Proteste continue nei confronti della dirigente scolastica, non può escludersi il carattere minatorio

Nel comportamento di petulante e ossessiva reiterazione di richieste e proteste dell’indagato è rinvenibile anche un atteggiamento minatorio.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 48466/13, depositata lo scorso 4 dicembre. Il caso. Violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale, questa l’accusa mossa ad un uomo a cui era stata applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari, visto che, con la sua condotta petulante e ossessiva, aveva reiterato richieste e proteste nei confronti della dirigente dell’istituto scolastico nel quale la moglie prestava servizio. Nello specifico, l’indagato mirava a costringere la dirigente a non perseguire gli illeciti disciplinari commessi da sua moglie. In sede di riesame, però, la misura cautelare veniva annullata per carenza di gravi indizi. Atteggiamento minatorio? La Corte di Cassazione, a cui ha proposto ricorso il pubblico ministero, rileva, al contrario, che nella serie ininterrotta di atti persecutori posti in essere dall’indagato, che il giudice a quo ha qualificato come comportamento di petulante e ossessiva reiterazione di richieste e proteste è rinvenibile anche un atteggiamento minatorio. Condotta ossessiva. E poi – sottolineano gli Ermellini – la pressione intimidatrice è individuabile nell’implicito avvertimento che quella condotta ossessiva, che aveva largamente superato i limiti della legittima protesta e della legittima denuncia , non sarebbe cessata se, di fronte al persistente assenteismo dell’insegnante – nonché moglie dell’indagato – la dirigente avesse perseverato nel promuovere l’azione disciplinare. In conclusione, il tribunale a cui la Cassazione ha rinviato dovrà riesaminare gli atti.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 20 novembre – 4 dicembre 2013, n. 48466 Presidente Di Virginio – Relatore Garribba Considerato in fatto p.1. Con l'ordinanza specificata in epigrafe, il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del riesame, annullava per carenza di gravi indizi l'ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari aveva applicato a P.I. , indagato per il reato previsto dall'art. 336 cod.pen., la misura cautelare degli arresti domiciliari. Osservava il Tribunale a che la condotta di petulante e ossessiva reiterazione di richieste e proteste tenuta dall'indagato nei confronti di G.I. , dirigente dell'istituto scolastico nel quale sua moglie prestava servizio, non integrava gli estremi della violenza e minaccia richiesti dall'art. 336 cod.pen. b che non era individuabile l'atto contrario ai doveri d'ufficio, al cui compimento l'indagato avrebbe voluto costringere la vittima. Contro la decisione ricorre il pubblico ministero, che denuncia violazione della legge penale e mancanza di motivazione. Censura che il giudice del riesame non abbia considerato che l'indagato aveva minacciato la dirigente tramite l'insegnante B.R. , facendole sapere che in un modo o nell'altro doveva andar via dall'istituto e che egli mirava a costringere la dirigente a non perseguire gli illeciti disciplinari commessi dalla moglie Ga.Er. . Nella condotta petulante e ossessiva tenuta dall'indagato sarebbe comunque configurabile il reato di cui all'art. 612 bis cod. pen., perché la persecuzione realizzata aveva cagionato nella vittima un perdurante e grave stato d'ansia, comprovato da certificazione medica. Conclude quindi per l'annullamento dell'ordinanza impugnata. Considerato in diritto p.1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito precisati. Il pubblico ministero ricorrente censura la decisione del giudice a quo , accusandolo di inosservanza della legge penale e contraddittorietà della motivazione per non avere ravvisato nel fatto sottoposto al suo esame gli estremi del reato - non contestato - previsto dall'art. 612 bis cod.pen., quasi che il reato di violenza a pubblico ufficiale e quello di atti persecutori costituiscano due fattispecie penali equivalenti o fungibili, tra loro interscambiabili. Ma ciò non è sostenibile, soprattutto per la ragione che il reato di cui all'art. 612 bis cod.pen. - a differenza di quello di violenza a pubblico ufficiale - è strutturato come reato di evento, giacché richiede che la condotta, che si sostanzia di minacce o molestie reiterate, cagioni un perdurante e grave stato di ansia o paura ovvero ingeneri un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o costringa ad alterare le proprie abitudini di vita . Poiché nessuno di tali eventi tipizzati dalla norma penale è rappresentato nell'imputazione provvisoria formulata nella richiesta di applicazione della misura cautelare, il giudice del riesame, una volta esclusa la configurabilità del reato di violenza a pubblico ufficiale, non poteva affermare la sussistenza del diverso reato previsto dall'art. 612 bis cod.pen., pena la violazione del principio - valevole anche nel procedimento cautelare - della necessaria correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto. Ciò chiarito e salva la facoltà del pubblico ministero di modificare, nel prosieguo delle indagini preliminari, il fatto recepito nell'imputazione dandogli la più acconcia definizione giuridica, deve rilevarsi che la decisione del Tribunale non appare coerente con i risultati indiziari offerti dagli atti di indagine. Affermare che nella condotta tenuta dall'indagato non sono ravvisabili minacce finalizzate a costringere il pubblico ufficiale ad omettere il compimento di un atto, dell'ufficio significa disconoscere le risultanze emergenti dagli atti. Infatti nella serie ininterrotta di atti persecutori posti in essere dall'indagato, che il giudice a quo qualifica come comportamento di petulante e ossessiva reiterazione di richieste e proteste , è rinvenibile anche un atteggiamento minatorio. Oltre al fatto, riportato nell'imputazione, che l'indagato in più occasioni inveiva nei confronti della persona offesa minacciandola di morte , e che lo stesso, tramite l'insegnante B.R. , l'aveva ammonita che in un modo o nell'altro doveva lasciare l'incarico ricoperto, la pressione intimidatrice è individuabile nell'implicito avvertimento che quella condotta ossessiva, che aveva largamente superato i limiti della legittima protesta e della legittima denuncia, non sarebbe cessata se, di fronte al persistente assenteismo dell'insegnante Ga.Er. convivente dell'indagato , la dirigente avesse perseverato nel promuovere l'azione disciplinare. La finalizzazione della condotta intimidatoria a ostacolare e infrenare le iniziative disciplinari della dirigente emerge sia dalla farraginosa imputazione nel punto in cui richiama il contenuto delle missive indirizzate dall'indagato alla dirigente la diffido per l'ultima volta a non continuare nel suo siffatto atteggiamento d'imperio e di vessazione nei confronti dell'insegnante Ga.Er. , sia dalla valutazione complessiva della condotta dallo stesso tenuta, che a un qualche scopo pur doveva pur mirare. L'ordinanza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio al Tribunale, che, in diversa composizione, dovrà riesaminare gli atti e valutare, senza incorrere nel vizio di mancanza e manifesta illogicità della motivazione, se sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine all'attuale imputazione provvisoria. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Napoli.