Molestie telefoniche punibili solo a titolo di dolo

L’elemento psicologico del reato ex art. 660 c.p. consiste nella coscienza e volontà della condotta tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare e disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione di operare per un fine non biasimevole, o addirittura per il ritenuto conseguimento della soddisfazione di un proprio diritto, con modalità legali.

Lo ha stabilito la Prima sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33267, depositata il 31 luglio 2013. La contravvenzione non ha natura di reato necessariamente abituale. Un uomo viene condannato per aver effettuato nelle ore notturne due telefonate insolenti partite dall’utenza cellulare in suo uso e diretta al telefonino della persona offesa. La sentenza di condanna viene confermata dalla Suprema Corte che coglie l’occasione per fornire alcune importanti puntualizzazioni sugli elementi costitutivi della contestata fattispecie contravvenzionale. In primo luogo, i giudici di legittimità confermano che il reato ex art. 660 c.p. non è necessariamente abituale potendosi realizzare anche con una sola azione Cass. pen., sez. I, 12 novembre 2009, n. 36 anche una sola telefonata effettuata dopo la mezzanotte è da considerarsi molestia” ed integra, pertanto, il reato di cui all’art. 660 c.p. nella specie, si è ritenuto che l’ora della telefonata dimostrava l’evidente intenzione dell’ex marito di molestare l’ex moglie e non già di vedere il figlio, che a quell’ora avrebbe dovuto dormire . L’affermazione del carattere abituale della fattispecie di molestie operata talvolta dalla giurisprudenza deve ricollegarsi alla circostanza che, in assenza della previsione nel codice penale italiano di una specifica figura di reato di atti persecutori, il fenomeno dello stalking veniva generalmente ricondotto al reato contravvenzionale di molestie art. 660 c.p. , peraltro inidoneo a colpire lo stalker e a prevenire la possibile escalation dei suoi atti persecutori. Risultavano, in particolare, puniti ai sensi dell'art. 660 c.p. i comportamenti che, non integrando alcun delitto specifico contro la libertà sessuale in quanto non idonei a coartare la volontà della vittima, risultino tuttavia molesti nei confronti di essa. L'interesse tutelato dall'art. 660 c.p., peraltro, è tradizionalmente individuato nell'ordine pubblico, considerato nel suo particolare aspetto della pubblica tranquillità nella dimensione generale dell'interesse tutelato trovano ragione la procedibilità d'ufficio per la contravvenzione e la conseguente attuazione della tutela penale a prescindere dalla volontà della persona molestata o disturbata. La Cassazione, proprio per colmare la lacuna della mancata punibilità dello stalking, ha talvolta ricondotto gli atti persecutori nel reato di molestie o disturbo alle persone ex art. 660 c.p. manipolando la relativa contravvenzione attraverso la modifica del bene giuridico tutelato spostando l’attenzione dalla tranquillità pubblica alla quiete privata cfr., Cass. Pen. n. 12303/2002, in Ced Cass. pen., n. 221373 , finendo per incidere anche sugli elementi costitutivi del reato, trasformando la contravvenzione da reato di mera condotta che si consuma, come detto, anche con una sola azione di per sé idonea ad arrecare molestia a reato abituale, integrata, ad esempio, dalla condotta dell’ex coniuge che ripetutamente e insistentemente segue con l’auto la vittima, per motivi di rivalsa Cass. Pen. n. 2113/2008 . L’introduzione del delitto di atti persecutori introdotto dall’art. 7, d.l. n. 11/2009, conv. legge n. 38/2009 ha finito per far sussumere le molestie telefoniche nel reato di cui all’art. 612-bis c.p., ricorrendone gli altri elementi costitutivi, e la giurisprudenza di legittimità è tornata a spostare l’attenzione del bene giuridico del reato di cui all’art. 660 c.p. alla tranquillità pubblica il reato di molestia o disturbo alle persone rileva non già e solamente in termini di protezione della sfera intima dei privati, quanto e soprattutto per l’incidenza che il turbamento ha sull’ordine pubblico bene precipuo che l’ordinamento intende proteggere è, infatti, la tranquillità pubblica, e non l’altrui vita privata e l’altrui vita di relazione Cass. Pen. n. 22055/2013 . Petulanza o altro biasimevole motivo della molestia. La sentenza n. 33267/13 afferma che nell’interpretazione del carattere di petulanza o di altro biasimevole motivo occorre riferirsi all’ idoneità a molestare e disturbare il soggetto passivo. Anche su tale aspetto, la Suprema Corte si inserisce nel consolidato solco interpretativo per il quale la quantità, gli orari, la concentrazione temporale e le modalità delle chiamate, anche qualora le stesse risultino interrotte prima o subito dopo la risposta, costituiscono indubbiamente una ingiustificata interferenza nell’altrui sfera privata, capace di turbarne la serenità e nel complesso sono riconducibili a quel modo di agire indiscreto e impertinente che integra il concetto di petulanza Cass. Pen. n. 29971/2008 . La Cassazione ha esteso tale principio anche con riferimento alle telefonate mute integrano il reato di molestie telefoniche ex art. 660 c.p. se si fanno telefonate mute verso persone per le quali si nutre antipatia, tenuto anche conto della lunga protrazione delle condotte lesive ed alla rilevanza ed intensità del pregiudizio che notoriamente le molestie insistentemente realizzate con il mezzo del telefono tra l'altro ricorrendo ad oggettivamente allarmanti chiamate mute recano al bene giuridico della tranquillità individuale Cass. Pen. n. 21253/2007 e n. 8068/2010 . Da ultimo, tale principio è stato affermato da Cass. Pen. n. 20200/2013, in un caso di dodici telefonate mute, della durata di un secondo ciascuno, nonostante la parte lesa avesse inviato all’imputato un sms di protesta subito dopo il primo contatto telefonico il che costituisce ulteriore aumenti per qualificare come molesti i contatti telefonici subiti dalla persona offesa, essendo stata quest'ultima pur sempre costretta a subire l'arrogante invadenza e la continua ed inopportuna intromissione dei ricorrente nella sua sfera personale . L’elemento soggettivo del reato di molestie incompatibile con la colpa. La sentenza in rassegna statuisce che il reato di molestia o disturbo delle persone, pur avendo la veste formale di una contravvenzione, è punibile solo a titolo di dolo essendo necessario, per l’affermazione della penale responsabilità sotto il piano soggettivo, la volontà verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell’altrui sfera psichica. In particolare, per gli ermellini, l’elemento psicologico del reato ex art. 660 c.p. consiste nella coscienza e volontà della condotta tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare e disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione di operare per un fine non biasimevole, o addirittura per il ritenuto conseguimento della soddisfazione di un proprio diritto, con modalità legali . E così, in un precedente arresto, si è rigettata la tesi che si fosse agito nelle condotte moleste per un obiettivo non biasimevole, sostenuta dalla moglie tradita che chiamava in continuazione il numero aziendale dell’amante del marito. Per i giudici di legittimità il reato di molestie sussisteva trattandosi di telefonate, per quasi un anno, e non poteva reggere l’ipotesi del tentativo della moglie di contattare il marito, nonostante la donna abbia chiamato all’amante Cass. Pen. n. 25459/2012 . Allo stesso modo, è stata confermata la condanna per una donna che con soli due messaggi, in un arco temporale di oltre una settimana, comunicava alla persona offesa che il marito la tradiva. Anche in tal caso, oltre, ad essere stato riconosciuto il disagio non solo personale, ma familiare subito dalla persona destinataria della comunicazione, non è stata accolta la tesi del motivo non biasimevole sostenuta dall’imputata. Il dolo della fattispecie contravvenzionale è stato escluso dalla Suprema Corte solo qualora si sia trattato di un episodio isolato un solo messaggio notturno sul cellulare e motivato dall’idea di compiere uno scherzo Cass. Pen. n. 45560/2012, che ha annullato la condanna nei confronti di un ragazzo, alla luce delle troppe le lacune motivazionali della sentenza, soprattutto tener conto di un quadro probatorio che certifica un solo episodio, e peraltro senza legarlo ad alcuna motivazione precisa .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 11 giugno - 31 luglio 2013, n. 33267 Presidente Giordano – Relatore Caprioglio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 24,11.2011 il tribunale di Sciacca condannava S.D. per il reato di cui all'art. 660 cod.pen. alla pena di Euro 400 di ammenda, oltre che al risarcimento del danno, per avere recato molestia e disturbo a P.M. effettuando nelle ore notturne due telefonate insolenti, partite dall'utenza cellulare in suo uso e diretta all'utenza cellulare della P. , che abitava in omissis . La sentenza evidenziava che costituiva dato inconfutabile che le telefonate erano partite dall'utenza dell'imputato ed erano giunte a quella della P. , visto che S. non negava di essere stato l'autore delle due telefonate notturne il contrasto di versioni riguardava il contenuto delle due telefonate, atteso che la P. rappresentava che nel corso della prima telefonata sopraggiunta in piena notte una voce maschile le aveva chiesto se stesse dormendo avuta risposta affermativa, le diceva che doveva farle una domanda la donna opponeva all'interlocutore di aver sbagliato numero, cosicché l'uomo le rispondeva di no, affermando che stava cercando proprio lei quindi le chiedeva se fosse sola, al che la donna interrompeva la telefonata, pensando che potesse essere stato il suo ex marito. Con la seconda telefonata invece l'uomo le aveva chiesto se stesse dormendo ed alla risposta negativa della donna le faceva sentire dei gemiti di godimento sessuale di una donna, aggiungendo che la prossima volta lo avrebbe fatto provare a lei. A quel punto la P. interrompeva la telefonata e chiamava i carabinieri, temendo che le potesse capitare qualcosa di brutto. L'imputato ammetteva di aver composto il numero della P. in entrambe le occasioni, assumendo di aver ricevuto il numero da persona con cui era entrato in contatto via chat aggiungeva che la prima volta aveva interrotto lui la telefonata temendo di aver sbagliato interlocutrice, mentre nella seconda occasione negava di aver pronunciato le frasi riportate dalla donna, seppure avesse dichiarato di non ricordare bene cosa avesse detto. Il giudice riteneva che non vi era ragione di dubitare della rappresentazione della persona offesa che non conosceva l'imputato che se vero fosse che questi ebbe il dubbio di avere sbagliato numero la prima volta, non si vede come abbia potuto ricomporre lo stesso numero in una seconda occasione, in pieno orario notturno senza essere animato da dolo quanto meno eventuale. Era comunque ravvisabile quanto meno la colpa in capo all'imputato per non aver adeguatamente accertato l'identità della persona chiamata prima di profferire le frasi riferite dalla persona offesa. Di qui la condanna per il reato e per il danno arrecato. 2. Avverso detta pronuncia, ha interposto ricorso per cassazione l'imputato pel tramite del suo difensore per dedurre violazione di legge, carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione il tribunale dopo aver constatato la divergenza tra le dichiarazioni della persona offesa e quelle dell'imputato ha attribuito maggiore credibilità a quelle della prima, senza considerare l'interesse economico che muoveva la medesima non solo, ma neppure venne tenuto in conto che, quanto alla seconda telefonata, la donna potesse avere mal percepito i rumori sentiti e travisato le parole dell'interlocutore, tanto più che si trovava in piena causa di separazione personale molto conflittuale per sua stessa ammissione, avendo temuto che il marito potesse nuovamente attentare alla integrità della madre a cui aveva causato nel OMISSIS una doppia frattura. Viene contestato che siano state utilizzate senza il consenso della difesa dell'imputato le dichiarazioni della persona offesa rese in sede di querela. La sentenza poi non avrebbe chiarito per quale ragione la versione patrocinata dall'imputato doveva ritenersi meno credibile di quella della persona offesa, visto che il medesimo ha ammesso di esser autore delle due telefonate, aggiungendo di aver avuto il numero telefonico da persona conosciuta tramite chat ha assunto di aver interrotto lui le telefonate perché fu assalito dal dubbio che non si trattasse della persona che intendeva cercare. L'asserzione che la condotta sarebbe stata commessa per un motivo biasimevole sarebbe apodittica e la cosa è particolarmente grave se solo si consideri che la condanna intervenne proprio in relazione al contenuto della seconda telefonata, in ragione della preferenza accordata alla versione della persona offesa. Cosicché in punto di diritto la difesa rileva che la configurabilità del reato di cui all'art. 660 cod. pen. confligge con i principi fissati in numerose sentenze, secondo cui occorre per integrare il reato una condotta reiterata e che non sarebbero sufficienti due sole telefonate per configurare la petulanza. Quanto poi all'elemento soggettivo del reato, non sarebbe stato argomentato sulla volontà dell'imputato di arrecare molestia, assumendo che in ogni caso sarebbe stato sufficiente ad integrare l'elemento soggettivo il dolo eventuale o addirittura la sola colpa. Laddove la formulazione della norma presuppone il dolo specifico e cioè che il soggetto agisca per un fine particolare, che è quello di interferire inopportunamente nell'altrui sfera di libertà. Dolo specifico che è incompatibile con il dolo eventuale, dal che risulterebbe evidente l'errore in cui sarebbe incorso il giudice a quo. Quanto alla ritenuta sufficienza della colpa per integrare il reato, il giudice a quo avrebbe dovuto escludere la prima telefonata nel caso quindi che il S. non abbia omesso di identificare l'interlocutrice, l'intento del ricorrente era quello di parlare con persona che aveva conosciuto tramite chat, per cui si verserebbe in una situazione di errore che escluderebbe la configurazione del reato. Viene poi lamentato che non sia stato concesso il beneficio di cui all'art. 175 cod.pen Considerato in diritto Il ricorso è infondato e deve essere rigettato. Il discorso giustificativo della sentenza impugnata risulta fondato su un solido apparato argomentativo che parte dalle dichiarazioni della persona offesa. Secondo la costante lezione di questa Corte, le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste a base dell'affermazione di colpevolezza dell'imputato, previa verifica della loro credibilità oggettiva e soggettiva, di talché tale deposizione ben può essere assunta da sola come fonte di prova, purché venga sottoposta al riscontro di credibilità. La vantazione della credibilità della persona offesa rappresenta questione di fatto, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni Sez. Un. 19.7.2012, n. 41461 . Va quindi immediatamente rilevato che il giudice a quo ha adempiuto all'onere di valutazione, senza incorrere in alcuna caduta, avendo osservato in primis che la testimone ebbe correttamente ad indicare l'utenza attraverso cui ebbe a subire le molestie, senza lontanamente conoscere il suo titolare, tanto che l'imputato dovette ammettere di esser stato l'autore delle due chiamate la stessa ha plausibilmente spiegato perché dopo la prima telefonata non si allarmò, riconducendo il fatto all'ex marito, ma che dopo la seconda, chiamò i carabinieri proprio per il contenuto molto spinto della conversazione che lasciava prevedere anche un accesso dell'uomo presso la sua abitazione con intenti libidinosi in piena notte. Per contro, l'imputato non ha saputo spiegare il perché delle due chiamate in orario notturno, assumendo genericamente di aver sbagliato numero, senza giustificare con maggiore convinzione come potesse essersi sbagliato anche la seconda volta. In tale contesto il giudizio espresso sulla credibilità della testimone-parte offesa, appare adeguato, aderente alle evidenze disponibili e strutturato sotto il profilo della logica. Più che motivata e corretta è la deliberazione di aver dato maggiore credo alla testimone-parte offesa che non all'imputato, il cui diritto a mentire riconosciutogli dall'ordinamento impedisce di dare per scontato quanto da lui asserito. Tanto più in un contesto di assoluta implausibilità da cui è connotata la tesi difensiva secondo cui l'imputato si sarebbe sbagliato non solo la prima volta, ma anche la seconda volta a comporre un numero che aveva ricevuto via chat e secondo cui l'imputato non ricordava il contenuto delle telefonate operate in orario notturno, ancorché quindi facilmente ricollegabili ad un'esigenza specifica, se mai fosse stato mosso da un'alternativa finalità. La motivazione che lo spinse alle telefonate in piena notte verso un'utenza non conosciuta non fu mai spiegata in modo adeguato così come inconcepibile è che il S. si sia sbagliato anche la seconda volta a comporre il numero desiderato la durata delle due telefonate e soprattutto della seconda di 205 secondi, quindi di più di tre minuti impone di ritenere che si sia trattato di conversazioni che non si chiusero immediatamente, una volta constatata la diversità della persona ricercata. Il dato della seconda telefonata impedisce di ritenere che l'azione del S. sia stata frutto di errore, dovendosi ritenere proprio alla luce della seconda chiamata che il medesimo fosse animato da una volontà di raggiungere la P. via telefono a fini di molestia e dunque da dolo diretto. L'ipotesi espressa peraltro in via di estremo subordine dal primo giudice di condotta sorretta da sola colpa non è sostenibile, poiché si ha riguardo a fattispecie che richiede sotto il profilo soggettivo la volontà della condotta e la direzione della volontà verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell'altrui sfera di libertà Sez. 1, 1.10.1991, n. 11755 rv 188987 . Il passaggio motivazionale va ritenuto del tutto superfluo, avendo dato contezza il giudice in prima battuta di una condotta posta in essere con piena e consapevole volontà di petulanza. È infatti principio affermato da questa corte quello secondo cui l'elemento soggettivo del reato in oggetto consiste nella coscienza e volontà della condotta tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare e disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non biasimevole, o addirittura per il ritenuto conseguimento della soddisfazione di un proprio diritto, con modalità non legali Sez. 1, 12.12.2003, n. 4053, rv 226992 . Va poi ricordato, a confutazione delle argomentazioni difensive, che la contravvenzione in questione non ha natura di reato necessariamente abituale, sicché può essere realizzato anche con una sola azione Sez. 6, 23.11.2010, n. 248982, rv 248982 Sez. 1, 8.7.2010, n. 29933, rv 247960 . Infine, quanto alla mancata concessione del beneficio di cui all'art. 175 cod. pen., non si ravvisa alcuna omissione, atteso che nessuna richiesta in tale senso venne avanzata nel giudizio di merito, in cui le conclusioni rassegnate furono solo in termini di assoluzione. La mancata concessione di un beneficio non è deducibile con il ricorso per cassazione, quando il beneficio non è stato richiesto nel corso del giudizio di merito Sez. 4, 29.10.2008, n. 43125, rv 241370 . Il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.