Canapa indiana e marijuana, vademecum online per la coltivazione. La precedente assoluzione non può far passare l’idea che la norma penale sia ‘leggera’

Rimesso in discussione l’addebito mosso a un internauta per i ‘consigli’ relativi alle due piante, e per i quali era già stato ‘salvato’ in passato. Azzerata la nuova pronuncia d’assoluzione, emessa in secondo grado maggiore diffusione dei consigli e avvertenze ai lettori sulla illegalità delle coltivazioni mettono in dubbio la ridotta consapevolezza della gravità del fatto.

Repetita iuvant ma, di certo, non in ambito penale. Perché riproporre le stesse azioni – ossia diffondere una sorta di vademecum on line per la coltivazione della marijuana –, per cui si è già stati assolti, non rappresenta un episodio meno grave discutibile – chiarisce la Cassazione, con sentenza n. 17752, Quarta sezione Penale, depositata oggi – desumere una sorta di ‘tranquillità psicologica’, rispetto alla ipotesi di reato penale, dall’assoluzione ricevuta in passato. Istruzioni per l’uso Con una semplice ‘navigazione’ on line è possibile ‘scoprire’ il modus operandi per ‘ottimizzare’ la coltivazione ‘domestica’ di marijuana un internauta, in particolare, fornisce indicazioni ad hoc , ad esempio, per le fasi di semina, crescita e maturazione. L’approccio è da tecnico non a caso, già in passato era finito sotto accusa per identiche operazioni, sempre on line . All’epoca venne assolto Precedente storico. E anche ora la posizione dell’internauta – un uomo di mezza età – è salva. A sorpresa, difatti, dopo la condanna decisa dal Giudice dell’udienza preliminare, in Corte d’Appello si sceglie la strada dell’assoluzione dall’accusa di avere pubblicamente istigato alla coltivazione e alla consumazione di marijuana . Come si spiega questa pronuncia? Semplicemente, con la circostanza che l’uomo era stato assolto, in passato, da analoga imputazione . Più precisamente, i giudici di secondo grado sostengono la giustificabile ignoranza della portata esatta della norma incriminatrice , così come fissata nel ‘Testo unico sugli stupefacenti’, alla luce della pregressa sentenza , e, comunque, considerano il vademecum on line una semplice propaganda di un punto di vista anti-proibizionista . Psicologia. È il Procuratore Generale a tenere viva la vicenda, scegliendo la strada del ricorso in Cassazione e chiarendo di considerare assolutamente incomprensibile e inaccettabile la pronuncia della Corte d’Appello. E, in dettaglio, a suscitare perplessità è, soprattutto, il richiamo alla presunta buona fede dell’internauta esperto in coltivazione di marijuana, anche tenendo presente che è lo stesso internauta a mettere in guardia i destinatari delle sue informazioni circa l’illegalità della coltivazione di piante di marijuana o di canapa indiana . Come valutare il comportamento dell’uomo sotto accusa? Per i giudici di Cassazione, in premessa, il presunto condizionamento psicologico legato alla precedente assoluzione da analoga imputazione è tutto da valutare A questo proposito, significativo, rispetto alla precedente contestazione, è il fatto che l’uomo abbia aumentato i siti internet per veicolare le sue informazioni . E non trascurabile, per i giudici, è la furbizia di certe scelte egli, difatti, ha messo in guardia gli altri internauti sulla illegalità della coltivazione di piante da cui si ricavano prodotti stupefacenti , dimostrando così – viene sottolineato – di ben sapere la rilevanza penale della sua condotta , e, allo stesso tempo, ha frazionato i suoi ‘preziosi’ consigli in molti e diversi siti internet . Da tutto ciò, però, è logico desumere, in maniera chiara, secondo i giudici, la consapevolezza , da parte dell’uomo, della illeicità della coltivazione delle piante di marijuana e di canapa indiana ecco perché la pronuncia d’assoluzione deve essere azzerata, e la questione va rimessa nuovamente alla valutazione dei giudici d’Appello.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 24 gennaio – 10 maggio 2012, n. 17752 Presidente Marzano – Relatore D’Isa Ritenuto in fatto Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Trento ricorre in cassazione avverso la sentenza, in data 18.02.2011, della stessa Corte con la quale F.M., in riforma della sentenza di condanna del GUP del Tribunale di Rovereto del 15.12.2009, è stato assolto dal reato di cui all’art. 82 d.P.R. 309/90, perché il fatto non costituisce reato. Premette il ricorrente che il F. era stato giudicato in primo grado per avere pubblicamente istigato alla coltivazione e consumazione di marijuana mediante indicazioni su diversi siti internet sul modo di seminare, fra crescere, far maturare e ottenere una resa, provvedere al raccolto, con precisazione dei valori THC, CSD e CSN e pubblicizzando, inoltre, l’uso di lampade, fertilizzanti e bilance. Si denunciano vizio di motivazione e violazione di legge. Premette il ricorrente che la Corte distrettuale, dopo un’analisi dei comportamenti contestati con riferimento alla giurisprudenza di legittimità in materia, giunge ad una conclusione chiaramente colpevolista, ma, poi, con salto logico assolve l’imputato sostenendo la sua buona fede. Tale inaspettata conclusione per il ricorrente è fondata sulla circostanza che il F. in passato era stato assolto da analoga imputazione e, quindi, la Corte ha inteso riferirsi alla disposizione dell’art. 5 cod. pen. sostenendo la giustificabile ignoranza della portata esatta della norma penale incriminatrice, propiziata dalla pregressa sentenza. Rileva il ricorrente che la precedente sentenza non è stata citata per esteso e nei suoi punti salienti, sicché non è dato comprendere perché nel caso di specie si debba derogare al principio generale secondo il quale l’ignoranza della legge non scusa quando è lo stesso prevenuto a mettere in guardia i destinatari delle sue informazioni circa l’illegalità della coltivazione di piante dì marijuana o di canapa indiana. Con un ultimo motivo il Procuratore Generale evidenzia altro aspetto di violazione di legge laddove la Corte ha affermato che, quanto meno, nella volontà e rappresentazione presenti nell’animo del F., si tratterebbe di una semplice propaganda di un punto di vista antiproibizionista. Ritenuto in diritto Il ricorso va accolto. La motivazione della sentenza impugnata è affetta da contraddittorietà laddove, come rileva il ricorrente, da una premessa, con cui si evidenzia che i comportamenti contestati integrano, anche sulla scorta della giurisprudenza in materia di questa Corte, il reato contestato, si giunge alla assoluzione dell’imputato sul rilievo di un suo condizionamento psicologico dovuto ad una precedete assoluzione da analoga imputazione. Ma a ben vedere, ritiene il Collegio che non si tratti tanto di contraddittorietà della motivazione, che potrebbe essere coerente se effettivamente alla premessa corrispondesse la configurabilità di una effettiva inevitabilità dell’ignoranza della legge penale, piuttosto si verte in una palese violazione di legge per l’erronea interpretazione della disposizione dell’art. 5 del codice penale che, sebbene in sentenza non si sia fatto esplicito riferimento ad essa, la si ricava dal contesto globale della motivazione, laddove è stato affermato che considerata la precedente specifica vicenda giudiziaria dell’attuale imputato, già assolto per aver fatto cose non diverse da quelle oggi contestategli, deve essere valutata a suo favore la possibile implicazione di condizionamento psicologico determinato da quella decisione favorevole condizionamento che, verosimilmente, gli aveva indotto la convinzione di una liceità delle condotte, purché queste fossero attuate attraverso frammentazioni e le formali separazioni tematiche, tanto è vero che il F., successivamente, aveva anche aumentato il numero dei siti accessibili, portandoli da due iniziali ai numerosi individuati con l’indagine ultima . Innanzitutto, si conviene con il ricorrente sul rilievo che la Corte avrebbe dovuto, nel rilevare il condizionamento psicologico”, riportare anche i dati fattuali oggetto della precedente sentenza per verificarne l’identità e/o corrispondenza con quelli della odierna contestazione, questa carenza già di per sé rende la motivazione non congrua, ed anche contraddittoria infatti, nel momento in cui si rileva che, rispetto alla vicenda processuale premessa, il F. aveva anche aumentato i siti internet per veicolare le sue informazioni, già si evidenzia una significativa differenza di condotte. Ma ciò che rende palese l’erronea interpretazione della disposizione normativa in questione per altro è stato più volte affermato da questa Corte che l’indagine circa la buona fede” dell’imputato nel ritenere consentita la condotta contestata deve essere estremamente rigorosa, anche alla luce della pronunzia della Corte Costituzionale n. 364/1988 circa la inevitabilità dell’ignoranza della legge penale nell’aver ritenuto da parte della Corte distrettuale la sussistenza della buona fede” è data dalla circostanza che lo stesso imputato ha avvertito l’esigenza”, ovviamente per assicurarsi l’impunità, di mettere in guardia i destinatari delle sue informazioni circa la illegalità della condotta di coltivazione di piante da cui si ricavano prodotti stupefacenti, con ciò dimostrando di ben sapere la rilevanza penale della sua condotta. Conferente è l’osservazione dei ricorrente nel rilevare l’astuzia dell’imputato, il quale ha frazionato in molti e diversi siti internet i suoi preziosi” consigli. Di modo che ogni singolo sito assumesse un aspetto commerciale asettico, e solo dall’unione degli stessi apparisse il reale intento di diffondere la coltivazione della canapa indiana al fine di ottenere la produzione di stupefacenti. Dunque, da tale contesto emerge chiaramente la consapevolezza da parte dell’imputato della illiceità della condotta di coltivazione di tali piante. Rilevata la incongruità della motivazione essa determina la nullità della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Trento per un nuovo giudizio in ordine alla applicabilità della discriminante di cui trattasi. Relativamente alla censura, oggetto dell’ultimo motivo del ricorso del Procuratore Generale, essa è da ritenersi infondata in quanto, come già rilevato in premessa, la Corte non ha affatto messo in dubbio la sussistenza del fatto così come contestato, ma ha solo ritenuto che esso non costituisse reato per la carenza dell’elemento psicologico determinata dalla discriminante di cui all’artt. 5 cod. pen. P.Q.M . Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Trento.