Frasi offensive e minacciose a carabinieri: non c’è bisogno d’altro per un giudizio di colpevolezza

Per l’integrazione del reato di resistenza a pubblico ufficiale p.u. , è sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, indipendentemente dal fatto che vi sia un effettivo impedimento che ostacoli il compimento degli atti predetti.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 48454 del 4 dicembre 2013. Il fatto. La corte d’Appello di Napoli conferma la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che aveva condannato un uomo a quattro mesi di reclusione per avere, in concorso con il fratello, pronunciato frasi offensive e minacciose nei confronti di alcuni carabinieri ad un posto di blocco e cagionato lesioni a danno di uno di loro. Avverso la sentenza di secondo grado, l’uomo ricorre in Cassazione. La Cassazione non può ricostruire i fatti in modo diverso rispetto al giudizio di merito. Il ricorso viene giudicato fin da subito inammissibile in quanto imperniato su una valutazione meramente alternativa delle fonti di prova l’imputato mira ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice d’appello, attraverso una disamina completa ed approfondita delle risultanze processuali. La Corte di legittimità, si ricorda, si limita a ripercorrere l’ iter argomentativo tracciato in sede di merito, verificandone la completezza e l’insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza alcuna possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle correlative acquisizioni processuali. Giustamente, quindi, in sede d’appello si era posto in evidenza che i due imputati erano in stato di ebbrezza e che i controlli, doverosi, erano stati ostacolati. La Corte d'appello, ha coerentemente concluso il suo percorso motivazionale, per un verso escludendo che l'imputato potesse avere la benché minima ragione per presumere la commissione di un abuso nei suoi confronti, e, per altro verso, ponendo in evidenza come le conseguenze ricollegabili all'assunzione di sostanze alcooliche costituisca un fatto addebitabile esclusivamente al suo comportamento, e certamente tale da non sminuire il livello di gravità del fatto, ma semmai, da accrescerlo . Presupposti per l’integrazione del reato di resistenza a p.u. La sentenza impugnata ha correttamente applicato quanto più volte affermato da Piazza Cavour resistenza a p.u. non c’è solo quando sia impedita in concreto la libertà d’azione dello stesso. È sufficiente che, con qualsivoglia attività omissiva o commissiva, che sia percepibile ex adverso , si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, indipendentemente dall’esito positivo o negativo di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un impedimento che ostacoli gli atti predetti. Esimente putativa dell’esercizio del diritto. La Suprema Corte specifica, inoltre, che la convinzione da parte dell’imputato di opporsi ad un atto illegittimo, pur prospettata sotto il profilo dell’esimente putativa dell’esercizio del diritto, si risolve in realtà, non essendoci buona fede, nella supposizione soggettiva degli estremi degli atti arbitrari di cui all’art. 4, D. Lgt. n. 288/1994. Tale norma non esclude la pena ma solo la tutela nei confronti del p.u. che se ne dimostri indegno in quanto autore di atti oggettivamente arbitrari. E questo, nel caso di specie, non si è assolutamente verificato. Concludendo, il ricorso si dichiara inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 6 novembre – 4 dicembre 2013, n. 48454 Presidente Garribba – Relatore De Amicis Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 7 marzo 2012 la Corte d'appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 16 dicembre 2008, che al'esito di giudizio abbreviato condannava C.P. alla pena di mesi quattro di reclusione per il reato di cui agli artt. 110-337 c.p., commesso il omissis per avere, in concorso con il fratello C.S. , al fine di sottrarsi ad un controllo da parte dei Carabinieri di Mondragone, pronunziato frasi offensive e minacciose nei loro confronti, chiudendo il cofano della propria autovettura - che uno dei Carabinieri aveva cercato di aprire per controllarla - mentre il fratello si poneva di nuovo alla sua guida, tentando di darsi alla fuga e trascinando per circa trenta metri uno degli operanti, con conseguenze lesive in suo danno, poiché vi rimaneva incastrato tra lo sportello del lato del guidatore ed il montante, per poi lasciare la presa. L'imputato veniva ritenuto responsabile per il reato di resistenza a pubblico ufficiale di cui al capo sub a , mentre veniva assolto dal reato di lesioni personali di cui al capo sub b , per non aver commesso il fatto. 2. Avverso la predetta pronuncia della Corte d'appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, che ha dedotto i motivi di doglianza qui di seguito sinteticamente riassunti. 2.1. Violazioni di legge e carenze motivazionali con riguardo all'art. 337 c.p. ed alla ritenuta insussistenza della scriminante di cui all'art. 4 del decreto luogotenenziale n. 288/44, avendo il ricorrente percepito come arbitrarie le modalità con cui vennero effettuati i controlli sulla persona del fratello, siccome posti in essere con modalità al limite della sopraffazione, nonostante essi fossero conosciuti dagli operanti. 2.2. Violazioni di legge e carenze motivazionali con riguardo agli artt. 337 e 594 c.p., in quanto la condotta posta in essere dall'imputato durante la fase del controllo è stata esclusivamente quella di proferire frasi ineducate all'indirizzo dei militari, traducendosi in una mera espressione di sfogo, con la conseguenza che la stessa alcuna rilevanza penale poteva assumere sull'operato dei Carabinieri, i quali lo hanno di fatto identificato e condotto senza alcun ostacolo o resistenza in caserma. 2.3. Violazioni di legge e carenze motivazionali con riguardo agli artt. 62-bis, 114 e 133 c.p., avendo la Corte omesso qualsiasi motivazione sul riconoscimento delle invocate attenuanti, sebbene fosse stata evidenziata la minima importanza dell'apporto causale nella condotta tenuta dall'imputato, il cui comportamento collaborativo in sede di udienza di convalida indicava un'evidente dissociazione rispetto alla condotta tenuta in occasione del controllo da parte dei militari. Considerato in diritto 3. Il ricorso è inammissibile, in quanto sostanzialmente orientato a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte in sede di appello - e finanche dinanzi al Giudice di prime cure - che tuttavia risultano ampiamente vagliate e correttamente disattese dalla Corte distrettuale, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, poiché imperniata sul presupposto di una valutazione meramente alternativa delle fonti di prova, in tal guisa richiedendo l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica conseguenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell'impugnata decisione. Il ricorso, dunque, non è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento del tema d'accusa. In tal senso, la Corte territoriale, sulla base di quanto sopra richiamato in narrativa, ha proceduto ad un vaglio critico di tutte le deduzioni ed obiezioni mosse dalla difesa, pervenendo alla decisione impugnata attraverso una disamina completa ed approfondita delle risultanze processuali. Nel condividere il significato complessivo del quadro probatorio posto in risalto nella sentenza del Giudice di prime cure, la cui struttura motivazionale viene a saldarsi perfettamente con quella di secondo grado, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, la Corte di merito ha esaminato la contrastante versione dei fatti narrata dall'imputato ed ha puntualmente disatteso la diversa ricostruzione prospettata dalla difesa, ponendo in evidenza, segnatamente a che la condotta posta in essere dall'imputato, peraltro sorpreso dai Carabinieri in evidente stato di alterazione alcoolica, era volta ad impedire l'espletamento di un controllo resosi doveroso perché si trattava di persone poco prima datesi alla fuga, in quanto già osservate alla guida di un autoveicolo affiancato ad altro - guidato da altri conducenti, rimasti sconosciuti - in direzione di marcia opposta b che il fratello dell'imputato, C.S. che ha patteggiato la pena , si era posto alla guida in stato di ebbrezza c che l'inseguimento ed il successivo controllo erano dunque doverosi, proprio alla luce della condotta tenuta dai due coimputati d che l'espletamento delle attività di controllo è stato ostacolato dall'imputato, che nell'occasione ha chiuso il cofano dell'autovettura per impedire all'operante di guardarvi dentro. La Corte d'appello, pertanto, ha coerentemente concluso il suo percorso motivazionale, per un verso escludendo che l'imputato potesse avere la benché minima ragione per presumere la commissione di un abuso nei suoi confronti, e, per altro verso, ponendo in evidenza come le conseguenze ricollegabili all'assunzione di sostanze alcooliche costituisca un fatto addebitabile esclusivamente al suo comportamento, e certamente tale da non sminuire il livello di gravità del fatto, ma, semmai, da accrescerlo. 4. Al riguardo, pertanto, l'impugnata sentenza ha fatto buon governo dei principii più volte stabiliti da questa Suprema Corte, secondo cui l'integrazione del reato di resistenza a pubblico ufficiale non richiede certo che sia impedita, in concreto, la libertà di azione dello stesso, essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, indipendentemente dall'esito positivo o negativo di tale azione e dall'effettivo verificarsi di un impedimento che ostacoli il compimento degli atti predetti Sez. 6, n. 3970 del 13/01/2010, dep. 29/01/2010, Rv. 245855 . In tema di resistenza a pubblico ufficiale, infatti, la condotta penalmente rilevante deve intendersi rappresentata da qualsivoglia attività omissiva o commissiva che si traduca in un atteggiamento, anche talora implicito, purché percepibile ex adverso, che impedisca, intralci, valga a compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente la regolarità del compimento dell'atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, e ciò indipendentemente dal fatto che l'atto di ufficio possa comunque essere eseguito Sez. 6, n. 8667 del 28/05/1999, dep. 07/07/1999, Rv. 214199 . Sotto altro, ma connesso profilo, si è più volte stabilito, in questa Sede, il principio secondo cui la convinzione dell'imputato di opporsi ad un atto illegittimo, pur prospettata sotto il profilo dell'esimente putativa dell'esercizio del diritto, si risolve in realtà - non potendosi certo configurare una buona fede relativa alla condotta di resistenza in sé considerata - nell'allegazione della supposizione soggettiva degli estremi degli atti arbitrari di cui all'art. 4 del D. Lgt. n. 288/1944. Sul punto, tuttavia, deve rilevarsi, in adesione alla linea interpretativa costantemente tracciata da questa Suprema Corte, che tale norma non prevede affatto una circostanza di esclusione della pena ricadente sotto la disciplina dell'art. 59 cod. pen., ma dispone l'esclusione della tutela nei confronti del pubblico ufficiale che se ne dimostri indegno essa, pertanto, trova applicazione solo in rapporto ad atti che obbiettivamente, e non soltanto nell'opinione dell'agente, concretino una condotta arbitraria ex multis, Sez. 6, n. 45266 del 18/09/2008, dep. 04/12/2008, Rv. 242395 . Per quanto su esposto e rappresentato, peraltro, non è emerso, né è stato in alcun modo comprovato alla luce delle risultanze processuali, alcun elemento sintomatico di un consapevole travalicamento da parte dei pubblici ufficiali dei limiti e delle modalità entro cui le pubbliche funzioni devono essere esercitate Sez. 6, n. 27703 del 15/04/2008, dep. 07/07/2008, Rv. 240881 . Ne discende, conseguentemente, la palese infondatezza dei primi due profili di doglianza dal ricorrente prospettati. 5. In relazione agli evidenziati profili, pertanto, la Corte d'appello ha compiutamente indicato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti gli elementi richiesti per la configurazione dell'ipotesi delittuosa oggetto del tema d'accusa, ed ha evidenziato al riguardo gli aspetti maggiormente significativi, dai quali ha tratto la conclusione che la ricostruzione proposta dalla difesa si poneva solo quale mera ipotesi alternativa, peraltro smentita dal complesso degli elementi di prova processualmente acquisiti. La conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata riposa, in definitiva, su un quadro probatorio linearmente rappresentato come completo ed univoco, e come tale in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logico - argomentativa. In questa Sede, invero, a fronte di una corretta ed esaustiva ricostruzione del compendio storico-fattuale oggetto della regiudicanda, non può ritenersi ammessa alcuna incursione nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti accertati nelle pronunzie dei Giudici di merito, dovendosi la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l'iter argomentativo ivi tracciato, ed a verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza alcuna possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle correlative acquisizioni processuali. 6. Parimenti inammissibile deve ritenersi, infine, l'ultimo motivo di doglianza - dal ricorrente, peraltro, solo genericamente dedotto - ivi censurandosi un potere discrezionale il cui esercizio è stato oggetto di congrua motivazione da parte della Corte territoriale, che su tale punto ha fatto riferimento ai criteri di dosimetria della pena già illustrati ed utilizzati nella decisione del Giudice di primo grado, non solo confermando sostanzialmente le ragioni già individuate alla base delle relative determinazioni sanzionatorie, ma vieppiù precisando come la condotta, connotata da una particolare aggressività ed offensività, non possa affatto ritenersi di minimale rilievo rispetto a quella del coimputato, ma, anzi, di analogo spessore e volta a sostenerne l'esecuzione. Ne consegue, conclusivamente, che la Corte distrettuale ha espresso al riguardo la piena giustificazione di un apprezzamento di merito come tale non assoggettabile a sindacato in questa Sede, ponendosi, di contro, le deduzioni difensive sul punto formulate nella mera prospettiva di accreditare una diversa ed alternativa valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti fattuali che giustificherebbero la concessione delle invocate attenuanti. 7. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro mille. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.