Minacce di “tipo mafioso”, scatta l’aggravante

La circostanza aggravante prevista dall'art. 7 d.l. n. 152/1991, convertito in legge n. 203/1991, che dispone l'aumento di pena da un terzo alla metà, ricorre nell'ipotesi in cui l’agente o gli agenti, pure al di fuori di forme di partecipazione o concorso in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere condotte idonee ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulla vittima secondo le modalità proprie dell'intimidazione derivante dall'organizzazione criminale.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 43509, depositata il 17 ottobre 2014. Minacce idonee ad evocare vendette e rappresaglie di tipo mafioso. Con la sentenza in commento il Supremo Collegio ha rigettato il ricorso proposto, confermando la decisione del Tribunale del riesame di Catanzaro, il quale ha riconosciuto in capo all'imputato, tra gli altri, il reato di tentata violenza privata aggravata dal metodo mafioso. In particolare, le espressioni devi lasciarlo stare con queste denunce altrimenti ti mettiamo le bombe , che rimanda al compimento di attentati dinamitardi secondo la tecnica mafiosa che prevede l'uso di esplosivi e, Tizio ci appartiene, dà da mangiare a noi e alle nostre famiglie , che implicitamente allude a contiguità con contesti di criminalità organizzata, debbono qualificarsi, secondo la Corte, come minacce di tipo mafioso”. Esse, infatti, consistono in espressioni intimidatorie, oggettivamente idonee a richiamare nella mente della vittima la rappresentazione di vendette e rappresaglie tipiche del modus operandi delle associazioni di stampo mafioso. Rilevanza delle circostanze concrete contesto sociale e territoriale in cui la minaccia viene attuata. La Corte precisa, inoltre, che non è necessario che l'associazione mafiosa, che costituisce logico presupposto della più grave condotta dell'agente sia, ontologicamente presente nella realtà fenomenica affinché le minacce assumano carattere mafioso è sufficiente che esse siano pronunciate secondo modalità tali che, per le circostanze concrete contesto sociale e territoriale in cui vengono attuate, possano evocare nel soggetto passivo l'esistenza di sodalizi mafiosi e quindi rappresentino un serio e credibile messaggio di danno ingiusto. Chi utilizza o ostenta metodi mafiosi deve essere punito più severamente. La ratio che sottende l'aggravante prevista dall'articolo 7, legge n. 203/1991 aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416 bis c. p. non è solo quella di punire più severamente coloro che commettono reati con il fine di agevolare le associazioni mafiose ma, essenzialmente, quella di contrastare in maniera più decisa l'atteggiamento di chi, partecipe o non di reati associativi, utilizzi metodi mafiosi. Così, coloro i quali si comportino come mafiosi, oppure ostentino in maniera provocatoria una condotta idonea a coartare ed intimidire le vittime, secondo le modalità di intervento proprie delle organizzazioni mafiose, rivelano una maggiore pericolosità ed una maggiore determinazione criminosa che giustifica l’applicazione dell’aggravante .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 28 maggio – 17 ottobre 2014, n. 43509 Presidente Lombardi – Relatore Guardiano Fatto e diritto 1. Con ordinanza adottata il 7.1.2014 il tribunale del riesame di Catanzaro confermava l'ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Catanzaro, in data 25.11.2013, aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di P.M. , gravemente indiziato dei delitti di cui agli artt. 81, cpv., 319, 321, c.p. capo E dell'imputazione provvisoria 56, 610, c.p., 7, I. 203/91, commesso, secondo la prospettazione accusatoria, in danno D.C.P. capo F dell'imputazione provvisoria . 2. Avverso tale ordinanza, di cui chiede l'annullamento, ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del suo difensore di fiducia, il P. , che lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, denunciando 1 la mancata applicazione della disciplina della ed contestazione a catena , di cui all'art. 297, co. 3. c.p.p., con conseguente perdita di efficacia della misura cautelare applicata al P. , ai sensi dell'art. 303, c.p.p Nel rigettare la relativa richiesta difensiva, il tribunale del riesame ha rilevato, da un lato l'insussistenza di un rapporto di connessione qualificata tra le ipotesi di reato per le quali è stata emessa l'ordinanza coercitiva del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Catanzaro corruzione nei confronti di un funzionario della polizia di Stato, per indurlo ad evitare di operare verifiche nei confronti dell'istituto di vigilanza privata gestito dal P. e, comunque, un esito favorevole degli accertamenti demandati all'ufficio presso cui era addetto il suddetto funzionario, nonché una tentata violenza privata, aggravata dal metodo mafioso, commessa al fine di costringere D.C.P. , titolare di un istituto di vigilanza privata in concorrenza con quello del ricorrente, dal continuare a denunciarlo e quelle estorsioni e danneggiamento posti in essere in danno della società Snam di omissis e del titolare dell'istituto di vigilanza privata Sudpol , concorrente di quello di cui era titolare il P. , allo scopo di ottenere la risoluzione del contratto di vigilanza stipulato tra le anzidette società, in modo da assicurare all'impresa del ricorrente la gestione del servizio di vigilanza garantito alla Snam dalla Sudpol , relativi all'ordinanza cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Vibo Valentia dopo la consumazione dei delitti in precedenza indicati, ma prima dell'adozione dell'ordinanza coercitiva da parte del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Catanzaro dall'altro che, trattandosi di fatti oggetto di distinti procedimenti penali, pendenti presso diverse autorità giudiziarie, non è invocabile la disciplina della retrodatazione dell'efficacia della misura cautelare, ai sensi dell'art. 297, co. 3, c.p.p Osserva, al riguardo il ricorrente, partendo dal presupposto incontestabile dell'essere stati commessi, i reati di cui alla seconda ordinanza cautelare, prima dell'adozione dell'ordinanza coercitiva da parte del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Vibo Valentia, che tra i reati oggetto delle due ordinanze cautelari esiste un rapporto di connessione qualificata, in quanto in entrambi i casi si contesta al P. di avere illecitamente agito in danno di titolari, ovviamente diversi, di imprese concorrenti per eliminarle dal mercato della vigilanza privata nonché, in relazione all'episodio corruttivo di cui al capo E , come il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Catanzaro abbia posto a fondamento della propria decisione un'intercettazione ambientale che era già stata acquisita agli atti in possesso della procura della Repubblica presso il tribunale di Vibo Valentia, nell'ambito del procedimento penale in cui è stata adottata l'ordinanza di custodia cautelare nei confronti del P. per le vicende estorsive, e, più in generale, che tutti i fatti contestati all'indagato erano noti all'ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale di Vibo Valentia, perché descritti nella denuncia presentata in quella sede dalla persona offesa dal reato di cui al capo F , D.C.P. , il 4.9.2009, avendo il pubblico ministero indebitamente trattenuto presso di sé il procedimento solo per alcuni reati, laddove avrebbe dovuto trasmette al pubblico ministero presso il tribunale di Catanzaro l'intero procedimento, in relazione a tutti i reati individuati, trattandosi di fatti connessi 2 la omessa considerazione da parte del tribunale del riesame, con riferimento alla sussistenza del requisito dei gravi indizi di colpevolezza, della esistenza di motivi di astio del D.C. nei confronti del P. , che minano la genuinità delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, determinati dalla concorrenza delle loro rispettive imprese nel medesimo settore della vigilanza privata, circostanza che avrebbe dovuto spingere il tribunale del riesame alla ricerca di elementi di riscontro, sicuramente non individuabili nelle dichiarazioni del Pa. , dipendente del D.C. 3 l'insussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 7, l. 203/91, in relazione alla frase pronunciata dal B. , che, in compagnia del ricorrente, aveva intimato al D.C. di lasciare state il P. . 3. Il ricorso non può essere accolto, essendo del tutto infondati i motivi che lo sostengono, con cui, peraltro, il ricorrente ripropone le medesime doglianze già prospettate in sede di impugnazione cautelare, dove sono state disattese dal tribunale del riesame con motivazione approfondita ed immune da vizi. 4. Ed invero, con particolare riferimento alle doglianze indicate sub n. 1 , va ribadito il principio da tempo affermato nella giurisprudenza di legittimità, puntualmente richiamato in motivazione dal tribunale del riesame, secondo cui in tema di contestazione a catena , quando nei confronti di un imputato sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista dall'art. 297 comma 3 c.p.p. opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza. Nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino, invece, come nel caso in esame, fatti tra i quali non sussiste la suddetta connessione e gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima, solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria, ipotesi non ricorrente, come si è visto, nella fattispecie in esame, e la loro separazione può essere frutto di una scelta del p.m. cfr., Cass., sez. un., 19/12/2006, n. 14535, rv. 235909 . Come ulteriormente chiarito dal Supremo Collegio, infatti, la diversità di competenza delle autorità giudiziarie fa ritenere che i procedimenti non avrebbero potuto essere riuniti e che quindi la sequenza di provvedimenti cautelari non può essere frutto di una scelta del pubblico ministero per ritardare la decorrenza della seconda misura cfr. Cass., sez. II, 16/10/2013, n. 51838, rv. 258104 . Fondato appare il rilievo, sul quale il tribunale si sofferma con approfondita motivazione, esente da vizi, sulla inesistenza, tra i reati oggetto delle due ordinanze coercitive innanzi menzionate, del rapporto di connessione qualificata, nei termini indicati dall'art. 297, co. 3, c.p.p., che costituisce uno dei presupposti per l'applicazione della disciplina sulla retrodatazione dell'efficacia della misura cautelare. Appare, infatti, corretta l'osservazione svolta al riguardo dal tribunale del riesame, secondo cui tra i due gruppi di reati, non può ritenersi configurabile nessuna delle ipotesi di connessione previste dall'art. 12, co. 1, lett. b e c , c.p.p., richiamate dal citato art. 297, co. 3, c.p.p Ed invero non può sostenersi, in tutta evidenza, che i reati in questione siano stati commessi con una sola azione od omissione, né che alcuni di essi siano stati realizzati allo scopo di eseguire gli altri, trattandosi, come rilevato dal tribunale del riesame, di una serie di reati autonomi, sotto il profilo dello scopo e dell'occasione, univocamente deponenti solo per un'abitualità del reato cfr. p. 5 dell'impugnata ordinanza . Né, d'altro, canto emergono elementi tali da indurre a considerare i reati di cui si discute sorretti da un unico disegno criminoso, che, come è noto, presuppone l'anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già presenti nella mente del reo nella loro specificità cfr. Cass., sez. IV, 17.12.2008, n. 16066, rv. 243632 , laddove, nel caso in esame, può solo sostenersi la configurabilità di un generale interesse del P. ad assicurare alla propria impresa una posizione di predominio sul mercato attraverso condotte illecite, insufficiente, da solo, a desumere l'identità del disegno criminoso. 4.1 Con particolare riferimento alle doglianze indicate sub n. 2 , va ribadito il principio da tempo affermato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di misure cautelari personali, le dichiarazioni accusatorie della persona offesa, ancorché costituita parte civile, possono integrare i gravi indizi necessari per l'applicazione della custodia cautelare in carcere cfr. Cass., sez. V, 26/04/2010, n. 27774, rv. 247883 . Peraltro, come è stato ulteriormente chiarito, ai fini dell'adozione di una misura coercitiva, la sussistenza di una prova diretta, come le dichiarazioni rese dalla persona offesa, esclude la necessità di fare ricorso al concetto di gravità inerente alla prova logica costituente l'indizio, non occorrendo né la verifica di attendibilità intrinseca né il riscontro esterno, stante il diverso e più soddisfacente grado di prova acquisita cfr. Cass., sez. Ili, 14/04/2010, n. 17205, rv. 246995 . Orbene, nel caso in esame, il giudice dell'impugnazione cautelare ha proceduto ad un approfondito esame delle dichiarazioni della persona offesa, della cui narrazione ha evidenziato la precisione, la coerenza e la logicità, giungendo, motivatamente, ad una conclusione positiva in ordine alla credibilità personale di quest'ultimo ed all'attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni cfr. pp. 6-9 dell'ordinanza impugnata . Rispetto a tale limpido argomentare, il dubbio insinuato dalla difesa del ricorrente sulla mancanza di genuinità delle dichiarazioni della persona offesa, in quanto portatrice di uno specifico interesse economico contrastante con quello del P. , trattandosi di titolari di imprese concorrenti, si appalesa come una censura di merito, peraltro del tutto ipotetica, non consentita in questa sede ed alla quale, comunque, il tribunale del riesame ha fornito risposta più che adeguata attraverso l'approfondito esame, nei termini in precedenza indicati, delle dichiarazioni del D.C. . Inconferenti appaiono, inoltre, i rilievi difensivi sul contenuto delle dichiarazioni di Pa.Gi. , già dipendente del D.C. , utilizzate dal tribunale del riesame come riscontro della narrazione della persona offesa in ordine all'avvenuto incontro con il B. ed il P. , che, ad avviso del ricorrente, non solo non avrebbero valore di conferma, ma, anzi, smentirebbero l'assunto accusatorio, rivelando che le ragioni dell'incontro erano dovute alla necessità per il D.C. di ottenere dal B. il cambio di un assegno post-datato. Si tratta, infatti, di censure inammissibili, sia perché attinenti al merito, sia in quanto dedotte senza allegare in forma integrale le suddette dichiarazioni, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, risultando, peraltro, tali censure irrilevanti con riferimento al requisito della attendibilità estrinseca delle dichiarazioni della persona offesa, non necessaria ai fini di integrare il requisito dei gravi indizi di colpevolezza cfr. Cass., sez. V, 20.12.2013, n. 5609, rv. 258870 4.3. Infondato, infine, risulta del pari l'ultimo motivo di ricorso, avendo il tribunale del riesame, attraverso un condivisibile percorso argomentativo, evidenziato come le minacce rivolte dal B. al D.C. , in presenza del P. , siano di tipo mafioso , consistendo nella rappresentazione di rappresaglie intimidatorie tipiche del modus operandi delle associazioni di stampo mafioso ossia il compimento di attentati dinamitardi con l'uso di esplosivi devi lasciarlo stare con queste denunce altrimenti ti mettiamo le bombe agli abbonati ovvero in implicite allusioni di contiguità a contesti di criminalità organizzata P. ci appartiene, dà da mangiare a noi ed alle nostre famiglie , che, tenuto conto del contesto territoriale di riferimento, in cui la consapevolezza dell'agire della criminalità organizzata è diffusa in ogni strato sociale , appaiono oggettivamente idonee a richiamare nella mente della vittima l'esistenza dei pericolosi sodalizi criminali che notoriamente dominano il territorio cfr. p. 9 dell'impugnata ordinanza . Anche in questo caso la decisione del giudice dell'impugnazione cautelare deve ritenersi conforme all'approdo interpretativo cui è giunta in subiecta materia la giurisprudenza della Suprema Corte, condivisa dal Collegio, secondo cui la circostanza aggravante di avvalersi delle condizioni previste dall'art. 416 bis, c.p., una delle due ipotesi previste dall'art. 7, l. 203 del 1991, ricorre quando l'agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica - non necessariamente su una o più persone determinate, ma, all'occorrenza, anche su un numero indeterminato di persone, conculcate nella loro libertà e tranquillità - con i caratteri propri dell'intimidazione derivante dall'organizzazione criminale della specie considerata. In tal caso non è necessario che l'associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell'agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per sé tale da evocare nel soggetto passivo l'esistenza di consorterie e sodalizi mafiosi, amplificatori della valenza criminale del reato commesso, la cui effettiva operatività in una determinata zona, come nel caso in esame, rafforza il carattere mafioso dell'intimidazione posta in essere cfr., ex plurimis, Cass., sez. I, 18.3.1994, n. 1327, rv. 197430 Cass., sez. I, 26.11.2008, n. 4898, rv. 243346 . 5. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso di cui in premessa va, dunque, rigettato, con condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.