La minaccia di una iniziativa legale non è reato

Accampare diritti contro le forze dell’ordine, minacciando denunce e querele, non costituisce minaccia a un pubblico ufficiale.

Un imputato ricorreva avverso la sentenza d’appello che lo condannava per minaccia a pubblico ufficiale art. 336 c.p. , siccome aveva inveito contro dei rappresentanti della pubblica autorità prospettando di far valere i propri diritti, denunciando l’illiceità delle loro pretese. La Cassazione, Sesta sezione Penale, n. 201/2012 depositata il 10 gennaio , accoglieva le doglianze dell’accusato, derubricava il fatto di reato, e precisava in punto di condotta prevista dalla fattispecie non è condivisibile la decisione del giudice di merito che ha ravvisato gli estremi della minaccia nella condotta del ricorrente, giacché l’espressione proferita non può considerarsi univocamente una prospettazione di un ingiusto male , ma al contrario può essere considerata manifestazione di un disappunto, finalizzata alla tutela dei propri diritti, attinenti alla sfera della liberta personale. L’esercizio di un diritto o la minaccia di una iniziativa legale in tal senso, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio, non presenta i caratteri propri della minaccia necessaria, essendo diretto alla realizzazione di un diritto legittimo dell’agente, a meno che lo scopo non sia quello di attingere, con altrui danno, un vantaggio ulteriore e diverso . Minaccia a pubblico ufficiale o manifestazione di disappunto? Dunque, la Cassazione ha operato una derubricazione del fatto di reato e ha ritenuto che il sillogismo operato dal giudice di merito non sia stato conforme all’interpretazione più consolidata della fattispecie penale in discussione. L’art. 336 c.p. è tipicamente intendibile come il connubio fra condotta rilevante - la violenza e la minaccia - e la valenza di questa nell’incidere sullo spettro delle azioni possibili da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, a seguito di quella coartazione. Mentre la violenza o la minaccia dell’agente vanno misurate dalla qualità intrinseca delle condotte di coartazione che, in re ipsa , debbono contenere una pregnanza di antigiuridicità oppure almeno, di ingiustizia, l’idoneità di questa condotta a coartare l’altrui azione attiene alla dimensione prospettiva, ossia al comprendere se quella condotta - realizzata nelle specifiche circostanze di stato e di luogo di compimento del fatto – è stata tale da poter influenzare l’azione dei pubblici poteri. Più chiaramente la violenza e la minaccia costituiscono condizioni statiche, da valutare nell’astrattezza dei valori giuridici di ingiustizia e antigiuridicità, laddove l’idoneità ne costituisce la proiezione dinamica, nel caso concreto. Questa lettura consente di valorizzare tutti i dati semantici contenuti nella norma e a disposizione dell’operatore giuridico, ne agevola l’interpretazione, al fine di verificare l’integrazione degli elementi singoli che compongono la fattispecie. La prospettazione di un diritto non costituisce minaccia quando esercitata sulla linea di un diritto soggettivo riconoscibile. La Cassazione, atteso il chiarimento di cui sopra, supera le incongruenze della sentenza appellata che aveva liquidato la quaestio iuris di cui era discussione, appiattendo il primo passo di quella valutazione – la consistenza intrinseca della minaccia di far valere un diritto – sulla capacità di questa di coartare la volontà del pubblico ufficiale, quando siffatte analisi andrebbero invece distinte. La Corte d’appello incorreva nell’errore di misurare sul campo dell’idoneità coartatrice di quella condotta – da valutarsi ex ante , secondo le percezioni condivise dell’uomo medio – la verifica della consistenza del requisito della minaccia. La Cassazione più diffusamente pone ordine alle operazioni giudiziali di verifica dell’integrazione della fattispecie tipica. In ordine al primo tassello, il Collegio precisa che non è minaccia la prospettazione di far valere un diritto quando – astrattamente – quel diritto riposa in altre previsioni dell’ordinamento sacralmente valorizzate dalla previsione di parte generale costituita dall’art. 51 cod. pen., che scrimina l’azione delittuosa quando esercitata sulla linea di un diritto soggettivo riconoscibile. Il limite a siffatta esimente è tuttavia costituito dalla c.d. convergenza del conflitto fra norme, siccome l’azione imposta dalla pubblica autorità deve essere astrattamente impedita da norma simmetrica che priverebbe di liceità quel comportamento e che nel caso verrebbe avanzata dall’agente. Oltre questo limite, la prospettazione dell’esercizio di quel diritto diverrebbe abnorme rispetto alla fattispecie dell’art. 336 c.p., in quanto tesa a recare un vantaggio ulteriore, diverso e non più puntuale estrinsecazione delle facoltà inerenti a quel diritto. La Cassazione pare accedere ad una interpretazione più elastica. La S.C. non prende in esame l’ipotesi in cui fosse superato quel limite di convergenza e comunque la prospettazione del diritto possedesse requisiti di liceità e conformità a diritto – ad esempio nel caso in cui si prospettasse di agire in giudizio per far valere un diritto riconoscibile che però nulla ha a che fare con l’azione del pubblico ufficiale che opera, hic et nunc , nell’esercizio dei pubblici poteri -. Gli Ermellini liquidano il dubbio chiarendo che quella prospettazione del diritto, per rilevare ai fini esimenti e non costituire minaccia, non debba involgere al conseguimento sia di un male ingiusto sia di un altrui danno. Parrebbe dunque accedere, a strette parole, ad una interpretazione restrittiva della nozione di minaccia, per cui ogni prospettazione di far valere un diritto, pur se incontinente con il fatto contestato di reato, non integrerebbe un comportamento penalmente rilevante ai sensi dell’art. 336 cit. E nel compiere questa precisazione pare aprire delle crepe all’interno di quella opinione consolidata in punto di esercizio del diritto ex art. 51 c.p. che fa, invece, della convergenza o congruenza fra norme lo spazio applicativo ultimo su cui consentirne gli effetti esimenti e salvifici per l’agente. Quel diritto va valutato in astratto o in concreto? Nel caso di specie, l’imputato aveva semplicemente inveito generiche espressioni di accusa nei confronti dei comportamenti della pubblica autorità, a suo dire illeciti. Di certo la Cassazione non appare limpidissima quando evita di sindacare nel merito - per evidenti limiti giurisdizionali – in punto di consistenza della minaccia, pur se riguardante l’esercizio di un diritto, con le complicazioni sopra accennate. Sotto questo profilo, avrebbe potuto specificare con più compiutezza quando quel seppur esistente diritto fatto valere può essere assimilato a minaccia. Ad esempio richiedendo una prognosi in concreto dell’attendibilità dei diritti che l’agente prospettava di far valere, da verificarsi incidentalmente dal giudice del fatto penale. Il forse troppo sbrigativo tono utilizzato – che pare richiedere la mera fondatezza in astratto di un diritto da prospettare contro il comportamento della pubblica autorità – oltre a non chiarire i paventati dubbi sull’art. 336 c.p., rischierebbe di legittimare il pretestuoso e generico accampare diritti di agenti del fatto restii ad eseguire gli ordini delle pubbliche autorità.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 20 dicembre 2011 – 10 gennaio 2012, numero 201 Presidente Agrò – Relatore Gramendola Fatto e diritto P.N. ricorre per cassazione contro la sentenza in data 21/11/2008, con la quale La Corte di appello di Napoli ha confermato la decisione in data 4/12/2006 emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che lo aveva dichiarato colpevole del reato di cui all'articolo 336 c.p. e condannato alla pena di giustizia. Si addebitava al predetto di avere usato minaccia nei confronti di appartenenti alla Squadra Mobile di Caserta, che lo avevano fermato a bordo di un'autovettura, per impedire loro di condurlo in Questura per identificarlo e per effettuare accertamenti sulla carta di circolazione in suo possesso e sul materiale sospetto trasportato a bordo dell'auto, dichiarando che li avrebbe denunciati tutti, avendo a disposizione parecchi avvocati. A sostegno della richiesta di annullamento dell'impugnata decisione il ricorrente denuncia l'erronea applicazione della legge penale e il difetto di motivazione in riferimento alla valutazione del requisito oggettivo del reato, sostenendo che l'espressione riferita ai verbalizzanti esulava dal concetto di violenza o minaccia, finalizzata ad influire sull'atto di ufficio che i poliziotti stavano compiendo e che derubricato il reato in ingiuria o minaccia, si doveva emettere sentenza di numero d.p. per difetto di querela. Il ricorso è fondato. La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che ai fini della consumazione del reato ex articolo 336 cp., l'idoneità della minaccia posta in essere per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri di ufficio deve essere valutata ex ante, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto e in particolare del tenore delle espressioni verbali e del contesto nel quale esse di soolocano, onde verificare se e in quale grado essa abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa ex plurimis Cass. Sez. VI 16/4-31/7/08 numero 32390 Rv. 240650 . Nel caso in esame non è condivisibile la decisione del giudice di merito che ha ravvisato gli estremi della minaccia nella condotta del ricorrente, giacché l'espressione profferita non può ritenersi univocamente una prospettazione di un ingiusto male, finalizzata ad opporsi al compimento di un atto del pubblico ufficiale, ma al contrario ben può essere considerata manifestazione di un disappunto, finalizzata alla tutela dei propri diritti, attinenti alla sfera della libertà personale. A tal proposito la giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito, sia pure in riferimento al diverso reato di estorsione, che l'esercizio di un diritto o la minaccia di una iniziativa legale in tal senso, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio, non presenta di per sé i caratteri propri della minaccia necessaria per la astratta configurabilità del reato ex articolo 629 cp., essendo esclusivamente diretto alla legittima realizzazione di un diritto proprio dell'agente, a meno che lo scopo non sia quello di attingere, con altrui danno, un vantaggio ulteriore e diverso Cass. Sez. II 16/1-8/4/01 numero 16618 4/11/09 - 7/1/10 numero 119 . Nel caso in esame la corte territoriale non ha affatto motivato sulle ragioni per le quali la denuncia prospettata dall'imputato potesse ritenersi una minaccia, idonea ad opporsi al compimento di un atto di ufficio del pubblico ufficiale, né ha evidenziato sulla base di quali elementi la frase profferita dal ricorrente dovesse ritenersi finalizzata ad impedire il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale, piuttosto che una manifestazione di disappunto per l'operato degli agenti e dunque la manifestazione di una propria volontà di tutelarsi in via legale. La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.