Chi molesta o disturba altre persone turba l’ordine pubblico

Il reato di Molestia o disturbo alle persone art. 660 c.p. rileva non già e solamente in termini di protezione della sfera intima dei privati, quanto e soprattutto per l’incidenza che il turbamento ha sull’ordine pubblico bene precipuo che l’ordinamento intende proteggere è, infatti, la tranquillità pubblica, e non l’altrui vita privata e l’altrui vita di relazione.

Questo è quanto ha stabilito la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione con sentenza n. 22055, depositata il 23 maggio 2013, rigettando il ricorso proposto da un genero per aver compiuto l’ascritto reato, a mezzo di ripetute chiamate telefoniche effettuate all’interno di un medesimo disegno criminoso, nei confronti del suocero, al preteso fine di esercitare un proprio diritto, a seguito del volontario abbandono della casa coniugale da parte di moglie e figlia. Il molestatore si lamenta del reato di molestie. Gli ermellini, con la sentenza in esame, hanno confermato il reato ascritto, in primo grado, dal Tribunale di Monza in composizione monocratica nei confronti di un imputato, reo di aver molestato e disturbato, con ripetute chiamate telefoniche realizzate all’interno di un medesimo disegno criminoso, il proprio suocero, anche in epoca successiva all’interruzione della relazione con la figlia di quest’ultimo, moglie del primo, allontanatasi dalla casa coniugale e rifugiatosi giustappunto dai suoi genitori. Mentre l’imputato contestava la manifesta illogicità della motivazione della pronuncia di prime cure in ordine alla sussistenza di tutti elementi costitutivi del reato contestato, la Suprema Corte di Cassazione, non solo ha rigettato il ricorso, dichiarandolo inammissibile, ma ha pure finito per condannarlo al pagamento delle spese processuali, al pagamento della somma di mille euro in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla costituita parte civile liquidate in euro duemilacinquecento il tutto oltre alla pena già addebitatagli, pari a trecento euro di multa, e al risarcimento danni a favore della parte offesa. Chi disturba il privato disturba il pubblico. In punto di diritto, la Prima Sezione Penale di Cassazione ha compiuto una rapida, ancorché esaustiva disamina del reato di Molestia o disturbo alle persone , ex art. 660 c.p., esaminando e verificando la contestata ricorrenza di tutti i suoi elementi costitutivi nel caso de quo in particolare, soffermandosi sulla condotta e sull’elemento soggettivo. La condotta utile a integrare la contravvenzione in oggetto è quella, di carattere oggettivo e a forma libera potendo manifestarsi secondo non tipizzati comportamenti , idonea a molestare e disturbare terze persone, interferendo nell’altrui vita privata e nell’altrui vita di relazione. Fondamentale e chiara la precisazione che i giudici pongono in merito al bene realmente difeso dall’ordinamento esso non consiste – come potrebbe apparire, prima facie – nella protezione della sfera intima di privati cittadini, quanto nel turbamento che l’incriminata condotta provoca sull’ordinamento pubblico, da leggersi in termini di lesa tranquillità pubblica. È così, allora, che da un lato, la tutela dei cittadini avviene in maniera riflessa, compiendosi la tutela cd. privata anche e senza una manifestazione di volontà da parte delle stesse persone offese dall’altro, la valutazione in chiave meramente oggettiva del contegno tenuto dal reo, che è sufficiente si estrinsechi con un atto di interferenza nell’altrui vita privata e nell’altrui vita di relazione. Tanto premesso, è facile comprendere come, per ciò che riguarda l’elemento soggettivo, è sufficiente ricorra il dolo specifico di interferire in modo inopportuno nell’esistenza di altri soggetti e che ciò avvenga con i prescritti caratteri della petulanza e del biasimevole motivo, rimanendo del tutto in disparte le pulsioni che hanno spinto il molestatore di turno di turno sia anche se tali pulsioni muovano dalla convinzione di esercitare un proprio preteso diritto nella fattispecie concreta, l’importunare il suocero con plurime chiamate telefoniche da quando moglie e figlia si erano rifugiate nella casa natia della prima, abbandonando la casa coniugale .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 9 aprile - 23 maggio 2013, n. 22055 Presidente Giordano – Relatore Cassano Ritenuto in fatto 1. Il 23 marzo 2011 il Tribunale di Monza, in composizione monocratica, dichiarava A C.P. colpevole del reato previsto dagli artt. 81, 660 c.p. per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in tempi diversi, per petulanza o, comunque, biasimevoli motivi, recato molestia o disturbo a M.D. , effettuando sul suo cellulare, numerose telefonate, e lo condannava, senza applicare l'aumento per la continuazione, alla pena di trecento Euro di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile. Il giudice fondava l'affermazione di penale responsabilità sulle dichiarazioni della parte offesa suocero dell'imputato , di C.T. , sulle risultanze dei tabulati telefonici, evidenzianti plurime chiamate dell'imputato alla parte offesa in taluni casi anche più volte al giorno e in altri anche in orario serale in epoca successiva alla separazione di fatto dalla moglie. 2.Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione personalmente l'imputato, il quale lamenta manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato contestato e al diniego delle circostanze attenuanti generiche. Osserva in diritto Il ricorso è manifestamente infondato. 1. Con la disposizione prevista dall'art. 660 c.p. il legislatore, attraverso la previsione di un fatto recante molestia alla quiete di un privato, ha inteso tutelare la tranquillità pubblica per l'incidenza che il suo turbamento ha sull'ordine pubblico, data l'astratta possibilità di reazione. Pertanto l'interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa e la tutela privata viene accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate o disturbate Cass., Sez. I, 29 settembre 1994, n. 11208 Cass., Sez. I, 1 luglio 2002, n. 25045, rv. 238134 Cass., Sez. I, 30 ottobre 2007, n. 43704, rv. 238134 . Il reato consiste in qualsiasi condotta oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone, interferendo nell'altrui vita privata e nell'altrui vita di relazione. La contravvenzione prevista dall'art. 660 c.p., richiedendo che l'agente sia mosso da petulanza o da altro biasimevole motivo, suppone il dolo specifico, consistente, come in precedenza detto, nella volontà di interferire inopportunamente nell'altrui sfera di libertà. Ai fini della configurabilità del reato non hanno rilievo le pulsioni che hanno spinto ad agire e, pertanto, sussiste il dolo del reato in questione anche nel caso in cui si arrechi molestia o disturbo alle persone allo scopo di esercitare un proprio diritto o preteso diritto, allorché ciò avvenga con modalità arroganti, impertinenti o vessatorie. Per petulanza, ai fini della configurabilità del reato in questione, deve intendersi un atteggiamento di insistenza eccessiva e, perciò, fastidiosa, di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell'altrui sfera Cass., Sez. I, 13 febbraio 1998, n. 7044 . Il biasimevole motivo è quello che, pur diverso dalla petulanza, è ugualmente riprovevole in se stesso o in relazione alla persona molestata. 2.La sentenza impugnata è conforme ai principi in precedenza enunciati, laddove, con puntuale richiamo alle circostanze di fatto - in quanto tali insindacabili in sede di legittimità - ha ricostruito puntualmente le modalità delle condotte poste in essere, l'elemento soggettivo sotteso alle stesse, da inquadrare, in stretta correlazione causale e cronologica, nel più ampio contesto di tensioni interpersonali riconducibili alla separazione di fatto dalla moglie che aveva lasciato con la figli la casa coniugale per tornare a vivere con i genitori. In realtà, il ricorrente, pur denunziando formalmente una violazione di legge in riferimento ai principi di valutazione della prova di cui all'art. 192.2 c.p.p., non critica in realtà la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, bensì, postulando un preteso travisamento del fatto, chiede la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito, inammissibile invece in sede d'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata abbia - come nella specie - una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze del quadro probatorio, indicative univocamente della coscienza e volontà del ricorrente di arrecare molestie e disturbo, per petulanza e altro biasimevole motivo a Ca Co. e B D.S. . 3. Alla dichiarazione di inammissibilità segue di diritto la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost., sent. n. 186 del 2000 , al versamento a favore della cassa delle ammende di sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in Euro mille, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., nonché alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla parte civile da liquidare in Euro duemilacinquecento, oltre accessori come per legge, tenuto conto della natura del processo, della complessità delle prestazioni difensive, delle tariffe forensi. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla parte civile che liquida in Euro duemilacinquecento, oltre accessori come per legge.