Il prestanome … presta il fianco alla penale responsabilità

Concedere il nome significa assumere, quantomeno sotto il profilo della eventualità, la responsabilità dell’impresa così formalmente rappresentata, essendo d’altronde impossibile ignorare che il contribuire ad una apparenza diversa dalla sostanza può essere utilizzato, se non addirittura finalizzato, anche per illeciti. Concedere il nome, dunque, implica comunque il dolo eventuale rispetto alle condotte criminose dell’amministratore di fatto.

Questo il canone ermeneutico tratteggiato dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 2850/15, depositata il 22 gennaio. Sovrumani silenzi, ma non profondissima quiete. Il figlio opera da mero, silente prestanome a favore della società del padre, ma, allorché viene riscontrata la violazione della fattispecie di cui all’art. 10 ter , d.lgs. 74/2000, sia il Tribunale che la Corte di appello di Palermo non hanno particolari esitazioni ad affermare la penale responsabilità del giovane, seppur mero prestanome. I giudici di merito avevano, infatti, chiarito che la prestazione del nome determina, anche sotto il profilo del dolo eventuale, l’assunzione della effettiva responsabilità della condotta svolta dal soggetto per il quale, tramite detta prestazione, si esplica la funzione di schermo, così oggettivamente accettando il rischio della attribuzione delle eventuali condotte illecite del soggetto schermato. Adita dalla difesa dell’imputato, che lamentava soprattutto la carenza dell’elemento soggettivo, la Suprema Corte richiama una significativa serie di propri precedenti in tema di reati omissivi, improntati al medesimo rigore interpretativo, evidenziando come la semplice accettazione o il semplice mantenimento della carica attribuiscono allo stesso amministratore, pur se mero prestanome, specifici obblighi di vigilanza e controllo, la cui violazione comporta una responsabilità penale diretta a titolo di dolo generico, per la generica consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o comunque a titolo di dolo eventuale, per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino. L’esito è necessitato il ricorso viene dichiarato inammissibile e la condanna confermata. Diverso atteggiarsi a fronte di reati commissivi. Se appare indubbio il consolidarsi, anche per effetto della pronuncia in commento, di questo rigido orientamento interpretativo, a ben diverse conclusioni giunge, invece, una recentissima giurisprudenza allorché si tratti di verificare sempre la responsabilità del mero prestanome, ma rispetto ad ipotesi commissive. In un recentissimo arresto si è infatti affermato che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto. Al contrario, in tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore in carica risponde penalmente dei reati commessi dall’amministratore di fatto solo se sia raggiunta la prova che egli aveva la almeno generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distraeva, occultava, dissimulava, distruggeva o dissipava i beni sociali o esponeva o riconosceva passività inesistenti Corte di Cassazione, sentenza n. 50976/14 . Alle radici del distinguo. É di immediata evidenza come l’impostazione giurisprudenziale appena descritta in tema di reati commissivi appaia più in linea con i canoni di una responsabilità personale e colpevole dettati dalla Costituzione, che non l’orientamento relativo ai reati omissivi. Non può tuttavia disconoscersi che detta ultima impostazione si fondi sul rilievo che gli amministratori di società sono titolari di una posizione di garanzia, nel senso che su di loro comunque incombe, in presenza di un dovere giuridico di attivarsi per evitare che l'evento temuto si verifichi, l'obbligo di impedire l'evento pregiudizievole, anche se prodotto da una condotta costituente reato posta in essere da altri. La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, chiarito come le componenti essenziali della posizione di garanzia, in cui versa il titolare dell'obbligo, siano, da un lato, una fonte normativa di diritto privato o pubblico che costituisca il dovere di intervento e, dall'altro, l'esistenza di un potere attraverso il corretto uso del quale il soggetto garante sia in grado di impedire l'evento. Infatti l'art. 40 c.p., secondo il quale non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo, può e deve essere interpretato in termini solidaristici, avendo presenti le norme degli artt. 2, 32, 41, comma 2, della Costituzione. L’amministratore di diritto viene dunque, per tale via, investito di una vera e propria posizione di garanzia che ne importa la responsabilità ex art. 40, comma 2, c.p. allorché, violando il suddetto obbligo di attivarsi e di vigilanza, abbia consentito a soggetti, che di fatto abbiano compiuto atti gestori, di commettere reati. ma restano i dubbi. Pur di fronte ad un orientamento giurisprudenziale che, oltre ad essere consolidato, trae origine da un indubbiamente corretto iter argomentativo logico – giuridico, restano le perplessità di una impostazione che, in realtà, si limita ad affermare la penale responsabilità come conseguenza di un mero automatismo conseguente alla formale assunzione di una posizione di garanzia, a prescindere da un giudizio di effettiva colpevolezza del soggetto imputato.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 29 ottobre 2014 – 22 gennaio 2015, numero 2850 Presidente Fiale – Relatore Graziosi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza dell'11 novembre 2013 la Corte d'appello di Palermo ha respinto l'appello proposto da C.I. avverso sentenza del 25 settembre 2012 con cui il Tribunale di Trapani lo aveva condannato alla pena di cinque mesi di reclusione per il reato di cui all'articolo 10 ter d.lgs. 74/2000 per avere omesso, nella sua qualità di legale rappresentante di C.R.C. Srl, di versare entro il termine di legge l'Iva relativa all'anno 2007 per un importo di Euro 145.838. 2. Ha presentato ricorso il difensore, sulla base di due motivi. Il primo motivo denuncia violazione dell'articolo 10 ter d.lgs. 74/2000 quanto alla determinazione del soggetto attivo del reato, con conseguente violazione del principio di responsabilità penale ex articolo 27 Cost. Erroneamente anche in rapporto alla giurisprudenza nomofilattica sarebbe stata riconosciuta la responsabilità penale dell'imputato, che era invece soltanto prestanome dell'amministratore di fatto, suo padre C.S. , e del quale non sarebbe nemmeno provato l'elemento soggettivo del dolo eventuale. Il secondo motivo denuncia carenza di motivazione sulla sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo eventuale in capo all'imputato. Considerato in diritto 3. Il ricorso è infondato. La corte territoriale, si osserva fin d'ora con motivazione sufficientemente adeguata, ha affrontato la questione della identificazione del soggetto attivo del reato e della sua correlata situazione dal punto di vista dell'elemento psicologico in conformità all'insegnamento di questa Suprema Corte, che, in sostanza, attribuisce alla prestazione del nome, anche sotto il profilo del dolo eventuale, l'assunzione della effettiva responsabilità della condotta svolta dal soggetto per il quale, tramite detta prestazione, si esplica la funzione di schermo, così oggettivamente accettando il rischio della attribuzione delle eventuali condotte illecite del soggetto schermato. In particolare, proprio per quanto riguarda gli incarichi sociali, assai di recente Cass. sez. III, 19 settembre 2013-27 febbraio 2014 numero 14432 è stato affermato che l'amministratore di una società risponde del reato omissivo contestatogli quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche quando altri soggetti abbiano agito come amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione o il semplice mantenimento della carica attribuiscono allo stesso specifici doveri di vigilanza e controllo, la cui violazione comporta una responsabilità penale diretta a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o, comunque, a titolo di dolo eventuale, per la semplice accettazione del rischio che questi si veri fichi no ancora da ultimo Cass. sez. III, 5 dicembre 2013-19 febbraio 2014 numero 7770 insegna che per un reato omissivo risponde l'amministratore di società anche se mero prestanome di altri soggetti che hanno agito quali amministratori di fatto in quanto l'accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e di controllo sulla corretta gestione degli affari sociali, il cui mancato rispetto comporta responsabilità a titolo di dolo generico nell'ipotesi di accertata consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, ovvero a titolo di dolo eventuale in caso di semplice accettazione del rischio che questi si verifichino . Sempre nella più recente giurisprudenza di legittimità al riguardo, Cass. sez. III, 19 novembre 2013 numero 47110, a proposito dei reati in materia di dichiarazione di cui al d.lgs. 74/2000, rileva che il prestanome non risponde solo se è privo di qualunque potere o possibilità di ingerenza nella gestione della società , il che, ovviamente, non coincide con il mero rimettere la gestione effettiva ad un altro soggetto. Le sentenze citate dalla stessa corte territoriale Cass. sez. III, 25 maggio 2011 numero 25047, nonché Cass. sez. III, 28 aprile 2011 numero 23425, quest'ultima invocata pure dal ricorrente , poi, non si discostano dalla linea confermata dai più recenti arresti sopra citati cfr. altresì Cass. sez. V, 23 giugno 2009 numero 31885, che evidenzia la responsabilità del prestanome per il reato di bancarotta semplice per il dovere di vigilanza e di controllo ex articolo 2932 c.c. . In conclusione, concedere il nome, come già sopra si è rilevato, significa assumere, quantomeno sotto il profilo della eventualità, la responsabilità dell'impresa così formalmente rappresentata, essendo d'altronde impossibile ignorare che il contribuire a una apparenza diversa dalla sostanza può essere utilizzato, se non addirittura finalizzato, anche per illeciti. Né, logicamente a seguito di quanto appena evidenziato, è configurabile l'esonero da ogni responsabilità per il mero fatto che sussiste un rapporto specifico tra prestanome e amministratore di fatto, sia di amicizia, sia, come nel caso in questione argomenta il ricorrente, di parentela padre-figlio nel caso in esame . Concedere il nome implica comunque, si ripete, il dolo eventuale rispetto alle condotte criminose dell'amministratore di fatto, per cui non vi è carenza alcuna nella, seppur concisa, motivazione della sentenza di appello, che riconosce la responsabilità del figlio prestanome, ed è peraltro integrata dalla sentenza di primo grado, qualificabile nel caso di specie come doppia conforme sul noto principio della integrazione reciproca che connette l'apparato motivativo delle pronunce c.d. doppie conformi qualora siano stati adottati, come qui è accaduto, criteri valutativi omogenei v. Cass. sez. III, 16 luglio 2013 numero 44418 Cass. sez. III, 1 dicembre 2011-12 aprile 2012 numero 13926 Cass. sez. II, 10 gennaio 2007 numero 5606 Cass. sez. III, 1 febbraio 2002, numero 10163 Cass. sez. I, 20 giugno 2000 numero 8868 . In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, numero 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.