Patrocinio infedele: avvocatessa deve accontentarsi di una assoluzione ... a metà!

L’avvocato ingiustamente condannato per infedele patrocinio e poi assolto in appello perché il fatto non costituisce reato, non può ricorrere in Cassazione, pur in presenza di una pronuncia di secondo grado fortemente contraddittoria, per ottenere un’assoluzione piena, con formula il fatto non sussiste”.

Lo ha stabilito la Corte di cassazione nella sentenza n. 49855 dell’11 dicembre 2013. Il fatto Il Tribunale di Treviso condanna un’avvocatessa per patrocinio infedele per non aver prestato assistenza legale ad un detenuto che vede, così, confermata la propria condanna appello, nonostante l’impegno in tal senso da parte del legale. La Corte d’Appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, assolve la donna perché il fatto non costituisce reato, ritenendo che non fosse stata raggiunta la prova che i fatti si fossero svolti come indicato nella pronuncia. Rileva, tuttavia, la deprecabilità della condotta tenuta in quanto ha accettato l’incarico, non prestando, però, la massima diligenza nel seguire il suo assistito. Non è possibile un giudizio di colpevolezza solo perché manca una prova piena e definitiva della consapevolezza di danneggiare il cliente, in assenza, peraltro, di un movente specifico. L’avvocatessa ricorre in Cassazione, censurando l’illogicità della motivazione nella parte in cui non ha dato atto del venir meno dell’elemento oggettivo del reato. Per adire la Cassazione, vi deve essere la possibilità di sollecitare una posizione giuridicamente rilevante. Il ricorso è inammissibile per mancanza di interesse la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non è assoluta e indiscriminata ma è subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulti idoneo a produrre l’eliminazione o la riforma della decisione, tale da rendere possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso. Di conseguenza, la legge processuale non ammette l’esercizio del diritto di impugnazione, avente di mira la sola esattezza teorica della decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole . Nel caso in esame, è vero che non c’è la prova dell’elemento oggettivo del reato, ma vero è anche che l’imputata è assolta ritenendo carente il profilo psicologico essendo, quindi, escluso ogni teorico pregiudizio ai suoi danni. Per questi motivi, la ricorrente potrà svolgere ogni opportuna difesa nella eventuale sede amministrativa o disciplinare al fine di far valere la sua posizione.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 20 novembre – 11 dicembre 2013, n. 49855 Presidente Di Virginio – Relatore Gramendola Fatto e diritto Con sentenza in data 17/12/2010 il G.U.P. del Tribunale di Treviso dichiarava F.S. colpevole del reato ex art. 380/2 cp e la condannava alla pena di giustizia. Il processo scaturiva da una denuncia di O.C. , che detenuto per espiazione di una pena di anni 15 e mesi 4 di reclusione si doleva che, nonostante avesse proceduto alla nomina dell'avv. F.S. per la proposizione dell'appello e avesse ricevuto in carcere la visita del sostituto della predetta, la quale gli aveva confermato l’accettazione dell'incarico, e nonostante le assicurazioni ricevute dal suo tutore C.P. , aveva ricevuto in data 9/10/2008 la notifica dell'avviso di irrevocabilità della condanna, segno evidente che il nuovo difensore aveva lasciato decorrere i termini dell'impugnazione omettendo di proporre appello e in tal modo venendo meno ai suoi doveri professionali. A sostegno del giudizio di responsabilità il primo giudice valorizzava la denuncia e le conferme provenienti dalle dichiarazioni del C. e del sostituto avv. G.A. . A seguito di gravame dell'imputata la Corte di appello di Venezia con la sentenza indicata in epigrafe, in riforma della sentenza di primo grado, assolveva perché il fatto non costituisce reato l'imputata, ritenendo che non fosse stata raggiunta la prova che i fatti si fossero svolti nei sensi indicati nella denuncia, giacché la nomina, benché certificata nel registro del carcere, non era mai pervenuta all'autorità giudiziaria e l'avv. G. non aveva affatto assicurato l’O. dell'assunzione della difesa da parte del legale, ma si era limitata a consigliare l'imputato di incaricare il citato C. a fornire al legale gli elementi necessari per proporre impugnazione osservava infine che in ogni caso era deprecabile la condotta del legale, che, avendo ricevuto la nomina, ed essendosi esposta al punto da inviare la collega al colloquio con l'imputato e avendo per di più ricevuto anche un fondo spese, sia pure attribuibile ad un diverso procedimento, non aveva poi prestato la massima diligenza nel seguire il suo assistito. Mancava, ad avviso del giudice del gravame, in definitiva la prova della piena consapevolezza di danneggiare il cliente in assenza peraltro di un plausibile movente. Ricorre l'imputata contro tale decisione a mezzo del suo difensore, il quale nell'unico motivo a sostegno della richiesta di annullamento denuncia il vizio di motivazione, censurando la illogicità della motivazione sia nella parte in cui, pur avendo escluso la prova della ricezione della nomina da parte dell'autorità procedente, requisito questo indispensabile al fine di impegnare l'avvocato nell'esercizio del suo incarico, non aveva poi dato atto del venir meno dell'elemento oggettivo del reato e assolvere l'imputato perché il fatto non sussiste, sia nella parte in cui si dubitava della buona fede della ricorrente, nonostante la prova che l'anticipo versato dall'O. si riferisse ad un diverso procedimento e che alla data del 3/7 l'avv. F. avesse già comunicato all'O. e al Campagnolo che non intendeva accettare l'incarico. Il ricorso è inammissibile per mancanza di interesse. Osserva il collegio che la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non è assoluta e indiscriminata, ma è subordinata alla presenza di una situazione, in forza della quale il provvedimento del giudice risulti idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell'impugnazione e l'eliminazione o la riforma della decisione renda possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso. Di conseguenza la legge processuale non ammette l'esercizio del diritto di impugnazione, avente di mira la sola esattezza teorica della decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole, nel senso che miri a sollecitare una posizione giuridicamente rilevante e non un mero interesse di fatto. Nel caso in esame è pur vero che la lettura della sentenza impugnata rileva una palese incoerenza della decisione assolutoria con la motivazione, laddove pur escludendo la prova dell'elemento oggettivo del reato, assolve l'imputata ritenendo carente il profilo psicologico, ma proprio per questo è escluso ogni teorico pregiudizio all'imputata. Gli artt. 652 e 654 cpp. attribuiscono efficacia vincolante nel giudizio civile o amministrativo alla sentenza penale di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento, ma compete pur sempre al giudice civile il potere di accertare autonomamente con pienezza di cognizione i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all'esito del processo penale Cass. Civ. 3/4/1999 n. 3268 CED 524937 9/10/2000 n. 13425 16/7/02 n. 10287 . Alla stregua di tale regola di diritto la ricorrente potrà svolgere ogni opportuna difesa nella eventuale sede amministrativa o disciplinare, allegando la motivazione della sentenza impugnata al fine di far valere la sua posizione. Segue alla declaratoria di inammissibilità la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della cassa delle ammende della somma, ritenuta di giustizia ex art. 616 cpp, di Euro 500,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 500,00 in favore della cassa delle ammende.