Dichiarazioni false per vincere le gare? Condanne per società e amministratore

Integra il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico la falsa attestazione del legale rappresentante di una società circa il possesso, da parte di quest’ultima, di un requisito indispensabile per la partecipazione alla gara per l’aggiudicazione di un appalto pubblico.

Doppia responsabilità, doppia condanna. La Corte di Cassazione ha stabilito che le società che dichiarano falsamente di essere in regola con il versamento dei contributi e delle imposte per partecipare ad una gara d’appalto pubblica rischiano una condanna per responsabilità amministrativa dell’ente, oltre alla condanna personale dell’amministratore legale rappresentate, per falsità ideologica. La dichiarazione sostitutiva fa testo, eccome. Il caso, che permette agli ermellini di ritornare su un proprio orientamento, è il ricorso, rigettato, di una società in accomandita semplice, condannata insieme al suo amministratore per falsità ideologica e tentata truffa, il quale aveva presentato un’attestazione sostitutiva di atto notorio all’Inail. In tale dichiarazione, necessaria per partecipare ad una gara d’appalto, si asseriva di essere in regola con gli obblighi riguardanti le dichiarazioni ed i versamenti in materia di contributi sociali e obblighi fiscali, ponendo così in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore i funzionari Inail preposti alla gara, ottenendo indebitamente l’aggiudicazione dell’appalto, con pregiudizio dello stesso Istituto e della altre ditte partecipanti. I ricorrenti affermavano che la dichiarazione non fosse equiparabile all’atto pubblico, ma la S.C. ha ribadito che le attestazioni sostitutive di atto di notorietà sono destinate a provare la veridicità delle asseverazioni in essa contenute che deve essere poi trasfusa in un atto pubblico, consistente, nel caso di specie, nell’atto di aggiudicazione dell’appalto.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 25 gennaio – 16 aprile 2012, n. 14359 Presidente Marasca – Relatore Vessichelli Fatto e diritto Propongono ricorso per cassazione M.G. e la società in accomandita semplice Intersan avverso la sentenza in data 24 maggio 2010 con la quale la Corte d'appello di Palermo ha confermato quella di primo grado, che era stata di condanna del M. in ordine ai reati di cui agli articoli 483 c.p. e 56, 640 c.p., nonché di affermazione di responsabilità per la società in ordine al correlato illecito amministrativo ex articolo 26 del decreto legislativo n. 231 del 2001. L'addebito mosso era quello di avere, il M. , quale socio accomandatario nonché legale rappresentante della menzionata società, attestato falsamente, in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata all'Inail di Trapani il 26 marzo 2007, necessaria per partecipare ad una gara di appalto, di essere in regola con gli obblighi riguardanti le dichiarazioni ed i versamenti in materia di contributi sociali e con gli obblighi fiscali, ponendo così in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore i funzionari Inail preposti alla gara di appalto ed ottenendo indebitamente l'aggiudicazione dell'appalto, in pregiudizio dello stesso Istituto e delle altre ditte partecipanti. Deduce il difensore 1 l'erronea applicazione dell'articolo 483 c.p Era stato erroneamente rigettato dalla Corte d'appello il motivo di gravame con il quale si era dedotta l'impossibilità di configurare il reato ex articolo 483 c.p. quando la condotta consista nella falsa attestazione sostitutiva di certificazione ai sensi dell'articolo 46 D.P.R. 445/2000. Infatti tale norma prevede che il falso sia dichiarato in atto pubblico mentre la dichiarazione sostitutiva del privato non può equipararsi all'atto pubblico. La condanna penale, nel caso descritto, presuppone una interpretazione estensiva non consentita, posto che il decreto n. 445 si è preoccupato soltanto di equiparare la dichiarazione sostitutiva alla presentazione dell'atto al pubblico ufficiale. Inoltre la dichiarazione sostitutiva non è atto destinato a provare la verità di quanto in essa contenuto 2 il vizio della motivazione in ordine all'elemento psicologico del reato di falso. Erano state dedotte prove dichiarazione dell'imputato e deposizione della teste C. ignorate dalla Corte ma capaci di dimostrare che l'imputato, giovane amministratore, aveva firmato la dichiarazione sostitutiva confidando nella lealtà del suo estensore ossia della C. 3 il vizio di motivazione in ordine al reato di tentata truffa. Nel corso della discussione, il difensore ha sollecito l'accoglimento del ricorso in applicazione dei principi enunciati nella sentenza delle SSUU Carchivi che ha escluso la configurabilità della truffa quando la condotta raggirante sia consistita nella presentazione del documento falso. I ricorsi sono infondati e devono essere rigettati. Occorre preliminarmente dare atto che l'argomentazione prospettata dalla difesa, per la prima volta durante la discussione orale, integra un evidente motivo nuovo, inammissibile quantomeno per la tardività della deduzione. D'altra parte, anche ove la questione fosse intesa come sollecitazione dei poteri officiosi di questa Corte ex art. 129 cpp., non potrebbe non notarsi che essa non è apprezzabile allo stato delle conoscenze acquisite, non risultando che sussista, nel caso di specie, il presupposto di fatto per la operatività dei principi elaborati dalla sentenza delle SSUU Carchivi del 2007. Con tale decisione, infatti, si è sostenuto che l'indebito conseguimento, nella misura superiore al limite minimo di legge, del cosiddetto reddito minimo di inserimento previsto dal D.Lgs. 18 giugno 1998 n. 237, integra il reato di indebita percezione di elargizioni a carico dello Stato ex art. 316 ter comma 1 cpp e non anche quello di truffa aggravata ai sensi dell'art. 640 bis stesso codice, restando assorbiti anche i delitti di falso di cui agli artt. 483 e 489 cod. pen Ciò posto, appare evidente la inconferenza della decisione evocata dalla difesa rispetto al caso in esame nel quale si discute non della percezione, mediante atto falso, di elargizioni a carico dello Stato,ossia di contributi, finanziamenti o mutui concessi dallo Stato o dagli altri enti previsti dalla legge - come previsto dall'oggetto dell'art. 316 ter cp - ma della aggiudicazione di un appalto che è nozione tutt'affatto differente. Tornando al perimetro dei motivi di ricorso ammissibili sotto il profilo della tempestività, si osserva che il primo di essi deve essere rigettato posto che la questione prospettata ha già trovato soluzione in una puntuale sentenza delle Sezioni unite di questa Corte dalla quale non vi è motivo di discostarsi. Il supremo consesso ha infatti ritenuto che integra il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico la falsa attestazione del legale rappresentante di una società circa il possesso, da parte di quest'ultima, di un requisito indispensabile per la partecipazione alla gara per l'aggiudicazione di un appalto pubblico Rv. 236866, ric. Scelsi . Nel caso descritto - analogo a quello in esame - vale infatti l'ulteriore principio secondo cui, premesso che la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà è destinata, per espressa disposizione di legge, a provare la veridicità delle asseverazioni in essa contenute e considerato che essa deve essere poi trasfusa in un atto pubblico Rv. 234879 , consistente, nel caso di specie, nell'atto di aggiudicazione dell'appalto, il falso ideologico del privato si configura dal momento che esso può investire le attestazioni, anche implicite, contenute nell'atto pubblico conclusivo della procedura e i presupposti di fatto giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva dell'atto medesimo, che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale, ovvero altri fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità Rv. 236867 . Il secondo motivo è inammissibile perché con esso la difesa sollecita alla Cassazione un giudizio di merito alternativo quello compiuto in maniera plausibile dai giudici a quibus. La Corte territoriale ha infatti ritenuto elemento decisivo per escludere la colpa dell'imputato ad affermarne invece il dolo, il rilievo secondo cui non è credibile che chi governa la società da un congruo lasso di tempo possa avere sottoscritto senza leggerli, atti o documenti di centrale importanza per la sopravvivenza della società, sottopostigli da un dipendente. Le prove contrarie che, sul punto, la difesa sostiene di avere dedotto, sono state implicitamente valutate come prive di valenza dimostrativa idonea a superare il rilievo logico formulato. Ha infatti posto in evidenza più volte questa Corte che, in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento rv 215745 . Il terzo motivo è inammissibile genericità essendo fondato sul rilievo, sopra già confutato, della insussistenza del reato ex art. 483 c.p Inoltre deve ribadirsi che la nuova prospettiva di inesistenza del reato, rappresentata dall’avv. Dominici per la prima volta in udienza, pur afferendo al tema della qualificazione giuridica del fatto – come tale inerente i poteri attivabili di ufficio dalla Cassazione -, non è apprezzabile come tale nel caso concreto. Essa presuppone, tra l’altro, l’accertamento di elementi di fatto inerenti la materialità della condotta di tentata truffa – che non solo non sono stati concretamente allegati dall’interessata difesa, ma non sono neppure desumibili dalla sentenza impugnata. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.