A tutto gas nella strada vicina al Bed and breakfast: condannato per disturbo alle persone

Automobilista scatenato nelle vicinanze dell’attività commerciale gestita da due sue parenti passa più e più volte in quella strada, a tutto gas. Evidente il fastidio arrecato non solo alle due titolari dell’esercizio pubblico ma anche agli avventori. Conseguenziale la condanna.

Vendetta familiare davvero atipica, a colpi di sgommate il protagonista, alla guida della propria automobile, sfreccia a tutto gas, ripetutamente, lungo la piccola strada su cui affaccia l’attività commerciale – un ‘Wine bar’ con annesso ‘Bed and breakfast’ – gestita da due parenti. Ma quello che può sembrare uno sfogo, seppur assai poco ortodosso, è valutabile come condotta penalmente rilevante. Consequenziale è la condanna dell’uomo per il reato di disturbo alle persone” Cass., sent. n. 17594/2014, Prima Sezione Penale, depositata oggi . A tutto gas. Nessun dubbio, secondo i giudici del Tribunale, sulla responsabilità dell’uomo, condannato a 350 euro di ammenda – oltre che al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni – per avere utilizzato la propria vettura come ‘strumento di molestia’. Obiettivo dichiarato l’ attività di ristorazione gestita da due donne, parenti dell’automobilista. Fatale l’aver transitato in via continuativa, a bordo della propria autovettura, nella piccola strada su cui affacciava l’attività commerciale delle due donne. Evidente l’intento non solo di infastidire le due titolari dell’esercizio commerciale, ma acclarato anche il fastidio arrecato agli avventori . Che baccano! Ebbene, il peso della condotta tenuta dall’uomo – finalizzata , secondo i giudici del primo grado, a recare molestia e disturbo – viene considerato acclarato anche dai giudici del Palazzaccio, i quali, difatti, confermano in toto la condanna per disturbo alle persone”. Chiarissima la ricostruzione della vicenda, da cui emerge, in maniera netta, l’intento dell’uomo, ossia recare disturbo al riposo e alle occupazioni delle proprie congiunte, titolari di un’attività commerciale, ponendo in essere azioni tipicamente moleste , consistite nel fare baccano e nel transitare rumorosamente, con la propria autovettura, sullo stradello attiguo ai locali dell’esercizio pubblico . Assolutamente cristallino il disturbo arrecato al riposo delle persone – le due titolari, ma anche gli avventori –, e logicamente consequenziale l’addebito, nei confronti dell’uomo, del reato di molestie e disturbo alle persone .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 20 febbraio – 22 aprile 2014, n. 17594 Presidente Siotto – Relatore Sandrini Ritenuto in fatto 1. Con sentenza pronunciata il 23.01.2013 il Tribunale di Vallo della Lucania ha condannato l'imputato R.A., concesse le attenuanti generiche, alla pena di € 350 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio civile, in favore della costituita parte civile, per il reato di cui all'art. 660 cod. pen., commesso fino al 6.07.2008 transitando in via continuativa a bordo della propria autovettura nella piccola strada sulla quale affacciava l'attività di ristorazione gestita dalle persone offese, allo scopo evidente di infastidirle senza motivo unitamente ai loro avventori, previa riqualificazione in tali termini dell'imputazione originariamente ascritta al capo B della rubrica a titolo di violazione dell'art. 659 cod. pen. ha contestualmente assolto il R. dalle residue imputazioni di cui agli artt. 674, 594 e 612 cod. pen. rubricate ai capi A e C, in mancanza di prova certa dell'ascrivibilità all'imputato delle relative condotte. Il Tribunale riteneva raggiunta la prova della condotta del R. finalizzata a recare molestia e disturbo sulla base delle dichiarazioni delle persone offese, riscontrate da altre testimonianze che avevano confermato la circostanza. 2. Avverso la condanna ha proposto appello, da qualificarsi come ricorso per cassazione stante l'inappellabilità sancita dall'art. 593 comma 3 cod. proc. pen. delle sentenze irroganti la sola pena dell'ammenda, R.A., a mezzo del difensore, svolgendo quattro motivi coi quali deduce, in via gradata la nullità della sentenza impugnata per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui agli artt. 521-522 del codice di rito conseguente all'immutazione del fatto ritenuto dal Tribunale rispetto a quello contestato dal pubblico ministero, senza assicurare al R. la possibilità di contraddire e difendersi sulla nuova imputazione ex art. 660 cod. pen. rispetto a quella ex art. 659 sulla quale era stata espletata l'istruzione dibattimentale e si era svolta la discussione finale la richiesta di assoluzione dell'imputato perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto, conseguente alla valorizzazione delle dichiarazioni dei testi introdotti dalla difesa, che non erano state considerate dal giudice di primo grado ma che avevano escluso la sussistenza della condotta incriminata, non essendovi inoltre la prova che il conducente della vettura transitata in loco fosse proprio R.A. la richiesta di assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato, difettando la prova del dolo necessario a integrare il reato di cui all'art. 660 cod. pen. la richiesta di rigetto della domanda risarcitoria di parte civile per difetto di legittimazione attiva, che spettava alla società che gestiva l'attività di ristorazione e non alle persone fisiche dei suoi titolari. Considerato in diritto 1. Giova preliminarmente rilevare che non è maturato il termine massimo di prescrizione del reato, che, in relazione alla natura contravvenzionale della violazione, è di cinque anni decorrenti dalla data di commissione del 6.07.2008. Occorre, infatti, tenere conto dei periodi di sospensione del corso della prescrizione dovuti alle astensioni dei difensore dalle udienze e ai rinvii dallo stesso richiesti durante la fase del giudizio, risultanti dagli atti e che vanno dal 6.05.2011 al 4.11.2011 5 mesi e 29 giorni , dal 5.12.2012 al 23.01.2013 1 mese e 18 giorni e dal 15.01.2014 al 20.02.2014 1 mese e 5 giorni , per un totale di 8 mesi e 22 giorni, che collocano al 28 marzo 2014 il termine finale di prescrizione. 2. I motivi di ricorso sono peraltro inammissibili. 3. La condotta descritta e contestata - in fatto - nel capo B dell'imputazione, per la quale è stata pronunciata la condanna, corrisponde al contenuto della fattispecie incriminata dall'art. 660 del codice penale, essendo l'addebito mosso al R. quello di aver recato disturbo al riposo e alle occupazioni delle proprie congiunte R.I. e M.M., titolari di un'attività di wine bar e B & amp B, ponendo in essere le azioni tipicamente moleste consistite nel fare baccano e nel transitare rumorosamente con la propria autovettura, in modo emulativo, sullo stradello attiguo ai locali dell'esercizio pubblico gestito dalle persone offese. Elemento essenziale del reato di cui all'art. 659 cod. pen., che tutela il bene della quiete e della tranquillità pubblica, è l'idoneità della condotta dell'agente ad arrecare disturbo a un numero indeterminato di persone, sicché i rumori devono avere una diffusività tale che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo a essere risentito da una platea indeterminata di soggetti pur se concretamente solo taluno se ne lamenti Sez. 1, n. 47298 del 29/11/2011, Rv. 251406, nonchè Sez. 1, n. 246 del 13/12/2007, Rv. 238814, che ha escluso la rilevanza penale della condotta con riferimento a rumori idonei ad arrecare disturbo soltanto agli abitanti dell'appartamento sottostante mentre il fatto contestato al prevenuto, e per il quale il R. è stato condannato, è quello di aver disturbato il riposo delle persone con specifico riguardo all'immobile delle persone offese e all'attività ivi esercitata, ed è dunque puntualmente riconducibile al reato di molestie e disturbo alle persone di cui all'art. 660 cod. pen La sentenza impugnata si è limitata a operare il corretto inquadramento normativo del fatto che era stato in concreto contestato all'imputato, nell'esercizio del potere-dovere attribuito al giudice dall'art. 521 comma 1 cod. proc. pen. di riqualificare la definizione giuridica dell'addebito lasciandone invariati gli elementi fattuali, e non è perciò incorsa in alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, che postula la diversa ipotesi della trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie ritenuta in sentenza rispetto a quella oggetto di imputazione, così da porsi in rapporto di incompatibilità e di eterogeneità rispetto all'accusa e da stravolgerne il contenuto in termini tali da mettere l'imputato nell'impossibilità di difendersi Sez. Un. n. 36551 del 15/07/2010, Rv. 248051, e, da ultima, Sez. 1 n. 28877 del 4/06/2013, Rv. 256785 nel caso in esame, come si ricava dalla motivazione della sentenza, il contraddittorio processuale e l'esercizio delle facoltà difensive si sono invece esplicati proprio sulla sussistenza, sull'addebitabilità al R. e sulla finalità molesta della condotta descritta nel capo d'imputazione. Il primo motivo di ricorso è dunque manifestamente infondato, e di conseguenza inammissibile. 4. Le richieste di assoluzione dell'imputato con le formule invocate nel secondo e nel terzo motivo di ricorso costituiscono delle tipiche censure di merito, dirette a sollecitare una diversa valutazione in senso innocentista delle risultanze istruttorie, che, se appaiono coerenti al mezzo di impugnazione - appello - che il ricorrente riteneva erroneamente di essere legittimato a proporre avverso la sentenza di primo grado, risultano tuttavia palesemente inammissibili in questa sede di legittimità, alla quale il gravame è pervenuto in ossequio al principio di conservazione sancito dall'art. 568 comma 5 del codice di rito, senza peraltro consentire l'introduzione di censure diverse da quelle indicate dall'art. 606 comma 1 del codice di rito. 5. Manifestamente infondata è, infine, la doglianza diretta a contestare le statuizioni della sentenza impugnata che hanno riconosciuto il diritto e la legittimazione a costituirsi parte civile, ottenendo la condanna generica al risarcimento del pregiudizio patito, delle persone fisiche che risultano essere i soggetti direttamente incisi dal reato alla stregua della stessa formulazione del capo d'imputazione. 6. Dall'inammissibilità del ricorso discende la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla cassa delle ammende della sanzione pecuniaria che si stima equo quantificare in 1.000 euro. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di € 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.