Abiti troppo succinti in zona ad ‘alta densità’ di prostitute: multa per offesa alla pubblica decenza

Confermata la sanzione nei confronti di una giovane donna, fermata da un agente della Polizia di Stato. A suo carico l’aver indossato abiti succinti in luogo aperto al pubblico, arrecando così uno sfregio alla collettività. E in questa ottica può essere rilevante anche la sola possibile percezione di determinati comportamenti

Sempre più ‘moderni’ i costumi, sempre più ‘alta’ la soglia di tolleranza basta dare un’occhiata in giro per capirlo Ma, una tantum , è lecito ribadire i limiti, da considerare non superabili. Esemplare la pronuncia dei giudici della Cassazione – sentenza n. 47868, Terza sezione Penale, depositata oggi – con cui viene confermata l’ammenda a una donna per aver indossato abiti succinti . Zona ‘calda’. Evidente, già per il Giudice di pace, l’offesa alla pubblica decenza perpetrata da una ragazza, ‘beccata’, da un agente di polizia, in abiti succinti in luogo aperto al pubblico . Più precisamente, lo scenario è una strada già nota alle forze dell’ordine per la presenza costante di prostitute non a caso, lì vengono proposti, a più riprese, blitz per combattere il fenomeno. E l’atteggiamento tenuto dalla ragazza è assolutamente indicativo ella, difatti, viene evidenziato nella pronunzia del Giudice di pace, in luogo aperto al pubblico sostava lungo la via, indossando abiti succinti tali da lasciare scoperto il fondoschiena e le parti intime . Conseguenziale è la condanna a pagare una ammenda di 600 euro. Vivere civile. Secondo il legale della ragazza, però, la vicenda andrebbe riletta in maniera meno rigida. E, difatti, nel ricorso proposto in Cassazione, viene sostenuta la tesi della tenuità del fatto e della esiguità del danno perché l’episodio contestato non costituisce, ad avviso del legale, lesione del sentimento collettivo della più elementare costumatezza . Ma l’ottica dei giudici non viene modificata dalle riflessioni del legale della ragazza, anche perché la ricostruzione della vicenda è assolutamente chiarissima – così come messa ‘nero su bianco’ da un agente della Polizia di Stato – e da essa è assolutamente logico dedurre il compimento di atti contrari alla pubblica decenza . Peraltro, certi comportamenti, aggiungono i giudici, non debbono essere, per forza di cose, percepiti effettivamente ciò che conta è la mera possibilità della percezione . A rendere, poi, ancora più delicata la posizione della donna è non solo la gravità della condotta ma anche la insensibilità rispetto alla offesa arrecata alla collettività, comprovante il completo disinteresse alle interferenze negative che il comportamento avrebbe potuto determinare al comune vivere civile . Per tutte queste ragioni, quindi, è legittima non solo la censura morale ma anche quella giudiziaria, concretizzatasi, come detto, in un’ammenda pari a 600 euro.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 ottobre - 10 dicembre 2012, n. 47868 Presidente Squassoni – Relatore Gazzara Ritenuto in fatto Il Giudice di Pace di Bologna, con sentenza dell’8/3/2011, dichiarava M.P. responsabile del reato di cui all’art. 726 cod. pen., per avere, in luogo aperto al pubblico, compiuto atti contrari alla pubblica decenza, consistiti nel sostare lungo la via Lepido indossando abiti succinti tali da lasciare scoperto il fondo schiena e le parti intime, e la condannava alla pena di euro 600,00 di ammenda. Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la difesa della imputata, con i seguenti motivi - ha errato il decidente ad affermare che la condotta di cui al capo di imputazione integra una lesione dell’interesse pubblico, tutelato dall’art. 726 cod. pen., in quanto i fatti contestati non costituiscono una lesione del sentimento collettivo della più elementare costumatezza o, quantomeno, non sono tali da superare il limite di punibilità posto dall’art. 34, d.Lvo 274/2000 - illogicità e carenza di motivazione in ordine alla quantificazione del trattamento sanzionatorio. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. La argomentazione motivazionale, adottata dal decidente per ritenere concretizzato il reato contestato e in ordine alla attribuibilità dello stesso in capo alla prevenuta, si palesa logica e corretta. Il Giudice di Pace ha evidenziato che la descrizione dei fatti, fatta dal teste R., agente della Polizia di Stato, non lascia adito a dubbi sulla condotta posta in essere dalla prevenuta la P. si trovava sulla via pubblica Lepido, abbigliata in modo tale da fare vedere le parti intime del corpo, in particolare il seno e il fondo schiena, ed era in mutande, che lasciavano scoperti i glutei. Ad avviso del decidente, a giusta ragione, le emergenze istruttorie hanno permesso di ritenere, con certezza, la penale responsabilità della imputata, in quanto il comportamento dalla stessa assunto va inquadrato nella fattispecie prevista e punita dall’art. 726 cod. pen., né può ravvisarsi l’applicabilità del fatto lieve, di cui all’art. 34, d.Lvo 274/2000 la tipicità del reato in contestazione consiste nel porre in essere atti contrari alla pubblica decenza, con tale termine intendendosi indicare quegli atti, che, in sé stessi o a causa delle circostanze, rivestono un significato contrario alla pubblica decenza, assunti in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, e, ai fini della sussistenza del reato, non rileva che detti atti siano percepiti da terzi, essendo sufficiente la mera possibilità della percezione di essi, in quanto l’art. 726 cod. pen. tutela i criteri di convivenza e decoro, che, se non osservati e rispettati, provocano disgusto e disapprovazione, come nel caso in esame. Va specificato che il decidente, con argomentazione assolutamente esaustiva, non ha ravvisato di potere applicare la attenuante di cui all’art. 34, d.Lvo 274/2000, giustificando il diniego a tale beneficio in dipendenza della valutata gravità della condotta posta in essere dall’imputata, per cui non può essere ritenuto configurabile il vizio eccepito in impugnazione sul punto, visto che in sentenza viene data corretta contezza delle ragioni inibenti l’accoglimento della relativa istanza. Del pari corretta appare la argomentazione motivazionale, sviluppata dal decidente nella dosimetria della pena, vista la gravità della condotta, l’insensibilità della prevenuta all’offesa arrecata alla collettività, comprovante il completo disinteresse della P. alle interferenze negative che il suo comportamento avrebbe potuto determinare al comune vivere civile, nonché ritenuti i precedenti penali specifici a carico di costei. Tenuta conto, poi, della sentenza del 13/6/2000, b. 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la P. abbia proposto il ricorso senza essere in colpa nella determinazione di inammissibilità, la stessa deve, altresì, essere condannata al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente liquidata in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 1.000,00. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1.000,00.