Violenza sessuale come caso di cronaca: pubblicità data dagli inquirenti, ma la vittima ha diritto a rimanere nell’ombra

Condanna confermata per giornalisti e direttore di un quotidiano locale, colpevoli di avere pubblicato le generalità della vittima di una tentata violenza sessuale. Non regge la tesi difensiva secondo cui la pubblicità data al caso dagli inquirenti avrebbe portato a considerare acclarato il consenso della persona offesa alla divulgazione della notizia.

Dignità, riservatezza, e diritto a star lontano dai riflettori dei media pilastri, questi, fondamentali per la persona, e da considerare limite invalicabile per i giornalisti, anche quelli ‘d’assalto’. E questa granitica visione – applicata, in questo caso, a una persona rimasta vittima di una tentata violenza sessuale – non può essere scalfita neanche dalla evidente ‘pubblicità’ data alla vicenda direttamente dagli inquirenti. Cassazione, sentenza n. 42324, sezione Terza Penale, depositata oggi Nell’ombra. A conquistare l’attenzione dei media è, come sempre, un episodio di ‘cronaca nera’, una tentata violenza sessuale, più precisamente. Scenario una città del Nord Italia. Lì, in quel contesto, è un quotidiano locale a raccontare nei dettagli la terribile vicenda, anche grazie alle ‘tracce’ fornite dagli inquirenti. Ma i due giornalisti, che seguono il caso, commettono un grossissimo errore rendono pubbliche le generalità della vittima della tentata violenza sessuale. E, ovviamente, sono costretti a risponderne, assieme al direttore del quotidiano ecco spiegata la condanna per aver violato la riservatezza della persona offesa da atti di violenza sessuale , con annesso risarcimento dei danni , fissato a 15mila euro. Sanzione eccessiva, quella decisa in Appello? Assolutamente no, chiariscono i giudici della Cassazione, ribattendo alle rimostranze proposte dai due giornalisti e dal direttore del quotidiano. Elemento cruciale è il richiamo, fatto da giornalisti e direttore, alla pubblicità data al caso dagli inquirenti e da altri mezzi di informazione . Tale diffusione, però, chiariscono i giudici, non avrebbe mai dovuto spingere i giornalisti a ‘trascurare’ un aspetto fondamentale, ossia l’eventuale consenso della vittima alla pubblicazione delle proprie generalità . Detto più chiaramente, sarebbe stato necessario, comunque, verificare se la vittima era intenzionata ad affrontare i riflettori dei media, o se, invece, aveva scelto di rimanere nell’ombra Ma questo approfondimento è mancato. Di conseguenza, è logico considerare evidenti la negligenza e la carenza di professionalità mostrate dai giornalisti, e, per questo, è indiscutibile il comportamento colposo , a loro addebitabile, che deve condurre alla conferma della condanna.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 25 giugno – 15 ottobre 2013, n. 42324 Presidente Fiale – Relatore Franco Svolgimento del processo Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Trieste confermò la sentenza emessa il 4.3.2010 dal giudice del tribunale di Udine, che aveva dichiarato O.C.A. e M.P. colpevoli del reato di cui all’art. 734 bis cod. pen. e F.A. del reato di cui agli artt. 57 e 734 bis cod. pen. per avere i primi due divulgato con articoli pubblicati sul Messaggero Veneto le generalità di una persona offesa dal delitto di cui all’art. 609 bis cod. pen. e il terzo omesso, quale direttore del quotidiano, di esercitare il controllo necessario ad impedire la divulgazione, e li aveva condannati alle pene ritenute di giustizia, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile, liquidati in € 15.000,00. Gli imputati, a mezzo dell’avv. P.F., propongono ricorso per cassazione deducendo 1 mancanza di motivazione in ordine al punto decisivo della controversia relativo alla circostanza che gli imputati avevano la ragionevole convinzione di un consenso della persona offesa alla divulgazione della notizia, a causa della pubblicità data al caso dagli inquirenti. E’ quindi configurabile l’ipotesi dell’esimente putativa di cui all’art. 59 cod. pen., applicabile anche alle contravvenzioni. L’indagine sul punto è stata omessa dai giudici del merito, i quali hanno ritenuto applicabile una sorta di presunzione di colpevolezza per le contravvenzioni. 2 inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 734 bis cod. pen. o, in via subordinata, mancanza di motivazione su un ulteriore punto decisivo, costituito dal fatto che l’art. 734 bis si riferisce alle vittime di alcuni reati, fra i quali quello di cui all’art. 609 bis cod. pen., mentre nella specie la parte civile è stata vittima non di una violenza sessuale ma solo di un tentativo di violenza sessuale. Motivi della decisione Il primo motivo è infondato. E’ difatti pienamente congrua ed adeguata la motivazione con la quale la corte d’appello ha escluso che gli imputati potessero avere una ragionevole convinzione di un consenso della persona offesa alla divulgazione della notizia, stante la pubblicità che il caso aveva avuto. Ha invero osservato la sentenza impugnata che la parte lesa non aveva mai prestato il proprio consenso alla pubblicazione delle complete generalità e tale circostanza avrebbe potuto essere facilmente verificata dagli autori dell’articolo i quali, invece, avevano fatto, negligentemente, affidamento sulla pubblicità data al caso dagli inquirenti e da altri mezzi di informazione. La corte d’appello ha correttamente ritenuto che la mancanza della dovuta verifica, riconducibile a negligenza o carenza di professionalità, integrasse l’elemento della colpa, sufficiente per la sussistenza dell’elemento soggettivo della contravvenzione. Il comportamento colposo, poi, è stato rinvenuto nel fatto che i redattori dell’articolo e la direzione del quotidiano, prima di pubblicare le generalità della vittima del reato sessuale, non avevano compiuto il benché minimo accertamento per verificare l’esistenza del consenso della stessa a tale pubblicazione. Il secondo motivo è inammissibile in quanto consiste in una censura nuova non dedotta con l’atto di appello, e che non può quindi essere proposta per la prima volta in questa sede di legittimità. Il motivo è comunque manifestamente infondato perché l’art. 734 bis cod. pen., nel richiamare l’art. 609 bis, si riferisce al reato di violenza sessuale sia consumato sia tentato. Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.