Dissesto della Fondazione San Raffaele: il concorrente estraneo doveva conoscerlo?

Il dissesto non è evento” in senso tecnico del reato di bancarotta, salvi i casi di bancarotta impropria dove espressamente previsto dall’art. 223, comma 2, l. fall La dichiarazione di fallimento o di apertura della procedura concorsuale, pertanto, è presupposto del reato, condizione della rilevanza penale della condotta, ma non elemento costitutivo, con la duplice conseguenza che 1. è irrilevante il nesso eziologico tra condotta distrattiva e insolvenza e, conseguentemente 2. il dolo non attinge alla consapevolezza di tale dissesto.

Il caso. Una complessa e tormentata vicenda giudiziaria ma anche societaria e sociale , nota alla cronaca e ai soggetti indirettamente raggiunti dallo scandalo, quali i lavoratori del settore sanitario, ha coinvolto soggetti gravitanti attorno alla Fondazione San Raffaele. Tra i filoni processuali che sono derivati, vi è quello in cui sono stati contestati i reati di associazione a delinquere e di bancarotta fraudolenta in capo a soggetti intranei” alla Fondazione stessa e a soggetti estranei”. Nel dettaglio, la posizione di un soggetto extraneus è stata oggetto di attenzione da parte dei giudici milanesi che hanno pronunciato sentenza di condanna in quanto accertato che l’imputato aveva ricevuto disponibilità finanziarie, distratte o dissipate dalla Fondazione già ammessa a concordato preventivo, in concorso con soggetti estranei e interni all’ente medesimo. Lo stato di insolvenza non è elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta, ma solo presupposto. La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che il dissesto stia al di fuori della struttura essenziale del reato e, dunque, non ne costituisca elemento costitutivo . Per tali ragioni, lo stato di insolvenza non è evento in senso tecnico, con l’ulteriore conseguenza che è irrilevante il collegamento eziologico tra la condotta denunciata e lo stato di insolvenza. Un isolato precedente radicalmente difforme. La sentenza Corvetta, richiamata dal ricorrente, identifica lo stato di insolvenza che abbia generato la dichiarazione di fallimento o l’ammissione al concordato preventivo, come nel caso in verifica, come elemento essenziale del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in tal senso ha affermato che il dissesto non può che essere qualificato come evento del reato. Condizione di esistenza e non elemento costitutivo c’è differenza A tali conclusioni la pronuncia evocata era giunta spolverando una serie di pronunce che qualificavano il fallimento come elemento costitutivo dei reati di bancarotta, arresti che si aggrappavano ad una decisione delle Sezioni Unite del 1958 in effetti mai smentita esplicitamente . Tuttavia, un esame accurato delle decisioni richiamate evidenzia che il fallimento non era definito come elemento costitutivo ma come condizione di esistenza del reato , vale a dire come componente necessaria ad attribuire rilevanza penale a un fatto, ma non elemento costitutivo della struttura essenziale della fattispecie. Ne risulta che del tutto impropria è stata l’etichetta di elemento costitutivo data al fallimento, come evidenziato dalla pronunce che hanno espressamente ricondotto il fallimento ad una categoria di elementi della fattispecie diversi da quelli costitutivi in senso tecnico. Estensivamente, inoltre, anche la situazione di insolvenza o dissesto, che costituisce fondamento sostanziale del fallimento, non è qualificabile quale evento dei reati di bancarotta. Anche ragioni sistematiche Depongono contro la tesi del fallimento o dissesto quale evento causalmente collegato alla condotta distruttiva. La Suprema Corte, analizzando con estrema cura il ricorso alla luce della giurisprudenza e delle linee interpretative sul punto, evidenzia come sia arduo affermare un collegamento tra un atto giudiziario - estraneo alle determinazioni e alla disponibilità del soggetto agente - alla condotta dello stesso. Invero, la dichiarazione di fallimento o l’ammissione al concordato preventivo non attengono alla condotta distrattiva, né sono governabili dal soggetto agente, con la conseguenza che non può tracciarsi un nesso tra tale condotta ed un fatto/atto la cui paternità va ricercata altrove. Nessun necessario rapporto eziologico tra insolvenza e condotte distrattive. Se è difficilmente ipotizzabile un rapporto eziologico tra dissesto e condotte di bancarotta documentale, come riconosce la stessa sentenza Corvetta, tanto vale anche per l’ipotesi di bancarotta patrimoniale, giacché il riferimento normativo alla dichiarazione di fallimento è perfettamente analogo nelle due strutture testuali delle incriminazioni. La stessa situazione si riscontra pure nei casi di bancarotta postfallimentare in cui la condotta è temporalmente successiva alla dichiarazione di fallimento, di talché è evidente come sia geneticamente da escludere qualsiasi dipendenza causale del fallimento rispetto alla bancarotta. Casi in cui il rapporto in discussione deve esistere . Le fattispecie di bancarotta impropria, previste dall’art. 223, comma 2, l. fall., espressamente prevedono, invece, un nesso causale tra condotta e dissesto. Si tratta dei casi in cui a compiere atti fraudolenti siano soggetti diversi dal fallito, quali gli amministratori, i direttori generali, i sindaci, i liquidatori di società dichiarate fallite. Si tratta di previsione non soggetta ad estensione analogica ad altre fattispecie che non è stata modificata neppure quando il legislatore è intervenuto sulla normativa a confermare la persistente volontà di riservare il requisito del necessario rapporto causale fra condotta e dissesto solo al ristretto ambito delle ipotesi di bancarotta impropria, con l’effetto di escludere da tale necessità le altre fattispecie di bancarotta. Irrilevante l’incidenza causale della condotta sulla determinazione dello stato di insolvenza fuori dai casi previsti dall’art. 223, comma 2, l. fall Radicato e coerente è l’orientamento giurisprudenziale che discutendo gli aspetti evidenziati afferma che il fallimento integra una condizione necessaria per la configurabilità dei delitti di bancarotta ma non ne costituisce l’evento, salvo nei casi di cui all’art. 223, comma 2, legge cit., dove è espressamente contemplato e previsto come tale. I profili di offensività della condotta addebitata nelle previsioni incriminatrici dei reati di bancarotta sono intrinseci e, nei casi di bancarotta fraudolenta patrimoniale, si manifestano come contrasto alla garanzia generica del patrimonio dell’imprenditore. In casi di condotte distrattive, infatti, la garanzia per i creditori, rappresentata, appunto, dal patrimonio dell’imprenditore è posta in pericolo in quanto le componenti attive del patrimonio stesso sono destinate a finalità diverse da quelle inerenti l’attività imprenditoriale. La dichiarazione di fallimento serve a qualcosa? La risposta non può che essere affermativa. In proposito, la Suprema Corte evidenzia che la dichiarazione di fallimento o le situazioni assimilate quale l’ammissione al concordato qualificano l’offesa nella prospettiva del pericolo cui la garanzia dei creditori è esposta e che il soddisfacimento delle pretese di questi sia compromesso dalla pregressa ed indebita diminuzione patrimoniale. Non solo. La dichiarazione in parola attualizza l’offesa perché effettivamente apre la procedura concorsuale. Offensività=pericolo di riduzione del patrimonio. La portata offensiva del reato di bancarotta risiede nel pericolo che, nei casi in cui si concretizzi una procedura concorsuale, l’esito della procedura sia negativamente condizionato da atti distrattivi che abbiano ridotto il patrimonio disponibile. Questa la ratio della punizione – anche penale – di condotte riconducibili alla situazione di insolvenza che legittima l’instaurazione di una procedura concorsuale. Ci vuole consapevolezza dello stato di insolvenza? A prescindere dai dati processuali relativi alla consapevolezza, da parte dell’imputato, delle condizioni della Fondazione e del sistema degli strumenti utilizzati per drenare risorse economiche, la Cassazione esclude la necessità di detta consapevolezza. Sul punto i giudici richiamano la giurisprudenza che ha ripetutamente escluso la prospettiva del dissesto dall’oggetto del dolo al contrario, l’elemento soggettivo è da verificare con riguardo alla consapevolezza di destinare altrove i beni dell’impresa, così depredando risorse e privando i creditori – anche potenzialmente, concorsuali – della garanzia rappresentata dal patrimonio dell’impresa. E il dolo dell’extraneus? Se il dissesto non entra nell’oggetto del dolo, ciò vale sia per l’intraneo che per il concorrente estraneo. Secondo la giurisprudenza costante il dolo dell’ extraneus consiste nella consapevolezza di concorrere a sottrarre beni dell’impresa alla funzione di garanzia che il patrimonio rappresenta rispetto alle ragioni dei creditori. Identica è la percepibilità da parte del concorrente esterno, come dell’imprenditore con il quale concorre, del pericolo che la condotta drenante delle risorse patrimoniali pregiudichi l’effettività della garanzia per i creditori nel caso in cui si apra una procedura concorsuale, a prescindere dalla conoscenza dello stato di insolvenza. Rilevanza della decisione assolutoria nei confronti dei coimputati. Taluni coimputati erano giudicati in altro giudizio, con rito ordinario, diversamente dall’imputato che aveva optato per il giudizio abbreviato. Per determinati fatti contestati si era giunti ad una pronuncia assolutoria, divenuta definitiva nelle more della proposizione del ricorso in cassazione. I giudici di merito del separato processo erano pervenuti a tale conclusione per insufficienza della prova della sussistenza del fatto di reato contestato. Possibile un contrasto tra giudicati! Il passaggio in giudicato della sentenza pronunciata per i coimputati conferisce alla predetta efficacia probatoria ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p. ma non ha potuto trovare esplicazione nel giudizio di merito per ragioni legate al diverso sviluppo dei procedimenti. Tuttavia, la Cassazione evidenzia che, sussistendo gli elementi per dare luogo ad un giudizio di revisione, ragioni di economia processuale e di rispetto del principio di ragionevole durata del processo, impongono di annullare la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame nel quale dovrà essere valutata l’incidenza degli accertamenti di fatto, contenuti nella sentenza pronunciata separatamente, sul procedimento scrutinato.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 maggio – 21 luglio 2014, n. 32031 Presidente Marasca – Relatore Zaza