Retribuzione più bassa di quanto dichiarato: è estorsione

Condannata una imprenditrice che per far fronte ai problemi economici dell’azienda ha ridotto il salario effettivo delle operaie lasciando invariata l’indicazione delle buste paga.

La prospettazione, da parte del datore di lavoro della perdita del posto di lavoro nel caso in cui non si accetti un trattamento economico inferiore a quello risultante dalle buste paga integra il reato di estorsione. Il richiamo alla difficile situazione economica così come la diffusione del modus di contrattare non legittimano gli abusi. Così afferma la Seconda sezione Penale della corte di Cassazione nella sentenza n. 46678/11 depositata il 19 dicembre scorso. Il caso. Problemi economici per l’azienda, difficoltà occupazionali per i lavoratori. Come uscirne? L’idea ‘magica’ di un’imprenditrice è semplice ridurre il salario effettivo, lasciando invariato quello indicato nelle ‘buste paga’. Con due conseguenze dare respiro all’azienda e consentire ai dipendenti di conservare il posto di lavoro. Ma l’idea – peraltro non nuova – non è delle migliori. L’imprenditrice viene infatti condannata, in primo e in secondo grado, per il reato di estorsione continuata in danno di alcune dipendenti. Un accordo singolare. L’imprenditrice però, contesta la condanna a oltre tre anni di reclusione e a 400 euro di multa. Presenta ricorso in Cassazione e critica la ricostruzione degli avvenimenti delineata in Appello. Secondo la ricorrente, difatti, mancano in concreto gli elementi della costrizione e dell’approfittamento, nonché del danno e dell’ingiusto profitto . Molto più semplicemente, a suo dire, l’imputata avrebbe offerto le condizioni di lavoro praticate nella zona, accettate liberamente dalle dipendenti . Tutto ciò, peraltro, in assenza di un reale profitto per l’imprenditrice, che, successivamente, ha dovuto liquidare l’attività per mancanza di commesse e per i debiti contratti . Per giunta, l’imputata ricorda che alle lavoratrici è stato corrisposto quanto concordato con i sindacati a titolo di risarcimento e, a loro volta, le dipendenti si sono dichiarate integralmente soddisfatte . Far balenare l’ipotesi della perdita del posto di lavoro per ottenere l’accettazione della riduzione del salario è reato. Lo scenario della crisi, però, non può rendere accettabili determinate azioni del datore di lavoro. Su questo punto, i giudici della Cassazione ribadiscono che la prospettazione, da parte del datore di lavoro, in un contesto di grave crisi occupazionale, della perdita del posto di lavoro nel caso in cui non si accetti un trattamento economico inferiore a quello risultante dalle ‘buste paga’ integra il reato di estorsione. Logica e legittima, quindi, la condanna dell’imprenditrice. Che non può neanche pretendere di vedere ‘alleggerito’ l’ammontare del risarcimento da pagare sulla base di un accordo transattivo con le operaie.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 1° - 19 dicembre 2011, numero 46678 Presidente Carmenini – Relatore Taddei Svolgimento del processo 1. Avverso la sentenza indicata in epigrafe, che ha integralmente confermato la sentenza del Tribunale di Nicosia del 27.05.2008 con la quale T.F. , titolare della Stilconf di T.F. veniva condannata per il reato di estorsione continuata in danno di talune dipendenti alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione ed Euro 400,00 di multa ricorre la difesa dell'imputata, chiedendo l'annullamento della sentenza e deducendo a violazione dell'art. 606 co. 1 lett.b ed e c.p.p. in relazione alla qualificazione dei fatti perché risultano mancanti, nella ricostruzione degli avvenimenti ricostruiti dai giudici di merito, gli elementi della costrizione e dell'approfittamento, nonché del danno per le persone offese e dell'ingiusto profitto essendosi limitata l'imputata ad offrire le condizioni di lavoro praticate nella zona ed avendo le dipendenti accettato liberamente le stesse,in assenza di un reale profitto per l'imputata, che ha dovuto liquidare l'attività per mancanza di commesse e per i debiti contratti b violazione dell'art. 606 co. 1 lett.b c.p.p. in relazione al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 numero 6 c.p., avendo la T. corrisposto alle lavoratrici integralmente quanto concordato con i sindacati a titolo di risarcimento ed essendosi le dipendenti dichiarate integralmente soddisfatte. Motivi della decisione 2. Il ricorso è manifestamente infondato. 2.1 Con il primo motivo in apparenza si deduce un vizio della motivazione ma, in realtà, si prospetta una valutazione delle prove diversa e più favorevole all'imputato, ciò che non è consentito nel giudizio di legittimità perché la Corte di legittimità non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti quanto piuttosto se essa sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. In senso conforme anche Cass., sez. 5^, 13 maggio 2003, Pagano ed altri, non massimata nonché Sez. unumero , 29.9.2003, Petrella SU numero 6402/97, rv 207944 SU numero 24/99, rv 214794 SU numero 12/2000, Jakani, rv 216260 . È principio pacifico in giurisprudenza quello secondo il quale il sindacato demandato alla Corte di cassazione deve limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali e con l'ulteriore specificazione che l'illogicità censurabile è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi Sez. unumero , 29.9.2003, Petrella coni SU numero 6402/97 rv 207944 SU numero 24/99 rv 214794 SU numero 12/2000 rv 216260 . Per altro verso, va anche ricordato che la Suprema Corte ha già ravvisato in casi analoghi a quello oggi all'esame, che integra la minaccia costitutiva del reato di estorsione,la prospettazione da parte del datore di lavoro ai dipendenti, in un contesto di grave crisi occupazionale, della perdita del posto di lavoro per il caso in cui non accettino un trattamento economico inferiore a quello risultante dalle buste paga sentenza numero 656 del 2009 rv 246046 numero 36642 del 2007 rv 238918 numero 16656 del 2010 rv 247350 . 2.2 In ordine al secondo motivo va rilevato che ai fini della concessione dell'attenuante del risarcimento del danno, l'integralità del risarcimento deve essere accertata dal giudice di merito - il cui giudizio, se motivato adeguatamente, non è sindacabile in sede di legittimità - e non può essere desunta dall'affermazione delle parti offese di essere state soddisfatte. Rv 185065 rv 169474 n 163089 . I giudici di appello, con motivazione logica ed adeguata che non merita censura, hanno escluso la ricorrenza dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p. numero 6 sul presupposto di fatto che l'accordo transattivo aveva ridotto le legittime pretese delle operaie, con una motivazione, circa la carenza di una riparazione del danno effettiva, integrale e volontaria, come richiesto dalla stessa norma, all'evidenza, esente da vizi. Il ricorso,pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. 3. Ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille Euro alla cassa delle ammende.