Al connivente non spetta il risarcimento per ingiusta detenzione

L’atteggiamento di connivenza è ostativo al riconoscimento del risarcimento per ingiusta detenzione se ha oggettivamente - anche se involontariamente - rafforzato la volontà criminosa dell’agente, responsabile della commissione di un determinato reato. Ciò presuppone, però, che sia positivamente dimostrato che il connivente era a conoscenza dell’attività criminosa posta in essere dall’agente. La valutazione delle circostanze di fatto idonee ad integrare il dolo o la colpa grave, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, deve essere effettuata con giudizio ex ante, tenendo conto dell’idoneità della condotta di colui che richiede il risarcimento ad aver sinergicamente concorso all’adozione di un provvedimento detentivo.

Questi i due principi di diritto espressi dalla Quarta Sezione della Cassazione, con la sentenza di rigetto n. 3495 depositata il 26 gennaio 2015. Detenzione di stupefacenti i guai arrivano anche per il connivente che non concorre nel reato. Comincia con una classica ipotesi di detenzione a fini di spaccio la vicenda processuale che porta all’arresto di una donna, cui veniva applicata la custodia cautelare in carcere poi mutata in arresti domiciliari , condannata in primo grado e assolta in appello per non aver commesso il fatto un altro soggetto confessa e rivendica l’esclusiva detenzione della droga. A questo punto, viene chiesto il risarcimento per ingiusta detenzione. Ma la Corte di Appello competente per territorio respinge l’istanza. Giudizio penale e per l’equa riparazione stessi fatti, valutazioni autonome. L’incipit della Suprema Corte è illuminante il giudizio penale e quello per il riconoscimento della risarcimento per ingiusta detenzione si muovono su piani di indagine diversi. I fatti ed il materiale probatorio sono evidentemente gli stessi, ma le conclusioni cui si può pervenire nell’uno e nell’altro giudizio non è detto che debbano coincidere. Si può essere assolti e, al contempo, si può vedere negato il diritto ad ottenere un ristoro per la detenzione ingiustamente scontata. Non è una stranezza del sistema è proprio la diversa logica che anima i due processi valutativi a giustificare la possibilità dell’adozione di decisioni – per così dire – dissonanti. Il giudice della riparazione per ingiusta detenzione, infatti, deve rivalutare i fatti già osservati dal collega che ha deciso nel merito per stabilire se la condotta dell’imputato è stata o meno idonea a giustificare la misura detentiva traendo in inganno il giudice”, per usare le parole della Corte. Una premessa metodologica su cosa si concentra il giudizio di riparazione. La condotta dell’imputato rilevante per il giudizio di equa riparazione è quella sia antecedente, sia successiva alla perdita della libertà personale. Questo giudizio che, ricordano gli Ermellini, deve tenere conto di fatti concreti e non di supposizioni, culmina in una decisione che serve a stabilire se il comportamento dell’imputato è stato o meno il presupposto che ha tratto in errore il giudice. Quest’ultimo, infatti, può essere stato ingannato da una condotta apparentemente illecita senza, ovviamente, di fatto essere tale , che sarà considerata causa della detenzione e, a questo punto, addio risarcimento . Al giudizio sulla condotta antecedente alla detenzione deve seguire anche quello sul comportamento successivo alla restrizione della libertà personale, come insegnano le Sezioni Unite in una decisione del 2010 una condotta processualmente ambigua, indipendentemente dalle sue refluenze sulla decisione di merito, non è certamente un buon presupposto per sperare nella equa riparazione per ingiusta detenzione. La connivenza non punibile impedisce il risarcimento da detenzione ingiusta? Nel corso degli ultimi 12 anni la Cassazione si è più volte espressa sul punto e ha così stabilito una serie molto interessante di paletti, che ci possono guidare per capire – nel singolo caso concreto – se la connivenza esclude il diritto all’equa riparazione. Tre, in particolare, i casi enumerati dalla Cassazione nei quali al connivente non spetta il ristoro per la detenzione patita. Il primo è quello in cui con la connivenza si è venuti meno a quegli elementari valori di solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni a persone o cose. Analogamente, se il connivente aveva l’obbligo e la capacità di impedire il verificarsi di un reato e, invece, ne tollera la sua consumazione non ha diritto ad alcun ristoro per la detenzione subita. In ultimo, è ostativa al risarcimento la connivenza che abbia di fatto - e quindi anche involontariamente - rafforzato la volontà criminosa di colui che, successivamente, è riconosciuto responsabile di un determinato reato. Per la connivenza rafforzatrice” occorre, però, la consapevolezza del crimine. Nell’ultima ipotesi appena elencata va accertato se il connivente passivo era a conoscenza dell’attività criminosa posta in essere da altri, che giustificava” il provvedimento detentivo. La consapevolezza di una condotta illecita in atto, infatti, integra gli estremi del comportamento gravemente colposo ostativo al risarcimento per ingiusta detenzione. La ragione di questa conclusione è, fondamentalmente, una. Si rimprovera al connivente di non avere valutato gli effetti – in termini di rafforzamento della altrui volontà criminosa – prodotti dalla propria presenza inerte sulla scena del crimine. Una condotta del genere, spiegano i giudici di Piazza Cavour, può ritenersi idonea a far credere che vi sia concorso nel reato. Ed è proprio questa situazione che, nel caso oggetto della decisione in esame, ha impedito alla ricorrente di ottenere il ristoro per ingiusta detenzione.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 20 – 26 gennaio 2015, numero 3495 Presidente Romis – Relatore Serrao Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di Roma, con ordinanza del 5/12/2013, ha respinto la domanda di riparazione per ingiusta detenzione proposta da C.S. in relazione alla restrizione della libertà personale subita, nella forma della custodia in carcere, dal 21 settembre 2011 al 9 marzo 2012 e, nella forma degli arresti domiciliari, sino al 5 giugno 2012, nell'ambito di un procedimento in cui era indagata per il reato di cui agli artt. 110 cod. penumero e 73, comma 1- bis, d.P.R. 9 ottobre 1990, numero 309, per avere illecitamente detenuto, in concorso con altri, a fine di cessione a terzi cinque involucri contenenti complessivamente 141,3 grammi di marijuana e un involucro contenente 10 grammi di cocaina, conclusosi con sentenza assolutoria della Corte di Appello con formula per non aver commesso il fatto”, irrevocabile il omissis . 2. La Corte territoriale ha ritenuto sussistente la condotta ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione sulla base delle seguenti specifiche circostanze fattuali C.S. era stata arrestata in quanto, nel corso di un servizio di perlustrazione in prossimità del lido omissis , si trovava seduta su un asciugamano con il convivente e sotto tale asciugamano, occultati nella sabbia, vi erano alcuni involucri contenenti sostanza stupefacente alle loro spalle vi era una tenda da campeggio, nella quale erano occultati sostanza da taglio e un coltello a serramanico indosso al convivente era stata trovata la somma di Euro 385,00 suddivisa in banconote di vario taglio, mentre indosso a C.S. , all'interno di una scarpa, era stata rinvenuta la somma di Euro 1.000,00. Sul presupposto che la sentenza assolutoria aveva qualificato il comportamento di C.S. in termini di connivenza, nell'ordinanza si è ritenuto che il comportamento dell'istante avesse concorso a condizionare le determinazioni dell'autorità procedente e che fosse connotato da grave colpa in quanto le circostanze di fatto e la limitatezza dei luoghi rendevano arduo negare che la donna conoscesse l'esistenza di droga, coltello e sostanza da taglio. Con riguardo alla condotta endoprocessuale, la Corte ha evidenziato come l'istante, in sede di interrogatorio di garanzia, avesse negato il possesso della droga non solo per sé ma anche per il convivente quest'ultimo, nel corso del processo, aveva confessato di esserne il detentore esclusivo e la C. si era, quindi, uniformata al racconto autoaccusatorio del convivente, così tenendo un comportamento ritenuto ambiguo e tale da condizionare negativamente l'autorità procedente. 3. C.S. ricorre per cassazione deducendo vizio di motivazione. Secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe omesso di indicare gli elementi sulla base dei quali fosse prospettabile l'incidenza causale della ritenuta colpa grave sulla privazione della libertà personale sofferta in particolare, si assume, la condotta processuale tenuta da C.S. non ha spiegato alcuna rilevanza causale nell'applicazione e nel successivo mantenimento delle misure cautelari in quanto il giudice che ha disposto la custodia cautelare era lo stesso che ha condannato in primo grado C.S. , pur in presenza delle dichiarazioni autoaccusatorie del convivente. Da tanto deriverebbe, secondo il ricorrente, la dimostrazione che anche nel caso in cui C.S. ed il convivente avessero reso, sin dalla fase di convalida, quelle dichiarazioni che hanno condotto la Corte di Appello ad assolvere la ricorrente, il primo giudice avrebbe comunque applicato la misura cautelare. La motivazione sarebbe illogica nella parte in cui, dopo aver ammesso di non poter escludere che la ricostruzione dei fatti fosse quella esposta dal convivente, tendente ad affermare l'estraneità di C.S. , afferma che la sentenza assolutoria ha fatto emergere elementi di fatto tali da conclamare la condotta gravemente colposa della stessa, riconducile alle dichiarazioni rese nell'interrogatorio di garanzia, così come illogica è la riconduzione della colpa grave alla condotta tenuta dal convivente che, a differenza di C.S. , ha mutato la versione dei fatti resa in sede di convalida e di giudizio abbreviato. Il ricorrente si duole, altresì, della carenza di motivazione in merito alla condotta tenuta dalla ricorrente nella fase di mantenimento della misura e ritiene incongrua la motivazione che si soffermi apoditticamente sulla mera corrispondenza tra connivenza e colpa grave. 4. Il Procuratore Generale, in persona del Dott. Massimo Galli, nella requisitoria scritta ha concluso per il rigetto del ricorso. 5. Con memoria depositata il 5 gennaio 2015 la ricorrente ha proposto nuovi motivi, sviluppando le argomentazioni svolte nel ricorso e sottolineando come, quanto meno con riferimento alla detenzione sofferta dal 14 novembre 2011 alla data della sentenza assolutoria, la Corte territoriale avrebbe dovuto accogliere l'istanza tenendo conto del fatto che da quella data il convivente aveva reso dichiarazioni autoaccusatorie che avevano, poi, condotto all'assoluzione di C.S. . La Corte sarebbe incorsa, si assume, in travisamento della prova e del fatto, sostenendo che la causa della applicazione e del mantenimento della misura custodiate fosse ravvisabile nelle dichiarazioni rese dal convivente. Considerato in diritto 1. Come è noto, il rapporto tra giudizio penale e giudizio per l'equa riparazione è connotato da totale autonomia ed impegna piani di indagine diversi, che possono portare a conclusioni del tutto differenti assoluzione nel processo, ma rigetto della richiesta riparatoria sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall'utilizzo di parametri di valutazione differenti. 1.1. In particolare, è consentita al giudice della riparazione la nuova valutazione dei fatti, non nella loro valenza indiziaria o probante smentita dall'assoluzione , ma in quanto idonei a determinare, in ragione di una macroscopica negligenza od imprudenza dell'imputato, l'adozione della misura, traendo in inganno il giudice. 1.2. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha, inoltre, affermato che il giudice deve fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall'eventuale conoscenza che quest'ultimo abbia avuto dell'inizio dell'attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell'Autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto Sez. U, numero 34559 del 26/06/2002, De Benedictis, Rv. 222263 . In caso di richiesta di riparazione per l'ingiusta detenzione, il giudice deve, dunque, tenere conto anche della condotta del ricorrente successiva all'esecuzione del provvedimento restrittivo Sez. U, numero 32383 del 27/05/2010, D'Ambrosio, Rv. 247664 . 2. Con particolare riguardo al comportamento anteriore alla perdita della libertà personale indicato nel provvedimento impugnato, le censure mosse dalla ricorrente risultano infondate, in quanto la Corte territoriale si è attenuta ai principi di cui sopra, avendo posto a base della pronuncia di rigetto della riparazione la condotta della ricorrente, indicata come fatto storico accertato nel giudizio penale. 2.1. Tutte le censure mosse nel ricorso e nei motivi nuovi partono, in realtà, da presupposti argomentativi che non trovano riscontro nel testo dell'ordinanza impugnata, la cui motivazione s'incentra sulla condotta antecedente l'applicazione della misura cautelare. Nel provvedimento impugnato, in particolare, non è affermato che la condotta processuale di C.S. avrebbe indotto l'autorità giudiziaria in errore nell'applicazione della misura altrettanto inconferente rispetto al testo del provvedimento impugnato è l'assunto in base al quale la Corte avrebbe individuato la condotta ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione in favore di C.S. nel comportamento processuale del convivente. 2.2. L'ordinanza impugnata si fonda, dunque, nel rispetto dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia, sull'analisi del comportamento dell'istante quale si presentava all'autorità procedente all'epoca in cui si doveva esprimere un giudizio di gravità indiziaria ai fini dell'applicazione o meno della misura cautelare e sulla verifica che tale comportamento non fosse stato escluso, nella sua reale sussistenza, dalla sentenza assolutoria. 3. Ma anche con riferimento al comportamento della ricorrente successivo all'applicazione della misura l'ordinanza presenta una motivazione esente da vizi, che si sostanzia nella descrizione delle diverse versioni difensive fornite dalla C. nell'interrogatorio di garanzia e nel corso del giudizio, ritenute dalla Corte indicative di una ambiguità che, con deduzione assente da illogicità, ha considerato idonea a condizionare negativamente le valutazioni dell'autorità procedente circa il suo coinvolgimento nel delitto. 4. A ciò si aggiunga che nella stessa sentenza assolutoria, secondo quanto si legge a pag.3 dell'ordinanza, la condotta della C. è stata qualificata come connivente. 4.1. Con specifico riferimento all'ipotesi della connivenza, in relazione al diritto all'equa riparazione, la Corte Suprema ha già avuto modo di affrontare la problematica della valenza della connivenza stessa quale condotta ostativa al riconoscimento della riparazione. In particolare, si è riconosciuta tale valenza in tre casi a nell'ipotesi in cui l'atteggiamento di connivenza sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose Sez. 4, numero 8993 del 15/01/2003, Lushay, Rv. 223688 b nel caso in cui la connivenza si concreti non già in un mero, comportamento passivo dell'agente con riguardo alla consumazione di un reato, ma nel tollerare che tale reato sia consumato, sempre che l'agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell'attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia Sez. 4, numero 16369 del 18/03/2003, Cardillo, Rv. 224773 c nell'ipotesi in cui la connivenza passiva risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell'agente, sebbene il connivente non intendesse perseguire questo effetto Sez. 4, numero 42039 del 08/11/2006, Cambareri, Rv. 235397 Sez. 4, numero 2659 del 03/12/2008, Vottari, Rv. 242538 in tal caso è necessaria la prova positiva che il connivente fosse a conoscenza dell'attività criminosa dell'agente medesimo Sez. 4, numero 42039 del 08/11/2006, Cambareri, Rv. 235397 . È noto che la mera presenza passiva non integra il concorso nel reato, a meno che non valga a rafforzare il proposito dell'agente di commettere il reato, e che questo rafforzamento del proposito non è sufficiente per ritenere il concorso dello spettatore passivo”, essendo necessario che questi abbia la coscienza e volontà di rafforzare il proposito criminoso. Ma nei casi in cui l'elemento soggettivo in questione non sia provato ben può essere astrattamente configurata come gravemente colposa, perché caratterizzata da grave negligenza, la condotta passiva del connivente per non aver valutato gli effetti della sua condotta sul comportamento dell'agente, la cui volontà criminosa può essere oggettivamente rafforzata anche se il connivente non intenda perseguire questo effetto tale condotta può ritenersi, infatti, idonea a creare un'apparenza di partecipazione alle attività criminose di altri. Al fine di pervenire a questa conclusione è necessario che sia provata la conoscenza delle attività criminose compiute o almeno che con grave negligenza il connivente non se ne sia reso conto . 4.2. Nella concreta fattispecie, avuto riguardo alle circostanze fattuali evidenziate dalla Corte distrettuale, come sopra ricordato, non a caso con riferimento al comportamento extraprocessuale della ricorrente, la motivazione risulta logica laddove ha ritenuto che il comportamento di C.S. denotasse consapevolezza circa la presenza della sostanza stupefacente e degli strumenti utili allo spaccio e potesse aver indotto l'autorità inquirente a ritenerla coinvolta nel reato oggetto d'indagine. 4.3. Ad integrazione ed ulteriore specificazione delle ipotesi appena elencate, il Collegio ritiene che debba essere sottolineato, comunque, che, in tema di equa riparazione, il vaglio delle circostanze di fatto idonee ad integrare il dolo o la colpa grave deve essere operato con giudizio ex ante e sulla base dell'idoneità della condotta dell'indagato a tranne in inganno” l'autorità giudiziaria e a porsi come situazione sinergica alla causazione dell'evento detenzione” se è vero dunque che la connivenza non è, certamente, concorso nel reato, è altresì innegabile che la stessa, in presenza di determinati dati di fatto, come quelli sottolineati dalla Corte di Appello nel caso in esame, possa essere interpretata, almeno nella fase investigativa, appunto come concorso, con possibili, negative conseguenze in tema di libertà conseguenze dovute, perlomeno, anche alla vistosa trascuratezza e superficialità di chi, pur solo connivente, non tiene nel dovuto conto dei dati di fatto che potrebbero oggettivamente coinvolgerlo. 5. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.