Limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione delle ordinanze applicative: la Cassazione detta le regole

La seconda sezione della Corte di Cassazione, stimolata ancora una volta in relazione al tema delicatissimo inerente la necessità ed i contenuti della motivazione da rendersi in tema di adozione di misura cautelare personale, produce e promulga quelle che ben possiamo definire delle linee guida sul tema.

La volontà della Corte sent. n. 33870/14, depositata il 31 luglio si manifesta ed appalesa persino graficamente posto che le considerazioni in diritto hanno inizio proprio sotto il titolo, riportato in grassetto e neretto i limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione delle ordinanze applicative di misure cautelari personali . Un incipit che lascia spazio a ben pochi dubbi circa la volontà della Cassazione. La prima regola. In tema di misure cautelari personali allorché sia denunciato con ricorso per cassazione vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Cassazione spetta il compito di verificare se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indiziari, rispetto ai canoni della logica ed ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie, nella peculiare prospettiva dei procedimenti incidentali de libertate . Principio espresso da giurisprudenza costante e contenuto in pronuncia resa dalla Sezione Unite n. 11/2000. Ai sensi del disposto dell’art. 309 c.p.p. e con riguardo alla sua finzione di mezzo di impugnazione seppur atipico di sottoporre a controllo la validità dell’ordinanza cautelare in relazione ai requisiti formali indicati nell’art. 292 c.p.p., ovvero costruita con riferimento a quei criteri cui il Legislatore ha voluto rispondesse il provvedimento tipico dell’ordinanza ovviamente tenuto nel dovuto conto che nel caso di specie si tratta di far riferimento d’indizi e non di prove. Così del resto la Corte di Cassazione si era espressa a sezione unite sin dal lontano 1995 sent. n. 11/1995 . La seconda regola. Il ricorso è inammissibile allorché proponga censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito. L’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari è, quindi, rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge o nella manifesta illogicità della motivazione secondo la logica ed i principi di diritto riferiti al contenuto ed al tenore del provvedimento impugnato senza che essi abbiano alcun riguardo alla ricostruzione dei fatti. La terza regola. È inammissibile il ricorso avverso il provvedimento del tribunale del riesame che deduca per la prima volta vizi di motivazione inerenti argomenti presenti nel provvedimento genetico della misura coercitiva che non avevano costituito oggetto di doglianza dinanzi allo stesso Tribunale. Posto che di essi elementi non risulterebbe traccia né dal esito dell’ordinanza impugnata né da eventuali motivi o memorie scritte, né dalla verbalizzazione delle ragioni addotte a sostegno delle conclusioni formulate nell’udienza camerale. Il modello di ricorso per Cassazione. La lettura della sentenza, che poi si produce in una serie di valutazioni inerenti la vicenda processuale, disegna in modo davvero preciso i contenuti ed i contorni che deve possedere il ricorso per cassazione finalizzato ad evidenziare i vizi di motivazione delle ordinanze applicative di misure cautelari personali. Esso deve riguardare esclusivamente argomenti oggetto di lagnanze formate e formulate dal difensore, o dall’imputato, sin dal momento genetico della misura, riferirsi esclusivamente a quanto su detti argomenti è stato prospettato dal Giudice, al ragionamento logico giuridico che sottende le valutazioni espresse, alla esposizioni del medesimo secondo i canoni ed i dettami dell’articolo 292 c.p.p., non contenere alcun riferimento alla possibile sussistenze di altre e differenti ricostruzioni dei fatti non sottoposte al Giudice e/o che questi abbia rifiutato e che pertanto siano inesistenti nel provvedimento ritenuto. La Cassazione interpreta il diritto, traccia le linee e, last but not least , produce e promulga i modelli di ricorso. Prendiamone atto.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 6 maggio – 31 luglio 2014, n. 33870 Presidente Gentile – Relatore Rago Ritenuto in fatto Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria ha sostituito nei confronti di C.G. la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari. C.G. era stato sottoposto a cautela perché gravemente indiziato del reato di cui all'art. 629 c.p., aggravato ex art. 7 L. 203/1991, ovvero perché, in concorso con G.M. , in tempi diversi, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, costringevano M.C. , mediante minaccia, a restituire a C.G. le somme precedentemente corrisposte a saldo del contratto di intermediazione stipulato, in data 9 luglio 2011, tra C.D. figlio di C.G. e la FederPetroli. In particolare, successivamente alla stipula del predetto contratto C.G. intimava a M.C. il rimborso tutte le somme precedentemente corrisposte, con la minaccia che, in caso contrario, avrebbe preso le palle di suo figlio S. e gliele avrebbe latte trovare fuori la porta e, successivamente e in tempi diversi, minacciava telefonicamente di morte sia lui che i suoi familiari e lo terrorizzava rivolgendogli frasi del seguente tenore ti spezzo le gambe, non ti faccio più camminare, tu non sai con chi hai a che fare, non mi interessa nulla che tua moglie è ammalata di tumore perché se vengo a trovarti a Padova non risparmierò neppure lei G.M. , su mandato di C.G. , contattava ripetutamente il M. per sollecitarlo alla restituzione delle somme versate dal predetto C. , rappresentandogli in modo allusivo che quest'ultimo faceva parte di una famiglia molto importante a che lo avrebbe fatto ammazzare e che, pertanto, gli sarebbe convenuto corrispondergli quanto richiestogli anche se si trattava di somme non dovutegli in base agli accordi contrattuali costringendo così M.C. ad effettuare, in favore di C.G. , tre vaglia postali emessi, rispettivamente, in data 16 marzo 2013. in data 21 marzo 2013 e in data 5 aprile 2013, per l'importo di Euro 500.00 ciascuno, conseguendo così un ingiusto profitto con altrui danno. Con l'aggravante dell'aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. ovvero rappresentando, con chiare modalità intimidatorie, da un lato, l'intervento di conoscenti e/o amici di origini calabresi e, dall'altro, la caratura criminale della famiglia di provenienza di C.G. , avvalendosi così della forza di intimidazione che scaturiva dal prospettare il coinvolgimento di soggetti potenzialmente appartenenti e/o vicini all'associazione di tipo mafioso denominata 'ndrangheta e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano. Con la recidiva reiterata ed infraquinquennale per C.G. . Reati commessi in omissis ”. Contro tale provvedimento, l'imputato con l'ausilio di un avvocato iscritto all'apposito albo speciale ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p. I - violazione degli artt. 273 c.p.p. - 629 c.p. - 7 l. n. 203 del 1991 - 393 c.p. sarebbe illogico l'aver ritenuto attendibili sia le versioni della difesa quanto alla genesi del rapporto contrattuale inter partes sia quella della p.o. quanto alle minacce estorsive ed alla loro entità nulla avvalorerebbe la contestazione della aggravante di cui all'art. 7 cit., non potendo attribuirsi rilevo ad una passata ed ultradecennale frequentazione con qualche pregiudicato. In data 29 aprile 2014 sono stati presentati motivi nuovi, con i quali - sia pur all'esito di sedici pagine di deduzioni - vengono riproposte le doglianze già costituenti motivo di ricorso. All'odierna udienza camerale, si è proceduto al controllo della regolarità degli avvisi di rito all'esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa Corte Suprema, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti. Considerato in diritto Il ricorso è, nel suo complesso, infondato. I limiti del sindacato di legittimità' sulla motivazione delle ordinanze applicative di misure cautelari personali. 1. È necessario preliminarmente determinare i limiti entro i quali questa Corte Suprema può esercitare il sindacato di legittimità sulla motivazione delle ordinanze applicative di misure cautelari personali. 1.1. Secondo l'orientamento che il Collegio condivide e reputa attuale anche all'esito delle modifiche normative che hanno interessato l'art. 606 c.p.p. cui l'art. 311 c.p.p. implicitamente rinvia , in tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte Suprema spetta il compito di verificare se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell'indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti, rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie, nella peculiare prospettiva dei procedimenti incidentali de libertate” Cass. pen., Sez. un., sentenza n. 11 del 22 marzo 2000, CED Cass. n. 215828 nel medesimo senso, dopo la novella dell'art. 606 c.p.p., Sez. IV, sentenza n. 22500 del 3 maggio 2007, CED Cass. n. 237012 . Considerato che la richiesta di cui all'art. 309 c.p.p., quale mezzo di impugnazione sia pure atipico, ha la specifica funzione di sottoporre a controllo la validità dell'ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell'art. 292 c.p.p. e ai presupposti ai quali subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo Cass. pen., Sez. Un., sentenza n. 11 dell'8 luglio 1994, CED Cass. n. 198212 , si è sottolineato che, dal punto di vista strutturale, la motivazione della decisione del tribunale del riesame deve essere conformata al modello delineato dall'art. 292 c.p.p., che ricalca il modulo configurato dall'art. 546 c.p.p., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, che non è fondata su prove ma su indizi e tende all'accertamento non di responsabilità ma di una qualificata probabilità di colpevolezza Cass. pen., Sez. Un., sentenza n. 11 del 21 aprile 1995, CED Cass. n. 202002 . 1.2. Si è, più recentemente, osservato, sempre in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, che il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito Cass. pen., Sez. V, sentenza n. 46124 dell'8 ottobre 2008, CED Cass. n. 241997 Sez. VI, sentenza n. 11194 dell'8 marzo 2012, CED Cass. n. 252178 . L'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza art. 273 c.p.p. e delle esigenze cautelari art. 274 c.p.p. è, quindi, rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge o nella manifesta illogicità della motivazione secondo la logica ed i principi di diritto, rimanendo all'interno del provvedimento impugnato il controllo di legittimità non può, infatti, riguardare la ricostruzione dei fatti. Sarebbero, pertanto, inammissibili le censure che, pur formalmente investendo la motivazione, si risolvano nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito, dovendosi in sede di legittimità accertare unicamente se gli elementi di fatto sono corrispondenti alla previsione della norma incriminatrice. 1.3. Deve aggiungersi che sarebbe inammissibile anche il ricorso avverso il provvedimento del Tribunale del riesame che deduca per la prima volta vizi di motivazione inerenti ad argomentazioni presenti nel provvedimento genetico della misura coercitiva che non avevano costituito oggetto di doglianza dinanzi allo stesso Tribunale, non risultandone traccia né dal testo dell'ordinanza impugnata, né da eventuali motivi o memorie scritte, né dalla verbalizzazione delle ragioni addotte a sostegno delle conclusioni formulate nell'udienza camerale Cass. pen., Sez. I, sentenza n. 2927 del 22 aprile 1997, CED Cass. n. 207759 Sez. I, sentenza n. 1786 del 5 dicembre 2003 - 21 gennaio 2004, CED Cass. n. 227110 Sez. II, sentenza n. 42408 del 21 settembre 2012, CED Cass. n. 254037 , a nulla rilevando, in senso contrario, il fatto che il riesame sia un mezzo di impugnazione totalmente devolutivo, poiché in mancanza di specifiche deduzioni difensive il Tribunale in sede di riesame legittimamente può limitarsi, , a concordare pienamente con la ricostruzione della sussistenza del quadro indiziario risultante dalla richiesta del PM e dall'ordinanza del GIP, riassumendo, poi, i punti essenziali di tale quadro indiziario”. 1.4. Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l'odierno ricorso. 2. Deve premettersi che l'assunto iniziale del ricorrente appare del tutto destituito di fondamento la motivazione dal Tribunale del riesame f. 3 ss. f. 13 ss. appare certamente non illogica, quanto alla ricostruzione della genesi della vicenda contrattuale sottostante alle vicende de quibus si ammette, in concreto, che C.D. , figlio dell'odierno indagato, sarebbe rimasto vittima di una truffa contrattuale ordita in suo danno da M.C. , odierna p.o., fisiologicamente reticente in proposito , oltre che delle successive vicende, oggetto dell'odierno procedimento, ricostruite essenzialmente attraverso il racconto del M. , motivatamente ritenuto in parte qua attendibile. Lo stesso indagato, a ben vedere, non nega di essere autore delle condotte delle quali è accusato - non avendo, peraltro, in proposito dimostrato nei modi di rito alcun travisamento - ma insiste nell'enfatizzare le pregresse condotte truffaldine del M. come se lo legittimassero a qualsiasi tipo di reazione, il che non è , oltre che nel contestare la qualificazione dei fatti accertati - quantomeno al livello di quella gravità indiziaria ad un tempo necessaria e sufficiente nell'ambito del sub procedimento cautelare - come estorsione in luogo che come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone. In ordine a tale ultimo profilo, il ricorso è ammissibile, pur se infondato. 2.1. È necessario premettere che, a parere del collegio, i delitti di cui agli articoli 393 e 629 c.p. si distinguono in relazione all'elemento psicologico nel primo, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria nell'estorsione, invece, l'agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto Sez. II, sentenza n. 22935 del 29 maggio - 12 giugno 2012, CED Cass. n. 253192 . Per ritenere configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, occorre, pertanto, che l'agente sia soggettivamente - pur se erroneamente - convinto dell'esistenza del proprio diritto, e che detto diritto riceva astrattamente tutela giurisdizionale Sez. II, sentenza n. 12329 del 4. - 29 marzo 2010, CED Cass. n. 247228 . Il collegio è consapevole dell'esistenza di un opposto orientamento, che valorizza, ai fini della predetta distinzione, la materialità del fatto cfr., tra le altre, Sez VI, sentenza n. 32721 del 21 giugno - 7 settembre 2010, CED Cass. n. 248169, per la quale Ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione nel caso che il soggetto possa far valere il suo diritto dinanzi all'autorità giudiziaria, occorre avere riguardo al grado di gravità della condotta violenta o minacciosa che, se manifestata in modo gratuito o sproporzionato rispetto al fine, ovvero tale da non lasciare possibilità di scelta alla vittima, integra gli estremi del più grave delitto di estorsione” , ma reputa tale orientamento non rispondente al dato normativo, poiché gli articoli 393 e 629 c.p. inequivocabilmente descrivono la materialità degli elementi costitutivi dei reati de quibus in termini identici, evocando i medesimi concetti di violenza” o minaccia”, senza alcun riferimento al quantum di forza coercitiva impiegata dal soggetto agente. E, d'altro canto, c'è un ulteriore dato normativo a quanto risulta fin qui ingiustificatamente trascurato dalla giurisprudenza invero, sia l'art. 393, comma 3, c.p. che l'art. 629, comma 2, c.p. in quest'ultimo caso, mediante richiamo dell'art. 628, comma 3, n. 1 c.p. prevedono che la pena è aumentata se la violenza o minaccia è commessa con armi”. Il riferimento appare decisivo, atteso che, a parere dell'orientamento che qui si contesta, la violenza o minaccia alla persona commessa con armi, all'evidenza di particolare gravità, in ipotesi in relazione all'arma adoperata ma la circostanza aggravante speciale de qua non legittima distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco sproporzionata rispetto al fine, e comunque sempre tale da non lasciare possibilità di scelta alla vittima secondo l' id quod plerumque accidit , disarmata , dovrebbe sempre integrare gli estremi del più grave delitto di estorsione, il che, per legge, non è. I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione si distinguono, pertanto, non per la materialità del fatto, che può essere identica, ma per l'elemento intenzionale che, qualunque sia stato il livello di intensità o gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto quando abbia di mira l'attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all'autorità giudiziaria cosi, da ultimo, Sez. II, sentenza n. 51433 del 4-19 dicembre 2013 alla speciale veemenza della comportamento violento o minaccioso potrà, al più, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione, null'altro. Va, conclusivamente, ribadito il seguente principio di diritto, già affermato da questa Sezione sentenza n. 705 del 10 gennaio 2014, CED Cass. n. 258071 I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione la cui materialità è descritta dagli artt. 393 e 629 cod. pen. nei medesimi termini si distinguono in relazione all'elemento psicologico nel primo, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria nel secondo, invece, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. In motivazione la Corte ha evidenziato che l'elevata intensità o gravità della violenza o della minaccia di per sé non legittima la qualificazione del fatto ex art. 629 cod. pen. e tale lettura è confermata dal fatto che il legislatore prevede che l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni possa essere - come l'estorsione - aggravato dall'uso di armi ”. 2.2. Nel caso di specie, peraltro, pur dovendosi escludere la possibilità di attribuire - ai fini della qualificazione giuridica dei fatti come provvisoriamente accertati - decisivo rilievo all'entità delle minacce rivolte in danno della p.o., sarebbe inaccoglibile la pretesa desumibile in particolare dalle argomentazioni esposte nei motivi nuovi, e che sembra essenzialmente rifarsi ad un recente precedente di questa sezione, che il collegio condivide, se correttamente interpretato , di ricondurre tutte le vicende del genere di quelle in oggetto alla fattispecie di cui all'art. 393 c.p 2.2.1. Il Tribunale ha ritenuto che, nel caso di specie, non può non considerarsi che gli indagati hanno dimostrato una forma intimidatoria rilevante, tipicamente mafiosa che induce il Collegio a riportare tutta la complessiva condotta nell'ambito della fattispecie estorsiva, confermando la ricostruzione giuridica operata dal GIP. Elementi cui ancorare tale argomentazioni sono costituiti non solo dalla deliberata volontà degli indagati di raggiungere il proprio obiettivo anche considerato nella loro ottica legittimo , quale la restituzione della somma versata di 15000 Euro, con modalità eccessive che esulano da ogni, anche minimo ricorso, agli strumenti di accordo pacifico o giudiziale e che si spingono tino all'evocazione non solo del male maggiore per le persone offese la morte ma anche al probabile intervento a sostegno di una consorteria criminosa mafiosa, in grado di sostenere le pretese, che per le loro intimidatorie e sproporzionate, modalità appaiono certamente ingiuste nei confronti del M. e della di lui famiglia. L'attività posta in essere dagli indagati, tra cui l'odierno ricorrente, pertanto, integra gli estremi del reato di estorsione continuata, trattandosi di una condotta strumentale al conseguimento di un ingiusto profitto. Del resto, per come sopra rilevato, l'esame della scrittura privata stipulata, in data 9 luglio 2011, tra C.D. figlio di C.G. e la FederPetroli Italia, il cui contenuto era volutamente generico, porta il Collegio a considerare, per come anche l'atto dal GIP, il corrispettivo di Euro 15.000, previsto in favore della suddetta società in alcun modo condizionato dalle successive vicende inerenti la gestione dell'impianto di distribuzione essendo convenuto esclusivamente per retribuire l'attività di intermediazione ed assistenza dalla medesima svolta nell'individuazione dell'impianto e nella stipula del contratto con la società petrolifera. La richiesta dell'integrale restituzione della somma di 15.000, da C.G. complessivamente corrisposta al M. in esecuzione del citato contratto di intermediazione, costituisce pertanto una pretesa indebita, espressa anche in modalità tali che, secondo la giurisprudenza sopra richiamata, inducono il Collegio a ritenerla sussunta nella fattispecie contestata di estorsione”. 2.2.2. Trattasi di argomentazioni solo in parte condivisibili. Invero, il Tribunale sembra evocare la problematica civilistica del se, e in che termini, spetti al mediatore la provvigione nei casi in cui il contratto si riveli poi affetto da una causa di invalidità tuttavia, nel caso di specie, se è vero che il M. pose in essere raggiri ed artifici per far concludere a C.D. il contratto al fine di percepire l'importo stabilito per la mediazione, appare evidente che il predetto C. , rimasto vittima di una vera e propria truffa contrattuale, avrebbe certamente il diritto a vedersi restituire l'intero importo versato in esecuzione di un contratto che - com'è tipico della c.d. truffa contrattuale -, in difetto dell'inganno del quale era rimasto vittima non avrebbe stipulato. 2.2.3. Peraltro, correttamente, infatti, il Tribunale del riesame ha valorizzato, quali indici del dolo di estorsione, una serie di elementi invero inequivocabili. Invero,le minacce - erano state formulate in danno della p.o. non dall'interessato C.D. , ma da terzi estranei al rapporto obbligatorio de quo il padre G. e G.M. - riguardavano non il truffatore-debitore M.C. , ma terzi a loro volta estranei al rapporto obbligatorio de quo, ed ignari il figlio S. - le cui palle l'indagato si era ripromesso di far ritrovare al M. fuori la porta di casa- la moglie, pur ammalata di tumore e ciononostante minacciata di morte - erano state formulate con metodo mafioso per modalità, contenuto ed evocazione dell'appartenenza di C.G. ad una famiglia malavitosa molto importante in . È pur vero che, di volta in volta, la giurisprudenza di questa Corte Suprema ha ritenuto di per sé non incompatibile con il reato di cui all'art. 393 c.p. il fatto che la condotta illecita fosse posta in essere da terzi estranei al rapporto obbligatorio sottostante, ovvero in danno di terzi estranei al rapporto obbligatorio sottostante, ma nel caso di specie le predette circostanze - entrambe concorrenti -, se valutate tenendo conto, come osservato dal Tribunale f. 15 ss. della portata delle minacce che, per come dichiarato in modo credibile dalla persona offesa e riscontrato, si sono estrinsecate in forma tale, attraverso l'evocazione di una famiglia calabrese delinquenziale di tipo mafioso, da incutere una forza intimidatoria che va al di là del recupero di somme sulla base di un preteso diritto”, appaiono costituire indici inequivocabili del dolo di estorsione, ovvero della coscienza e volontà di coartare irresistibilmente la volontà della p.o., onde vincerne ogni possibile resistenza, inducendola a non avvalersi degli ordinari rimedi civilistici ovvero a non contestare in alcun modo l'avversa pretesa, a non formulare eccezioni né domande riconvenzionali e ad accondiscendere supinamente alle avverse pretese. Ciò integra per i soggetti agenti il profitto indebito, e per la p.o. il danno ingiusto, richiesti dall'art. 629 c.p Va, in proposito, formulato il seguente principio di diritto Integra gli estremi dell'estorsione e non dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alle persone , aggravata dall'aggravante del c.d. metodo mafioso, la condotta consistente in minacce, formulate da terzi estranei al rapporto obbligatorio sottostante, ed in danno di terzi congiunti del debitore, a loro volta estranei al rapporto obbligatorio sottostante, quando le minacce siano particolarmente gravi la moglie del debitore, ammalata di cancro, era stata ciononostante minacciata di morte il figlio, di gravi lesioni agli organi genitali e si siano estrinsecate attraverso l'evocazione dell'appartenenza di uno degli indagati ad una famiglia calabrese delinquenziale di tipo mafioso, in tal modo esercitando una forza intimidatoria estrema, indice del fine di procurare al creditore un profitto ingiusto con danno del debitore indotto ad accondiscendere supinamente alle avverse pretese, senza avvalersi degli ordinari rimedi civilistici, ovvero a non contestare in alcun modo l'avversa pretesa, ed a non formulare eccezioni né domande riconvenzionali , senz'altro esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto”. 2.2.4. Quanto alla circostanza aggravante di cui all'art. 7 cit., il Tribunale ha posto in rilievo numerosi indici, tra i quali appaiono sufficienti a legittimare la contestazione le modalità ed il contenuto delle minacce rivolte ai congiunti del debitore di morte e di amputazione di arti vitali, secondo una dinamica motivatamente ritenuta tipicamente mafiosa , oltre che l'evocazione dell'appartenenza di C.G. ad una famiglia malavitosa molto importante di . 3. Il rigetto, nel suo complesso, del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.