Il ritorno di mia nonna: «di qualcuno la colpa deve pur essere!»

Quando la responsabilità penale deve necessariamente esistere ed essere attribuita Ai fini dell’applicazione della norma dettata dall’art. 590 c.p. in relazione ad infortuni occorsi sul luogo di lavoro, è sufficiente che sussista tra la violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p. In tale evenienza, quindi, dovrà ravvisarsi l’aggravante di cui all’art. 590, comma 3, c.p. nonché il requisito della perseguibilità d’ufficio per lesioni gravi e gravissime ex art. 590 u.c., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell’infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante.

La massima fedelmente estratta dalla motivazione della sentenza resa dalla IV sezione Penale della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 42647 del 17 ottobre 2013, provoca, almeno in me ma credo anche in molti di noi, un solo primo e sconfortante commento Auguri ! Perché se è vero che la responsabilità per lesioni colpose dovute ad inosservanza della normativa dettata in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro si applica anche allorché l’evento sinistro abbia avuto luogo nei confronti di un soggetto passivo estraneo alla attività ed all’ambiente di lavoro purché la sua presenza nell’ambiente di lavoro non abbia caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali dal interrompere il nesso eziologico tra condotta inosservante ed evento, allora è ben possibile che il sinistro occorso ad un nostro cliente all’interno del nostro studio ci veda sottoposti a processo in qualità di imputati per la violazione del disposto dell’art. 590 u.c. c.p. Ribaltandosi così, davvero grottescamente, la realtà e trasformandoci in datore di lavoro di chi, invece, lavoro ci da. E pensare che all’Università il professore di istituzioni di diritto Romano mi insegnava che il diritto è figlio del buon senso. Ma tant’è. La pronuncia oltre all’agghiacciante considerazione che sentivo il bisogno di evidenziare in apertura del commento, mi pare peccare di superficialità. Ora, è ben vero che il tema della colpa” nel diritto penale è tema assai periglioso e sul quale si sono scritte e si scriveranno migliaia di pagine di approfondite, attente ed interessantissime osservazioni, deduzioni, approfondimenti e considerazioni, ma, forse, proprio per questo andrebbe affronta tao anche dai Giudici, e quali, giudici, con miglior attenzione e considerazione. La colpa generica o specifica? Il primo punto di contrasto con la pronuncia mi sembra debba essere rilevato proprio nell’assenza di una contestazione idonea, certo formulata dall’accusa ma di cui pure il Giudice avrebbe dovuto tenere conto, tra colpa generica e colpa specifica. L’imputato ha violato obblighi di prudenza, diligenza e perizia oppure specifiche norme e disposizioni legislative e o regolamentari? La contestazione ed il tenore stringatissimo della pronuncia non consentono di conoscere nel dettaglio a cosa abbia riguardo l’imputazione che, presumibilmente si riverbera in una generica colpa consistita nell’aver omesso di segnalare l’esistenza di un dislivello sul pianerottolo del primo piano di uno stabile nelle immediate vicinanze dell’ascensore, di circa 8 centimetri costituente ingombro con pericolo di caduta. La lettura della sentenza, scritta anche con qualche refuso di troppo, pare fare intuire che vi fosse un gradino dell’altezza di 8 centimetri nelle vicinanze dell’ascensore e che, detto gradino non fosse segnalato. Fin qui, potremmo anche convenire circa l’obbligo del datore di lavoro di segnalare l’esistenza del dislivello. Senonchè Maledetto il dislivello e chi lo realizzò La presenza del dislivello era ben nota a chi utilizzava il pianerottolo, fossero essi dipendenti del Comune di Roma, fossero altri soggetti che nel pianerottolo transitavano. Anzi, l’anomalia strutturale allocuzione che possiamo certamente sostituire a dislivello ai fini di dare al ragionamento che ci accingiamo a fare maggior pregio giuridico era ben nota alla stessa vittima di infortunio che ne aveva segnalata la presenza alla rea. Ora, se un’anomalia strutturale è presente nel luogo di lavoro, non è voluta, nel senso che non è stata realizzata dal datore di lavoro né tantomeno dall’amministratore, è nota e percepibile può ancora dirsi che vi sia colpa da parte del soggetto che abbia proceduto a non segnalare ciò che era evidente e conosciuto ? Ad un’applicazione della norma della legge fondata su di un principio di tutela totale dell’incolumità dei soggetti che utilizzano la struttura la domanda non può che avere risposta positiva. Ma non potrà sfuggire all’interprete attento che simile lettura s confina con la violazione del divieto d’origine ed ordine Costituzionale, di responsabilità penale di carattere oggettivo. Ancora più laddove, con funambolico cambio di prospettiva, il precetto violato viene identificato nella regola sancita dal D.P.R. 547/1955, che la Corte con inattesa attenzione posticipa di quarant’anni e considera ancora in vigore nonostante il chiaro disposto dell’art. 304, D.lgs. 81/08. Il quadro normativo. Atteso che l’art. 2, D.Lgs. 81/2008, che poteva e doveva giustificare l’addebito mosso sotto forma di colpa specifica all’imputata, era da ricercarsi nel decreto legislativo in questione, viene immediatamente in conto quanto contenuto ed indicato nell’art. 2. Detto articolo, intitolato definizioni”, si preoccupa di determinare quali siano i significati dei termini utilizzati nel decreto stesso ai fini di rendere chiaro ed esplicito il loro significato giuridico. Si tratta di una tecnica legislativa apprezzabile poiché volta a far chiarezza” circa la portata della norma medesima che, soprattutto in relazione al campo penale, campo di interesse per il presente commento, non può essere assoggettata ad interpretazioni di carattere analogico. Ora determinare il significato dei termini utilizzati dal legislatore significa anche, ed indubitabilmente, descrivere e rilevare il perimetro di applicazione della norma che è il risultato della somma dei termini, da intendersi quali soggetti interessati alla sua applicazione e quali presidi da adottarsi ai fini di applicarla, utilizzati dal Legislatore per descrivere le fattispecie penali e le attività proattiva da porsi in essere. La lettura del citato art. 2 definisce il lavoratore quale persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari . Al lavoratore così definito è equiparato il socio lavoratore di cooperativa o di società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e dell'ente stesso l'associato in partecipazione di cui all'art. 2549 e ss. c.c. il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all'art. 18, legge 24 giugno 1997, n. 196, e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro l'allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l'allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile il lavoratore di cui al decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468, e successive modificazioni . Mi pare di poter dire che la figura della parte offesa possa rientrare nella categoria dei lavoratori a patto che essa si intenda quale riferita all’organizzazione del datore di lavoro” Datore di lavoro che viene identificato quale soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività', e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo . E mi pare che l’imputata non rivesta alcuna delle qualità previste e prescritte dalla legge per poter essere ritenuta datore di lavoro”. A sfogliare un manuale di diritto penale la causa doveva essere risolta con pronuncia assolutoria perché il fatto non costituiva reato, mandando al più al giudice civile, ex art. 2043 c.c., le questioni inerenti il risarcimento causato da atto illecito. Ma la Corte decide e ritiene che la semplice lettura del dato normativo non sia né sufficiente ne necessaria. Essa trae il proprio convincimento dall’esistenza di una norma abrogata e non tiene in alcun conto quel catalogo di definizioni contenute nell’art. 2, D.Lgs. n. 81/2008 che costituisce ed è l’architrave su cui poggia tutta la normativa in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro. Chi avesse voglia di continuare nella lettura dell’art. 2 troverà definiti i concetti di azienda , dirigente , preposto , responsabile del servizio di prevenzione e protezione , addetto al servizio di prevenzione e protezione , medico competente , rappresentante dei lavoratori per la sicurezza , servizio di prevenzione e protezione dai rischi , sorveglianza sanitaria , prevenzione , salute , sistema di promozione della salute e sicurezza , valutazione dei rischi , pericolo , rischio , unità produttiva , norma tecnica , buone prassi , linee guida , formazione , informazione , addestramento , modello di organizzazione e di gestione , organismi paritetici , responsabilità sociale delle imprese , ma neppure un rigo dedicato alla figura dell’amministratore di condominio. Il concetto di pericolo e rischio. La norma definisce il pericolo quale proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni ed il rischio probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione . Il Giudice avrebbe dovuto specificare se si versasse in ipotesi di pericolo e/o di rischio e, soprattutto in relazione a quale fattore connesso all’organizzazione aziendale od alla produzione che, nelle sue condizioni di impiego avrebbe potuto portare al verificarsi dell’evento. Neppure una parola. Anzi, laddove la Corte spende qualche osservazione lo fa per indicare che la persona offesa aveva segnalato all’amministratore e non al datore di lavoro l’esistenza del problema”. Pare davvero poco per giustificare una condanna. La valutazione dei rischi. L’imputata si è difesa dando atto di aver commissionato una valutazione dei rischi a soggetto dotato delle necessarie competenze tecniche. L’attività svolta dall’amministratrice rientra in quelle previste dal D.Lgs. 81/08 e l’art. 2 la definisce quale valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza . Ovvero quella attività da svolgersi ai fini di poter individuare e porre rimedio a quei pericoli o rischi che possono verificarsi nell’esercizio dell’attività produttiva per il Lavoratore. O, se si preferisce, quella attività che il buon datore di lavoro” deve svolgere ai fini di uniformarsi alle buone prassi” cui la stessa norma fa riferimento. La Corte non contesta che il professionista cui l’imputata si è rivolta non fosse in possesso dei requisiti tecnici e professionali atti a renderlo giuridicamente idoneo a svolgere il compito affidatogli, ma, semplicemente, risolve la questione dichiarando l’esistenza della lamentela della persona offesa quale capace di vanificare l’attività del professionista. La ricostruzione non è affatto soddisfacente. L’imputata si è uniformata alle buone prassi e si è procurata una valutazione dei rischi e dei pericoli che escludeva il gradino” dalle fonti, concrete e/o potenziali di rischio. Detta valutazione proveniva da soggetto capace e tecnicamente considerato in grado di svolgerla. Ad essa l’imputata si è uniformata. Pare sufficiente, la condotta posta in essere, a guadagnare una assoluzione con la formula che le Signorie Loro riterranno di giustizia. Ma non basta. Ancora una volta la Corte sembra non considera l’interpretazione costituzionalmente orientata che deve darsi dell’articolo 5 del codice penale, ovvero che la condotta di chi si sia rivolto a soggetto dotato delle competenze tecniche e/o giuridiche atte a fornire parere od indicazioni di condotte da assumersi quali conformi a norme debba essere scriminata per totale assenza dell’elemento soggettivo. Anche di quello minimo costituito dalla colpa. Una dimenticanza di non poco conto che si inserisce in una serie di discutibili interpretazioni della norma che paiono convergere in un unico ed altrettanto discutibile esito che mi pare possa riassumersi in una espressione che spesso utilizzava mia nonna di qualcuno la colpa deve pur essere! .

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 19 marzo 17 ottobre 2013, n. 42647 Presidente Brusco – Relatore Ciampi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 9 dicembre 2011 la Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza pronunciata dal Tribunale di Roma in data 8 luglio 2009, appellata da D.A.R. che aveva affermato la penale responsabilità della stessa in ordine al reato di cui all'art. 590 comma 3, in relazione all'art. 8 comma 9 d.P.R. n. 547 del 1955. Alla D.A. era stato contestato il suddetto reato poiché, quale legale rappresentante di Eurogestioni Immobiliari S.r.l. , società amministratrice dello stabile sito in omissis , ove hanno sede uffici del X Dipartimento del Comune di Roma, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e violazione della normativa di prevenzione degli infortuni sul lavoro, per non aver segnalato e comunque disposto la segnalazione della presenza sul pianerottolo del primo piano, nelle immediate dell'ascensore, di un dislivello del pavimento di circa 8 cm. costituente ingombro con pericolo di caduta di persone, cagionava a C.M.L. , dipendente del Comune di Roma, lesioni personali gravi e ciò in quanto, mentre la stessa stava uscendo dall'ascensore per recarsi presso gli uffici del Comune siti all'interno 3 del primo piano, non avvedendosi del dislivello, inciampava a causa dello stesso e cadeva in terra. 2. Avverso tale decisione proponeva ricorso a mezzo del proprio difensore la D.A. deducendo con un primo motivo la erronea applicazione della legge penale con riguardo alla condotta colposa prevista e punita dalla norma incriminatrice e la mancata rimproverabilità della stessa all'imputata con un secondo motivo la erronea applicazione dell'aggravante di cui al 3 comma dell'art. 590 c.p. violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e la conseguente improcedibilità dell'azione penale per mancanza di querela. Considerato in diritto 3. L'episodio è stato così ricostruito nelle sentenze di merito in data omissis , verso le ore 11,00, C.M.L. , istruttore amministrativo del Comune di Roma, si era recata, unitamente alla collega Co.Mi. , nell'immobile di omissis di cui era amministratrice l'imputata per portare dei fascicoli all'Ufficio Controlli Interno avevano preso insieme l'ascensore e, uscendo, la C. era caduta in quanto non si era accorta che c'era un gradino, che non era segnalato, immediatamente dopo la porta dell'ascensore, dello stesso colore grigio del pavimento. Dalla predetta caduta la C. riportava la frattura articolare scomposta dell'epifisi distale del radio dx con prognosi iniziale di trenta giorni, poi elevati a sessanta. La D.A. è stata ritenuta responsabile del reato contestatole, perché, in violazione della regola precauzionale di cui al d.P.R. n. 547 del 1995, aveva omesso di segnalare il dislivello sito nei pressi dell'ascensore. Con il primo motivo di ricorso la D.A. reitera le doglianze già avanzate in sede di appello, secondo cui nessuna condotta le era rimproverabile, in quanto, priva di adeguate competenze tecniche, si era rivolta ad un professionista che, nella parte relativa al dislivello, aveva omesso di segnalare lo stesso quale fonte di pericolo, non imponendo, conseguentemente, alcuna prescrizione. Sul punto entrambe le sentenze di merito hanno sottolineato come un anno prima circa dell'episodio e quindi non dopo lo stesso, come pure pare essere sostenuto dalla ricorrente la stessa C. aveva segnalato alla D.A. l'esistenza e la pericolosità dell'avvallamento. Conseguentemente l'imputata era pienamente a conoscenza della possibile insidia e le incombeva in considerazione della posizione rivestita il dovere di attivarsi come poi successivamente avvenuto, ma solo dopo il verificarsi dell'episodio per eliminarla o comunque per segnalare opportunamente il dislivello agli utenti dell'ascensore. 4. Sostiene inoltre la ricorrente che erroneamente sarebbe stata ritenuta la violazione delle li norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro nonostante la C. non fosse dipendente della imputata, ma del Comune di Roma presso i cui uffici si stava recando per ragioni di servizio. È sufficiente ricordare al riguardo che, in caso di lesioni o di omicidio colposo, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p. in tale evenienza, quindi, dovrà ravvisarsi l'aggravante di cui all'art. 590 c.p., comma 3, nonché il requisito della perseguibilità d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590 c.p., u.c., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante. È stato peraltro precisato che non occorre che vi sia la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore Sez. 4, Sentenza n. 18628 del 14/04/2010, Rv. 247461 . Né le conclusioni possono mutare valorizzando la circostanza che l'imputata non era il datore di lavoro della infortunata, giacché il principio cautelare ha una valenza generale ed inderogabile, tale da imporsi nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa. 5. Il ricorso va pertanto rigettato. Ne consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese in favore della parte civile che liquida in complessivi Euro 2000,00 oltre accessori come per legge.