Il deposito dei decreti autorizzativi costituisce un inutile orpello ai fini dell’emissione della misura cautelare

Non occorrono al giudice del procedimento cautelare. Inoltre l’aggravante del metodo mafioso” si applica anche al mafioso occasionale”.

Così per la Cassazione penale, Prima Sezione, n. 45889/2014, depositata il 5 novembre. Il fatto processuale. Per fatti incendiari ex art. 423 c.p., il Tribunale del Riesame confermava l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che aveva disposto la custodia cautelare nei confronti dell’indagato. Questi contestava la mancata allegazione presso il Riesame dei decreti autorizzativi le intercettazioni ambientali illo tempore disposte, poi risultate decisive per incriminare l’indagato, nonché l’immatura valutazione giudiziale sulla sussistenza dei requisiti sostanziali che hanno fondato l’emissione della misura. La Cassazione respinge. Mancano i decreti autorizzativi delle intercettazioni. Nulla cambia, permane la custodia cautelare. La mancata trasmissione dei decreti cit. al Tribunale del Riesame non determina la perdita di efficacia della misura disposta ma solo, eventualmente, l’inutilizzabilità degli esiti della captazione, nel solo caso in cui quei decreti siano stati adottati fuori dai casi consentiti dalla legge ex art. 267 e 268 c.p.p. – e vige in ogni caso una presunzione di legittimità di quei decreti, in difetto di puntuale allegazione contraria -. Più le ragioni, l’art. 291 c.p.p. non include i decreti cit. fra gli atti che il Pubblico ministero presenta ai fini della richiesta della misura. Tanto valga per il Riesame, essendo il Pubblico Ministero vincolato a quanto già in precedenza presentato. La ragione è presto detta, le lungaggini della chiusura della procedura di intercettazione mal si conciliano con le celerità del procedimento cautelare, per cui il Pubblico Ministero può chiedere l’emissione della misura senza attendere la conclusione delle suddette intercettazioni – il cui obbligo di deposito presso la segreteria della pubblica accusa sorge, ai sensi dell’art. 268 c.p.p., entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni. Termine nemmeno previsto a pena di nullità -. L’aggravante di tipo mafioso ex art. 7 d.lgs. n. 152/1991 applicabile anche al mafioso occasionale”. Non occorre che il reo abbia fatto parte di una associazione criminale di tipo mafioso, occorrono metodi mafiosi, di modo che la persona offesa ravvisi nell’altrui minaccia la parvenza di un sodalizio mafioso già operante. La Cassazione depone per la prevalenza dell’elemento percettivo su quello materiale e reale.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 8 ottobre – 5 novembre 2014, n. 45889 Presidente Cortese – Relatore Centonze Rilevato in fatto 1. Con ordinanza emessa il 29 maggio 2014 il Tribunale di Messina, Sezione del riesame, rigettava il ricorso proposto da A.S. , ai sensi dell'art. 309 cod. proc. pen., avverso l'ordinanza emessa il 16 maggio 2014 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Messina, con cui gli veniva applicata la misura cautelare della custodia in carcere per il tentativo di incendio pluriaggravato, ai sensi degli artt. 56, 110, 423, 425, n. 2, cod. pen., 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, che era stato commesso in danno di C.T. , il omissis . Nel provvedimento in questione si rilevava che l'A. risultava raggiunto da gravi indizi di colpevolezza sulla base delle intercettazioni ambientali acquisite nel procedimento n. 3034/14 R.G.N.R., da cui emergeva il suo coinvolgimento e quello di P.G. , quali esecutori materiali, nel tentativo di incendio dell'abitazione estiva del Cr. , che veniva realizzato su mandato di T.F. . Nell'ordinanza si individuava un movente intimidatorio nell'atto incendiario, conseguente alla scelta di collaborare con la giustizia della vittima, durante la celebrazione del primo grado del giudizio abbreviato del processo denominato omissis , per avere partecipato - unitamente a T.F. , Pa.Eu. , C.P. e p.d. - a un'associazione armata dedita al traffico di stupefacenti, attiva nel quartiere omissis e capeggiata dal T. . Le attività d'indagine trasfuse nel processo omissis , in particolare, erano state valorizzate dalle dichiarazioni del Cr. , che aveva ricostruito la struttura organizzativa della consorteria capeggiata dal T. , facendo riferimento alla disponibilità di due arsenali di armi, uno dei quali era custodito dallo stesso Cr. nella spiaggia di omissis . In ordine ai motivi di impugnazione, innanzitutto, si rilevava l'insussistenza della doglianza prospettata in sede di riesame, relativa alla mancata trasmissione dei fascicoli delle intercettazioni, recanti numeri di ruolo 802/13 R.I.T. e 375/14 R.I.T., che risultavano allegati al fascicolo del pubblico ministero e posti a disposizione della difesa dell'indagato mediante deposito nella cancelleria del tribunale del riesame. Presso tale cancelleria, infatti, risultavano depositati sia il supporto magnetico con l'audio delle conversazioni intercettate nel corso delle indagini preliminari, sia la trascrizione integrale delle captazioni, che compendiava l'informativa di polizia giudiziaria, sulla scorta della quale il pubblico ministero aveva richiesto l'ordinanza applicativa della misura cautelare in carcere nei confronti dell'A. . Si rilevava, inoltre, l'insussistenza del secondo motivo di impugnazione, relativo alla qualificazione del delitto per il quale si procedeva, ravvisandosi nel caso di specie l'ipotesi delittuosa di cui agli artt. 56, 110, 423, 425, n. 2, cod. pen., 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 e non quella di cui all'art. 424 cod. pen., risultando provato che gli indagati avessero come obiettivo quello di incendiare l'abitazione del Cr. . Si rilevava, ancora, la sussistenza dell'aggravante del metodo mafioso, che veniva contestata all'A. ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, risultando provato che, con l'atto incendiario commesso in danno del Cr. , gli indagati mirassero a scoraggiare ulteriori collaborazioni, imponendo un atteggiamento di assoggettamento e di omertà nei confronti del gruppo criminale capeggiato dal T. . Si rilevava, infine, l'inidoneità di ogni altra misura di custodia cautelare, in quanto, con la sua condotta, l'A. aveva evidenziato una notevole caratura criminale che, in uno ai suoi precedenti penali, imponeva l'applicazione del regime carcerario. 2. Avverso tale ordinanza la difesa dell'A. ricorreva per cassazione, eccependo, quale primo motivo, la violazione degli artt. 271, 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen., in relazione alle attività di captazione ambientale eseguite nei suoi confronti. Si deduceva, in particolare, che l'ordinanza impugnata, sul punto della mancata trasmissione dei fascicoli delle intercettazioni, era illogica e contraddittoria, non potendosi supplire a tale inottemperanza con il riferimento all'allegazione al fascicolo del pubblico ministero e al loro deposito nella cancelleria del tribunale del riesame. La mancata trasmissione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni ambientali e dei verbali di esecuzione delle operazioni, recanti numeri di ruolo 802/13 R.I.T. e 375/14 R.I.T., imponeva una rivalutazione complessiva del materiale probatorio, ai sensi dell'art. 309, comma 9, cod. proc. pen., senza tenere conto degli esiti delle captazioni, non risultando dimostrata la legittimità della loro acquisizione. Con il secondo motivo di impugnazione si eccepiva l'erronea applicazione dell'art. 423 cod. pen., essendo la motivazione dell'ordinanza carente sul punto della qualificazione giuridica del delitto contestato all'A. . Si deduceva, in tale ambito, che, nell'ordinanza impugnata, si limitava l'analisi delle complessive emergenze indiziarie alla sussistenza o meno del dolo richiesto dalla norma incriminatrice, senza procedere, se non in forza di una motivazione tautologica, alla necessaria e imprescindibile verifica degli elementi strutturali della fattispecie. Ne conseguiva l'incongruità della ricostruzione dell'ordinanza sul punto dell’offensività della condotta dell'indagato, atteso che l'esiguità dei danni prodotti e la limitata propagazione delle fiamme impediva di configurare un incendio aggravato. Con il terzo motivo si eccepiva l'insussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, che non era desumibile dagli elementi probatori acquisiti, che non consentivano di ritenere l'episodio incendiario contestato collegato all'operatività di un gruppo mafioso attivo nell'area messinese. Si deduceva, infatti, che la prova di tale metodologia era esclusivamente quella del collegamento dell'A. con il T. -individuato quale mandante dell'attentato in danno del Cr. - nei cui confronti non si procedeva in questo procedimento. Con il quarto motivo si eccepiva l'insussistenza delle esigenze cautelari legittimanti la custodia in carcere dell'A. , richiamandosi la rivisitazione della materia cautelare imposta dalla sentenza della Corte costituzionale 29 marzo 2013, n. 57. Si deduceva che, in concreto, non sussistevano elementi specifici inerenti al fatto, alle motivazioni e alla personalità dell'indagato, idonei a consentire l'applicazione della misura cautelare carceraria, evidenziandosi che la realtà storica coperta dall'aggravante in esame appare talmente multiforme da giustificare un giudizio di irragionevolezza rispetto all'automaticità della ritenuta regola d'esperienza”. Considerato in diritto 1. Il ricorso proposto nell'interesse di A.S. è infondato e deve essere rigettato. Quanto al primo motivo di ricorso deve rilevarsi, in generale, che, secondo l'orientamento consolidato di questa Corte che si ritiene di condividere, la mancata trasmissione al tribunale del riesame dei decreti autorizzativi delle intercettazioni non determina, in quanto tale, la perdita di efficacia della misura ma, eventualmente e più limitatamente, l’inutilizzabilità degli esiti delle operazioni di captazione, qualora i decreti siano stati adottati fuori dei casi consentiti dalla legge ovvero in violazione delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, cod. proc. pen. cfr. Sez. 3, n. 19101 del 07/03/2013, dep. 03/05/2013, D., Rv. 255117 . Inoltre, ai fini dell'adozione di una misura cautelare, nessuna norma impone, a pena di nullità, il deposito dei decreti autorizzativi delle intercettazioni eseguite nel corso delle indagini preliminari, perché gli elementi che il pubblico ministero deve presentare sono quelli espressamente indicati dall'art. 291, comma 1, cod. proc. pen I decreti in questione non devono essere nemmeno acquisiti per il giudizio di riesame, posto che il pubblico ministero deve trasmettere unicamente gli atti esibiti al momento della richiesta di applicazione della misura. La mancata previsione del dovere di disporre questo deposito trova congrua ragione e giustificazione processuale nella circostanza che la richiesta di una misura cautelare ben può avvenire prima della conclusione delle operazioni di intercettazione e prima ancora che sorga, ai sensi dell'art. 268, comma 4, cod. proc. pen., l'obbligo di depositare in cancelleria le trascrizioni e i relativi decreti di autorizzazione, obbligo che neppure in questo momento è sanzionato a pena di nullità. Ne discende che la mancata trasmissione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni ambientali e dei verbali di esecuzione delle operazioni non determina la perdita di efficacia della misura cautelare applicata all'indagato su richiesta del pubblico ministero, ma, se del caso, solo l'inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni, qualora i decreti siano stati adottati fuori dei casi consentiti dalla legge o in violazione delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, cod. proc. pen. e che sia onere della parte processuale produrre o richiedere i decreti autorizzativi medesimi cfr. Sez. 1, n. 7350 del 28/01/2008, dep. 15/0272008, Haziri, Rv. 239139 . Nel caso di specie, tuttavia, risulta dallo stesso provvedimento impugnato davanti a questa Corte - e il punto non è in alcun modo controverso - che i decreti autorizzativi e di proroga delle intercettazioni, con tutta la relativa documentazione, sono stati depositati nella cancelleria del tribunale del riesame e messi a disposizione della difesa, con la conseguenza che - sulla scorta dei principi che si sono richiamati - deve escludersi che ricorra una ipotesi di perdita di efficacia della misura o che possa essersi verificata una violazione del diritto di difesa con riferimento alla posizione dell'A. , avendo la stessa potuto godere di un congruo termine per esaminare tale documentazione. Anche in questa sede, del resto, il difensore si limitava a richiamare esclusivamente argomentazioni di natura formale in relazione alla mancata trasmissione dei provvedimenti autorizzativi, non essendo stato in grado di indicare quale concreto danno abbia subito l'interesse del suo assistito in ordine alla cognizione di questi atti. Invero, con i motivi di ricorso, ci si è limitati a formulare in modo generico una serie di astratte e non dimostrate ipotesi di illegittimità dei decreti autorizzativi, come se i vizi fossero automaticamente ricollegabili alla mancata o tardiva trasmissione dei decreti al tribunale del riesame, peraltro insussistente nel caso in esame. Ne consegue che, in mancanza di specifici e puntuali rilievi in punto di illegittimità, deve ritenersi che sussista una presunzione di legittimità di tali decreti, anche in considerazione del fatto che il ricorrente non ha formulato alcuna censura in ordine al contenuto e all'interpretazione delle intercettazioni ambientali di cui ai fascicoli delle intercettazioni, recanti numeri di ruolo 802/13 R.I.T. e 375/14 R.I.T Ne discende che, limitatamente a questo primo motivo, la motivazione fornita sul punto dal Tribunale di Messina, in sede di riesame, è esaustiva, essendo adeguato e sufficiente il richiamo all'attività del pubblico ministero finalizzata a mettere a disposizione delle parti processuali il contenuto delle intercettazioni poste a sostegno dell'ordinanza cautelare mediante deposito nella cancelleria dell'organo di gravame. 2. Parimenti destituito di fondamento processuale è il secondo motivo di ricorso, relativo alla violazione dell'art. 273 cod. proc. pen. in relazione all'art. 423 cod. pen., dovendosi evidenziare l'adeguatezza della motivazione dell'ordinanza impugnata in ordine alla sussunzione del fatto di reato oggetto di contestazione. Infatti, nel provvedimento impugnato, al contrario di quanto dedotto, si evidenziava che l'ordinanza applicativa della misura cautelare nei confronti dell'A. appariva congrua in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti di reato contestati, non potendosi ricondurre la condotta dell'indagato alla fattispecie di cui all'art. 424 cod. pen. e dovendosi riferire i fatti in contestazione alla fattispecie di cui agli artt. 56, 110, 423, 425, n. 2, cod. pen., 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152. Si consideri, in proposito, che, secondo l'orientamento consolidato di questa Corte, la differenza tra le due fattispecie non risiede tanto nell'entità delle conseguenze materiali, quanto piuttosto nell'elemento soggettivo del reato, in quanto solo nell'ipotesi dell'art. 423 cod. pen. - certamente ricorrente nel caso di specie - l'agente vuole cagionare l'incendio, mentre nell'ipotesi dell'art. 424 cod. pen. l'incendio è la conseguenza non voluta dell'azione criminosa posta in essere dal soggetto attivo del reato. Ne consegue che nel caso di incendio commesso al fine di danneggiare quando a questa attività si associa la coscienza e la volontà di cagionare un fatto di entità tale da assumere le dimensioni previste dall'art. 423 cod. pen., è applicabile quest'ultima norma e non l'art. 424 cod. pen., nel quale l'incendio è contemplato come evento che esula dall'intenzione dell'agente” cfr. Sez. 1, n. 16612 dell'I 1/02/2013, dep. 12/04/2013, Sofrà, Rv. 255644 . 3. Destituito di fondamento processuale risulta anche il terzo motivo di ricorso, con cui si eccepiva la violazione di legge in relazione all'insussistenza dell'aggravante del metodo mafioso di cui all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, che, al contrario di quanto dedotto, è desumibile dagli elementi probatori raccolti nel corso delle indagini preliminari, che permettevano di risalire agli autori dell'episodio incendiario e al movente dell'attentato. Fin dalle fasi iniziali delle indagini, infatti, si individuava il movente dell'attentato incendiario eseguito in danno dell'abitazione del Cr. nell'inizio della collaborazione con la giustizia della vittima. Non v'è dubbio, quindi, che le modalità dell'azione criminosa intrapresa dall'A. e dai suoi complici - dei quali veniva individuato P.G. - sono perfettamente riconducibili alla metodologia mafiosa astrattamente prefigurata dall’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, dovendosi affermare che tale circostanza aggravante è certamente applicabile nel caso di specie, tenuto conto delle caratteristiche dell'associazione armata della quale l'indagato faceva parte, operante nel settore del traffico di sostanze stupefacenti e collegata al circuito mafioso dell'area urbana che si sta considerando, costituita dal quartiere omissis . Tali considerazioni risultano avvalorate dalle emergenze probatorie alle quali fa riferimento l'ordinanza impugnata, che si soffermava sui rapporti di collegamento soggettivo esistenti tra il T. e alcuni esponenti della criminalità organizzata messinese, tra i quali si citavano B.C. e S.F. . Deve, in proposito, osservarsi che, in sede di ricorso, si trascurava di considerare che la circostanza aggravante di cui all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, è configurabile rispetto a ogni tipo di delitto, punibile con pena diversa dall'ergastolo, a condizione che - come nel caso di specie - sia stato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis cod. pen Ne consegue che la circostanza aggravante del metodo mafioso è configurabile anche a carico di un soggetto che non faccia parte di un'associazione di tipo mafioso e postula che l'agente ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso, tale da richiamare alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo del reato quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga a un sodalizio del genere anzidetto il che vale a maggior ragione nel caso in esame, dove l'attentato incendiario aveva come obiettivo quello di intimidire il Cr. , impedendo che la collaborazione avviata con la giustizia nel procedimento omissis potesse proseguire cfr. Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, dep. 17/0972013, imp. P.M. in proc. De Paola, Rv. 257065 . Intimidire il Cr. , impedendo che la collaborazione avviata con la giustizia nel procedimento omissis potesse proseguire cfr. Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, dep. 17/0972013, imp. P.M. in proc. De Paola, Rv. 257065 . In questi termini, la caratura criminale del T. , certamente nota al Cr. al momento dei fatti che si stanno considerando, in quanto espressiva del suo potere delinquenziale sul territorio - al quale, tra l'altro, gli indagati A. e P. facevano riferimento in alcune conversazioni intercettate nel corso delle indagini preliminari - inducevano il Cr. e i suoi familiari in uno stato di soggezione psicologica e a subire le pressioni intimidatorie esercitate nei loro confronti, facendo ritenere a questa Corte sussistente la metodologia mafiosa della condotta in esame, così come contestata in rubrica ai sensi dell'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991. In questa prospettiva processuale, deve ulteriormente rilevarsi che l'identificazione di T.F. quale mandante dell'atto incendiario eseguito in danno dell'abitazione del Cr. - commesso materialmente dall'A. e dal P. su suo mandato - costituisce una circostanza di fatto che emerge in modo inequivocabile dal contenuto delle conversazioni intercettate nel corso delle indagini preliminari, che venivano registrate nei frangenti immediatamente successivi all'esecuzione del fatto delittuoso che si sta considerando. A tutto questo deve aggiungersi che l'episodio in contestazione non può ritenersi isolato, ma si inserisce in una strategia operativa tipicamente mafiosa, come è desumibile dalle minacce che - in epoca coeva ai fatti delittuosi che si stanno considerando - subiva il cugino di Cr.To. , F.M. , per mano di un congiunto del T. . In particolare, secondo quanto riferito dallo stesso Cr. in sede di denuncia, qualche giorno prima del tentativo di incendio della sua abitazione, il F. veniva aggredito da un parente del T. , D.P.S. , con una condotta che il denunciante inseriva nel contesto delle rappresaglie messe in atto dagli esponenti della famiglia T. in danno della vittima, a seguito della sua decisione di collaborare con la giustizia. Si consideri, ancora, che lo stesso Cr. , la mattina precedente l'incendio della sua abitazione, aveva denunciato l'incendio dell'autovettura della propria compagna, che si trovava parcheggiata nella pubblica via. In questo ambito probatorio, non è possibile dubitare della sussistenza degli elementi costitutivi dell'aggravante in esame, occorrendo evidenziare che per la configurabilità dell'aggravante dell'utilizzazione del metodo mafioso, prevista dall'art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 [ .], non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l'esistenza di un'associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente Mafiosa” cfr. Sez. 2, n. 322 del 02/10/2013, dep. 08/0172014, Ferrise, Rv. 258103 . Su questo punto della motivazione, quindi, l'ordinanza impugnata risulta esente da censure logiche e giuridiche, con la conseguenza che, anche sotto tale profilo, si impone il rigetto del ricorso. 4. Occorre, infine, passare in rassegna il quarto motivo di ricorso, con cui si eccepiva, ai sensi dell'art. 606, lett. e , cod. proc. pen., l'insussistenza delle esigenze cautelari legittimanti la misura della custodia in carcere nei confronti dell'A. , richiamandosi in particolare la rivisitazione della materia cautelare conseguente alla sentenza della Corte costituzionale 29 marzo 2013, n. 57, con cui era stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen Deve, in proposito, rilevarsi che, nel caso di specie, gli elementi probatori sui quali si soffermava con una ricostruzione puntuale l'ordinanza impugnata inducono a ritenere che sussistevano elementi specifici inerenti al fatto, alle motivazioni e alla personalità del soggetto, imponendo, al contrario di quanto dedotto in ricorso, l'applicazione della misura cautelare all'A. . Né, in senso contrario, è stata proposta una lettura alternativa a quella posta a fondamento dell'ordinanza, rendendo evidente la genericità delle deduzioni del ricorrente e la vaghezza del richiamo alla rivisitazione della materia cautelare conseguente alla sentenza della Corte costituzionale n. 57 del 2013, svincolata dalla proposizione di elementi probatori che si muovono in una direzione processuale contraria al provvedimento in esame. Non vi sono, in ogni caso, elementi specifici dai quali desumere, in ossequio all'orientamento ermeneutico che si è richiamato, che una misura cautelare meno affittiva di quella attualmente patita dall'A. possa rivelarsi adeguata a fronteggiare il pericolo di reiterazione nel reato dell'indagato, che ha evidenziato un notevole radicamento nell'ambiente criminale messinese collegato al traffico di sostanze stupefacenti. Si consideri, infine, che la metodologia tipicamente mafiosa del comportamento dell'A. appare sintomatica del suo collegamento all'associazione armata capeggiata dal T. , escludendo l'occasionalità delle sue condotte e impedendo di applicargli un regime cautelare meno afflittivo di quello attualmente vigente. 5. Per le ragioni che si sono esposte il ricorso proposto nell'interesse di A.S. deve essere rigettato, con la sua condanna al pagamento delle spese processuali, cui consegue la trasmissione, a cura della cancelleria, di copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma 1 ter, disp. att., cod. proc. pen. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma 1 ter, disp. att., cod. proc. pen