Droga leggera, coltivazione ‘privata’, nessun complice: ma è confermata la gravità del fatto

Respinta la tesi dell’uomo, il quale aveva sostenuto l’idea che la sua attività illecita, dovuta a una pressante emergenza economica, fosse sostanzialmente artigianale. A smentire questa visione non solo i numeri delle piante e della sostanza sequestrate, ma anche la preparazione del luogo utilizzato per la coltivazione.

Difficoltà economiche, da un lato, necessità impellente di soldi, dall’altro soluzione? Puntare sull’imprenditoria individuale. Ma conviene scegliere settori consentiti dalla legge Perché la scelta di puntare su un’ampia coltivazione di canapa indiana, nonostante si tratti di ‘droga leggera’ e ci si trovi di fronte a una struttura ‘dilettantistica’, è comunque qualificabile come fatto grave Cassazione, sentenza n. 14405/2013, Terza Sezione Penale, depositata oggi . Numeri. Almeno in primo e in secondo grado, comunque, l’attività messa in piedi non viene affatto ritenuta ‘artigianale’. E i numeri, in questo caso, sono impietosi quasi 90 le piante di canapa indiana coltivate, per un peso complessivo che supera i 2 chilogrammi e mezzo, e oltre 350 grammi di canapa indiana in ‘deposito’. Nessun dubbio, quindi, sugli addebiti da muovere nei confronti dell’uomo finito sotto accusa produzione e detenzione di sostanze stupefacenti. E nessun dubbio, ovviamente, neanche sulla pronunzia di condanna. Professionale. Secondo l’uomo, però, il ‘peso specifico’ dei fatti va rivalutato in maniera diversa. Più precisamente, sarebbe stato lecito riconoscere l’attenuante della lieve entità – sostiene il legale nel ricorso per cassazione – soprattutto tenendo presente la carenza di carattere professionale e continuativo nella condotta dell’uomo, la mancanza di un’attività organizzata con l’ausilio di complici e, infine, la natura di droga leggera dello stupefacente sequestrato . A proprio discapito, peraltro, l’uomo ricorda l’emergenza che lo ha spinto a delinquere , ossia la necessità di acquistare la tomba di famiglia pur vivendo una situazione economica precaria . Complici o non complici, però, ribattono i giudici, non si può certo pensare di avere di fronte un dilettante. Anzi, proprio considerando il quantitativo di piante e di stupefacente sequestrato e il luogo allestito per la coltivazione – con tanto di lampade, termometro e areatori –, si può legittimamente parlare di attività professionale. Per questo, è assolutamente impensabile ipotizzare una minore gravità dei fatti – ecco confermata la pronunzia emessa in secondo grado –, così come è poco verosimile l’affermazione dell’uomo sulla decisione di svolgere l’attività di spaccio per necessità contingenti legate all’acquisto della tomba di famiglia .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12 dicembre 2012 – 27 marzo 2013, n. 14405 Presidente Mannino – Relatore Andronio Ritenuto di fatto 1. - Con sentenza del 31 gennaio 2012, la Corte d'appello di Napoli ha confermato, quanto alla ritenuta responsabilità penale, la sentenza dei GUP del Tribunale di Torre Annunziata del 14 luglio 2011, resa a seguito di giudizio abbreviato, con la quale l'imputato era stato condannato, per il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 1-bis, dei d.P.R. n. 309 dei 1990, per avere coltivato 87 piante di canapa indiana del peso complessivo di kg 2,556 e detenuto, al fine di cessione, g. 354 di canapa indiana con recidiva reiterata specifica. La Corte d'appello ha escluso la ritenuta continuazione Interna fra gli episodi e ha, conseguentemente, rideterminato la pena in diminuzione. 2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo 1 la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, quanto al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui al comma 5 dell'art. 73 citato, perché la Corte d'appello avrebbe ritenuto sussistente il carattere professionale e continuativo della condotta dell'imputato, senza adeguatamente motivare sulla provenienza della canapa indiana sequestrata da precedenti coltivazioni e senza considerare la mancanza di un'attività organizzata con l'ausilio di complici e la natura di droga leggera dello stupefacente sequestrato 2 la violazione dei richiamato art. 73, comma 5, perché detta circostanza attenuante sarebbe applicabile anche in presenza di un solo elemento da cui possa inferirsi la lieve entità dei fatto 3 la carenza e manifesta illogicità della motivazione quanto alle mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, perché la Corte d'appello non avrebbe considerato i motivi a delinquere, quali la necessità di acquistare la tomba di famiglia, in conseguenza dei gravi lutti subiti dall'imputato, nel quadro di una situazione economica precaria e in mancanza di precedenti penali rilevanti. Considerato in diritto 3. - Il ricorso è inammissibile, perché sostanzialmente diretto ad ottenere da questa Corte una rivalutazione del merito della decisione impugnata rivalutazione preclusa in sede di legittimità. 3.1. - I primi due motivi dì doglianza - che devono essere trattati congiuntamente, perché attengono entrambi alla configurabilità della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, dei d.P.R. n. 309 del 1990 - sono inammissibili, perché - come anticipato - con essi non si prospetta alcun sostanziale vizio nel percorso logico-motivazionale. La sentenza censurata reca, dei resto, una motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente sul punto, perché, ponendosi in totale continuità con la sentenza di primo grado, evidenzia che il quantitativo di piante e dl stupefacente sequestrato è ragguardevole e che esisteva un luogo all'uopo professionalmente allestito dall'imputato, con l'uso di lampade, termometro e areatori, evidente segno dell'abitualità nella perpetrazione degli illeciti. A tali risultanze fattuali la stessa Corte fa logicamente conseguire la non configurabilità di una minore gravità del fatto. 3.2. - Per le stesse ragioni è inammissibile anche il terzo motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, perché la Corte distrettuale ha basato la sua decisione sul punto sulla presenza di precedenti penali specifici e sull'assoluta irrilevanza ai fini dell'accertamento della verità delle' dichiarazioni confessorie rese nell'udienza di convalida elementi che rendono non credibile la motivazione addotta dall'imputato già intrinsecamente poco verosimile di avere deciso di svolgere l'attività di spaccio per, necessità contingenti legate all'acquisto della tomba di famiglia. 4. - Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese dei procedimento nonché quello dei versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1,000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.