particolare, il limite di 3 mq. quale spazio minimo vitale inderogabile pro capite v. sentenze Sulejmanovic e Torreggiani c. Italia . In questo quadro il Magistrato di Sorveglianza, al fine di verificare se la carcerazione - in base alle indicazioni della Corte EDU - possa ritenersi svolta in spazi così ristretti da violare il divieto di pene inumane e degradanti, ha diviso lo spazio complessivo della cella di mq. 23,42 ivi previamente escluso il locale bagno di mq. 4,83 per il numero di sette ristretti assegnati, ritenendo violato il limite di 3 mq. a persona, in relazione alla esclusione dal computo conforme alla indicazione di un passaggio della sentenza pilota Torreggiani dell'ingombro costituito da letto, armadio e lavabo, rendendo in tale modo una motivazione certamente non assente né apparente. Non sussiste, quindi, alcuna violazione di legge v. in senso conforme, Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014 . Manifestamente infondato è il motivo di ricorso concernente la condanna alle spese, sia per le considerazioni svolte dal Magistrato di Sorveglianza, circa la riconducibilità del procedimento camerale de quo a quello di esecuzione, sia perché, nel caso di specie, parte delle rimostranze avanzate dal detenuto erano state, in sostanza, accolte. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso.