È considerata diffamatoria la divulgazione di notizie riservate sulla sfera sessuale altrui

Avere una relazione sentimentale clandestina con un uomo sposato costituisce dato sensibile”, pertanto la sua divulgazione integra il reato di diffamazione.

Il caso. Un soggetto, cliente di una banca, interessato sentimentalmente ad un’impiegata dell’istituto, dopo aver ricevuto un sms anonimo che lo avvertiva di stare attento e di non perdere tempo dietro la donna perché la stessa usciva con un suo collega sposato, si era rivolto ad una agenzia di investigazioni private perché accertasse l’identità dell’autore del messaggio, sentendosi minacciato da poteri forti e occulti e alfine di far valere e difendere un diritto in sede giudiziaria. Il cliente e la titolare dell’agenzia di investigazioni private erano stati processati, in concorso, per i reati di molestie e disturbo alle persone art. 660 c.p. , acquisizione e raccolta illecita di dati sensibili nonché acquisizione e diffusione di dati personali relativi alla parte offesa con l’aggravante di averle recato nocumento art. 35, commi 2 e 3, L. numero 675/1996 , e per diffamazione aggravata art. 595, commi 1 e 2, c.p. il solo cliente. Per il reato di molestie e disturbo alle persone, i due imputati erano stati ammessi all’oblazione ed era stata pronunciata sentenza di non doversi procedere. Per i rimanenti reati erano stati riconosciuti colpevoli dal Tribunale di Torino e condannati a pene di giustizia con la concessione del beneficio della sospensione condizionale e condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile, con liquidazione di una provvisionale. La Corte di Appello di Torino aveva confermato pienamente la sentenza di primo grado. Contro tale sentenza, avevano proposto ricorso per cassazione i difensori dei due imputati. La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 44940/2011 depositata il 2 dicembre, ha disatteso tutte le censure, approfondendo molti aspetti riguardanti la disciplina della privacy di cui al Decreto legislativo 196/2003. Violazione del principio di correlazione tra accusa e fatto accertato in sentenza solo nei casi di rapporto di eterogeneità o incompatibilità sostanziale. La prima censura riguardava la presunta violazione del c.d. principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza. Secondo i difensori mentre l’imputazione faceva riferimento al reato previsto dall’art. 35 della L. numero 675/1996 in riferimento alla nozione di dati sensibili art. 22 della stessa legge , la Corte di Appello, nella motivazione, aveva fatto riferimento agli artt. 23 e 26 del nuovo codice della privacy d.lgs. numero 196/2003 in relazione allo stesso decreto art. 17 che disciplina il trattamento dei dati c.d. semi-sensibili, mentre la condanna era intervenuta in ordine al trattamento dei dati sensibili e non sensibili. Il capo d’imputazione, inoltre, non rimproverava anche l’illecito trattamento di dati non sensibili, mentre le condanne erano intervenute anche in riferimento al trattamento di tali dati. La Corte ha respinto la censura richiamando i principi, più volte espressi anche dalle Sezioni Unite, sent. numero 36551/2010 , in tema di violazione del principio di correlazione tra accusa e accertamento contenuto in sentenza. L’art. 521 c.p.p. prevede che il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa, ma se il fatto che viene accertato è diverso da quello descritto nell’imputazione deve trasmettere gli atti al Pubblico Ministero, e il processo ricomincia da capo. Il principio di correlazione è violato solo se il fatto accertato nel processo risulta radicalmente diverso nei suoi elementi essenziali da quello contestato rapporto di eterogeneità o incompatibilità sostanziale , così da determinare un incertezza sull’oggetto dell’imputazione e un reale pregiudizio per i diritti della difesa l’accertamento della violazione del diritto di difesa deve essere condotto in concreto ed è da escludere quando attraverso l’ iter del processo l’imputato si sia trovato nella condizione di potersi difendere in ordine all’oggetto dell’imputazione. Nel caso in esame, ha ritenuto la Corte, benché vi fosse un riferimento agli articoli di legge parzialmente errato, le condotte addebitate agli imputati erano state chiaramente espresse nel capo d’imputazione ed erano consistite nell’aver il cliente incaricato l’agenzia di svolgere investigazioni sulla vita privata della donna nell’avere l’agenzia acquisito dati sensibili e non sensibili relativi alla vita privata nell’avere gli imputati acquisito e comunicato a terzi dati personali e sensibili attinenti alla sfera sessuale e sentimentale della parte offesa nell’avere in tal modo recato nocumento al soggetto passivo. Tra la vecchia e la nuova disciplina sulla privacy vi è continuità punitiva. Con la seconda censura i difensori denunciavano un’errata applicazione della legge, in quanto la Corte di Appello, in presenza di una successione di leggi nel tempo L. numero 676/1996 a cui è succeduto il d.lgs. numero 196/2003 , non avrebbe applicato la legge più favorevole come previsto dall’art. 2, comma 4, c.p., dando vita ad una figura ibrida. Secondo le difese l’art. 35 della L.676/1996 oltre ad essere stato abrogato, non era strutturato sulle previsioni degli artt. 23 e 23 del nuovo codice della privacy, ma su norme precetto diverse e difficilmente sovrapponibili a quelle successivamente introdotte. Inoltre, la nuova normativa configurava la fattispecie non più come reato di pericolo ma come reato di danno art. 167 d.lgs. numero 196/2003 se dal fatto deriva nocumento . Il Collegio ha ritenuto corretto il ragionamento giuridico della Corte di Appello. Tra la vecchia e la nuova disciplina la Corte ha confermato che vi è continuità punitiva. Ha stabilito che in tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile il principio del favor rei art. 2, comma 4, c.p. , occorre che il fatto costituente reato secondo la vecchia legge sia punibile anche secondo la nuova legge, e tale situazione va verificata in base al criterio del Tatbestand cioè di coincidenza del fatto tipico. Riguardo alle condotte contestate agli imputati, non si è verificata alcuna abolitio criminis perché il fatto, già punito dalla vecchia legge, è punibile anche secondo la nuova legge, mentre alcun rilievo può essere attribuito alla modifica dell’elemento del nocumento che da circostanza aggravante secondo la precedente disciplina è passato a condizione obiettiva di punibilità entrambe le qualificazioni non rientrano nel fatto tipico . La sentenza ha concluso, dunque, ritenendo che la Corte di Appello avesse correttamente attuato il principio in questione, applicando il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge precedente L. numero 676/1996 . L’individuazione della legge più favorevole va compiuta considerando il trattamento sanzionatorio nel suo complesso. La Corte di Appello ha ritenuto più favorevole quello previsto dalla legge precedente L. numero 676/1996 proprio per la qualificazione del nocumento come circostanza aggravante, come tale soggetta a giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti ex art. 69 c.p. , a differenza della condizione obiettiva di punibilità. Anche la persona fisica che tratta dati di altri per fini personali può incorrere nel reato. La terza censura concerneva le previsioni dell’art. 5 comma 3 del D.L.vo 196/2003 perché l’imputato cliente una volta ottenuti i dati dall’agenzia, secondo la difesa, si era limitato a notiziare alcuni funzionari di banca delle abitudini e frequentazioni della donna, senza diffonderli o comunicarli in maniera sistematica. L’art. 5 prevede che le regole del codice della privacy si applicano anche alle persone fisiche che trattano dati personali di altri per fini esclusivamente personali, se ricorrono i criteri della comunicazione sistematica o della diffusione dei dati in tal caso per non incorrere nelle sanzioni occorre il consenso dell’interessato . La Corte, nel rigettare la censura, ha ritenuto che i difensori avessero espresso un concetto errato di comunicazione sistematica. Comunicazione ai sensi dell’art. 4 comma 1 lett. L doveva essere intesa come dare conoscenza dei dati a uno o più soggetti determinati diversi dall’interessato , mentre il termine sistematico andava interpretato nel senso di metodico , reiterato o organizzato . La relazione sentimentale con un uomo sposato implica anche rapporti sessuali. Secondo la parte ricorrente, la Corte di Appello aveva erroneamente ritenuto che avere una relazione sentimentale con uomo sposato era sinonimo di avere rapporti sessuali. La questione è stata considerata manifestamente infondata perché, secondo la Cassazione, la Corte di Appello ha correttamente desunto l’implicazione sessuale della relazione, non solo dalla communis opinio , ma anche da elementi fattuali che dimostravano che non poteva trattarsi di un amore platonico. Non ha, poi, mancato di precisare, che nel concetto di vita sessuale rientrano non solo i gusti e le tendenze sessuali astrattamente considerati, ma anche le concrete scelte della persona. In sintesi, i dati personali idonei a rivelare la vita sessuale di una persona rientrano tra i dati sensibili . Anche la divulgazione del numero di targa o del telefono cellulare possono integrare trattamento illecito di dati personali. La Corte non ha mancato di considerare la motivazione della sentenza esaustiva soprattutto nelle ragioni che avevano condotto ad affermare la colpevolezza del cliente in concorso nel reato di illecito trattamento dei dati, perché il consenso della parte offesa era stato carpito con l’inganno il pretesto era stato l’accertamento dei poteri forti e occulti operanti all’interno dell’istituto , e in realtà ciò che unicamente interessava il cliente, tanto da spingerlo ad interessarsi capillarmente dei risultati dell’indagine attraverso indicazioni e suggerimenti, era ottenere informazioni sulla vita privata della donna. Nel dettaglio veniva anche precisato dal giudice delle leggi che il numero di targa di un veicolo o il numero di un utenza cellulare, costituiscono dati personali rientranti nella definizione dell’art. 4 lett. b del citato decreto, anche se essi siano in qualche modo conoscibili ad es. perché l’autovettura circola per strada , perché ciò che assume rilevanza non è il numero in sé ma è il fatto che viene fornito o diffuso, indebitamente, l’abbinamento di tale numero ad una persona. L’autorizzazione generale del garante della privacy non è valida se il trattamento dei dati non è finalizzato a far valere un diritto in sede giudiziaria. Nella fattispecie, l’agenzia di investigazioni aveva ottenuto l’autorizzazione generale del Garante della privacy, pertanto, l’investigatore avrebbe potuto prescindere, nel trattamento dei dati personali, dal consenso dell’avente diritto. La lettera f dell’art. 24 del decreto prevede che il consenso al trattamento dei dati di un determinato individuo non è necessario se esso è finalizzato a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, o ai fini dello svolgimento di investigazioni difensive previste dalla L.397/2000, con esclusione della diffusione, e sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. La Corte di Appello ha affermato, però, che il fine dell’imputato non era difendersi in sede giudiziaria dai c.d. poteri forti e occulti , ma esclusivamente quello di controllare la vita privata della donna a cui era interessato. Il concetto di nocumento è più ampio di quello di danno. Altra censura riguardava la condizione obiettiva di punibilità del nocumento . Il trattamento illecito dei dati è punibile se dal fatto deriva nocumento art. 167 del d.lgs. numero 196/2003 , e la Corte ha ritenuto che il nocumento era stato contestato per relationem mediante richiamo agli altri due reati molestie e diffamazione , e che la violazione della privacy era avvenuta anche attraverso il compimento di quest’ultimi, così come contestato. Quanto al concetto di nocumento, la sentenza non ha mancato di precisare che esso è più ampio di quello di danno inteso in senso civilistico , abbracciando qualsiasi effetto pregiudizievole come ad esempio la perdita di un potenziale vantaggio o il mancato conseguimento di un beneficio che possa scaturire dall’arbitraria condotta altrui volta alla diffusione di dati personali. La relazione sentimentale con un uomo sposato costituisce pettegolezzo punibile con il reato di diffamazione. Il difensore ha sostenuto che mancava, nel contestato reato di diffamazione, l’elemento materiale della comunicazione con più persone”, dato che le lettere divulgative della relazione sentimentale erano state inviate solo al superiore gerarchico della donna. Inoltre, non era stata applicata la scriminante del diritto di critica. La Corte ha respinto le doglianze affermando che la diffusione, all’interno di un ristretto ambito lavorativo, della notizia dell’esistenza di una relazione sentimentale e sessuale, clandestina cioè mantenuta segreta dagli stessi interessati , tra due impiegati può avere natura diffamatoria, specie se uno dei due è sposato, perché, benché la relazione adulterina sia attribuibile solo all’uomo spostato, la riprovazione sociale colpisce solitamente entrambe i partner, e la notizia viene fatta oggetto di malevolo pettegolezzo. E che diffusione vi sia stata, ha proseguito la Corte, è dato dal fatto che il direttore della filiale era tenuto a portare a conoscenza dell’informazione gli organi aziendali, in quanto contenente una presunta scorrettezza comportamentale dell’impiegata. Quanto all’asserita operatività della scriminante, l’informazione mancava completamente del requisito dell’utilità sociale della notizia che postula, come incessantemente ribadito in numerose sentenze, l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 28 settembre – 2 dicembre 2011, n. 44940 Presidente Grassi – Relatore Fumo Rilevato in fatto A carico di R.C. e di C.C. furono formulati i seguenti capi di imputazione a artt. 81 cpv., 110, 660 c.p., per avere, con più azioni esecutive di medesimo disegno criminoso, C. , quale titolare di agenzia investigativa, su incarico del R. , disposto controlli sulla vita privata di Ro.Da. , in tal modo arrecandole molestia e disturbo b artt. 110 c.p., 35 II e ult. comma, in relazione articolo 22 legge 675/96, per avere la C. , tramite personale dipendente, su incarico del R. , acquisito e raccolto dati sensibili della vita privata della Ro. , rilevandone sistematicamente le attività quotidiane e le frequentazioni, così trattando anche dati non pertinenti e comunque eccedenti le finalità e l'oggetto dell'incarico conferito nonché per aver acquisto e comunicato dati personali relativi alla vita privata e alla sfera sessuale della predetta Ro. , riguardanti le sue relazioni sentimentali, cagionandole nocumento, ponendo in essere le condotte di cui al capo a e del seguente capo c . Il solo R. anche c del reato di cui all'articolo 595 c.p. I e II comma, per avere, agendo sulla base delle informazioni fornite dalla C. , comunicando con più persone, offeso la reputazione della Ro. , in particolare trasmettendo alla banca UNICREDIT, della quale la predetta era dipendente, comunicazioni dal contenuto diffamatorio, con l'aggravante di avere attribuito un fatto determinato, vale a dire la sussistenza di una relazione della Ro. con un collega. In relazione alla contravvenzione sub a , il Tribunale di Torino pronunziava sentenza di ndp per intervenuta oblazione con riferimento ai residui reati, C. veniva condannata alla pena di anni 1 di reclusione, R. , ritenuta la continuazione, alla pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione a entrambi gli imputati veniva concesso il beneficio della sospensione condizionale entrambi erano poi condannati al risarcimento dei danni a favore della costituita PC, da liquidarsi in separato giudizio R. veniva condannato inoltre a corrispondere una provvisionale, provvisoriamente esecutiva, nella misura di Euro 10.000, di cui Euro 5.000 in via solidale con la C. entrambi, infine, erano condannati alla refusione delle spese sostenute dalla PC. La CdA di Torino, con la sentenza di cui in epigrafe, ha confermato la pronunzia di primo grado. Ricorrono per cassazione i difensori di entrambi gli imputati, deducendo censure, in gran parte, comuni. Prima censura violazione dell'articolo 522-521 c.p.p. per mancata correlazione tra contestazione e sentenza. L'imputazione infatti fa riferimento all'articolo 35 in relazione all'articolo 22 L. 675/1996 oggi 167 d.lgs. 196/2003 , mentre in tutta la parte motiva si fa riferimento agli artt. 23 e 26 codice della privacy, in relazione all'articolo 17 d.lgs. L'articolo 17 del d.lgs. fa riferimento alla categoria dei dati cc.dd. semisensibili, mentre la condanna è intervenuta in ordine all'illecito trattamento dei dati sensibili e non sensibili. Nel capo di imputazione, poi, non è fatta menzione alcuna dell'illecito trattamento dei dati non sensibili, ma le condanne in I e II grado attengono anche all'utilizzo di tal tipo di dati. Secondo la CdA, il fatto storico è stato descritto in rubrica, ma non è affatto chiaro a quale tipo di dato sensibile, semisensibile, personale si sia inteso fare riferimento. Né si può chiedere all'imputato o al suo difensore di indovinare quale sia la fattispecie che si intende contestare. La violazione del diritto di difesa consegue dalla incertezza della contestazione. Seconda censura violazione degli artt. 35 e 167 d.lgs. 196/2003 e 2 c.p. per erronea applicazione della legge penale quanto alla identificazione della fattispecie applicabile. In presenza di successione di leggi nel tempo, i giudici del merito non hanno in realtà applicato la legge più favorevole, ma hanno dato vita a una creatura ibrida, che ha unito parte della vecchia e parte della nuova legge. Invero l'articolo 35 L. 675/1996, oltre a essere stato abrogato dall'articolo 167 d.lgs. 196/2003, non era strutturato sulle violazioni degli artt. 23 e 26 del codice privacy, ma su norme-precetto articolate in forma diversa e difficilmente sovrapponigli a quelle poi modificate nel 2003. La nuova normativa configura il reato in questione, non più come reato di pericolo, ma come reato di danno. Ebbene la norma più favorevole va individuata solo all'esito della istruttoria dibattimentale e solo con riferimento al trattamento sanzionatorio. Terza censura violazione dell'articolo 5 del d.lgs. 196/2003 in relazione alla applicazione del codice della privacy. È stato erroneamente ritenuto che non fosse applicabile il predetto articolo con riferimento al requisito della sistematicità della comunicazione, ovvero alla diffusione dei dati. R. si è limitato a notiziare alcuni funzionari di banca circa le attività, le frequentazioni e le modalità di comportamento della Ro. . Manca il requisito della sistematicità perché esso si avvera quando la comunicazione avviene tramite cali center, catene di sms, mailing fistecc manca quello della diffusione ciò in quanto diffondere vuoi dire divulgare cioè dirigere una informazione a un numero illimitato di persone. La CdA, inoltre, sembra non tener conto del concetto di fine personale esplicitato dall'articolo 5 del predetto d.lgs. Con esso si intende il soddisfacimento di una esigenza di natura strettamente privata. R. ha affidato un incarico a una investigatrice privata, allo scopo di avere informazioni su chi avesse inviato un messaggio minaccioso sul suo telefono cellulare. L'imputato dunque non aveva scopi commerciali, né professionali, né collettivi o pubblici. Quarta censura violazione degli artt. 4, 26, 167 comma II d.lgs. 196/2003 per erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione quanto alla qualificazione dei dati trattati quali dati sensibili. Per i giudici del merito avere una relazione con un uomo sposato è sinonimo di avere rapporti sessuali con il predetto. L'interpretazione è arbitraria in quanto riduttiva. La CdA crede di rafforzare tale opinione ricordando che una dipendete della C. ebbe a definire la persona con la quale la Ro. aveva contatti come amante di costei, dimenticando che questa era l'opinione della predetta dipendente e non un dato obiettivo e indiscutibile. Per altro il codice della privacy si prefigge lo scopo di tutelare quei dati personali quali le convinzioni politiche, religiose, filosofiche i gusti sessuali, anche nei suoi aspetti patologici pedofilia sadomasochismo et similia . Quinta censura violazione degli artt. 23, 24, 167 d.lgs. 196/2003, per manifesta illogicità della motivazione ed erronea applicazione della legge penale, quanto alla ritenuta mancanza di consenso, in realtà validamente prestato da parte della Ro. al trattamento di dati personali. Invero la Ro. aveva prestato consenso al trattamento dei dati, avendo ella accettato di collaborare con la agenzia investigativa, in relazione alle minacce che poteri forti e occulti , operanti presumibilmente all'interno dell'istituto di credito nel quale ella prestava servizio avevano indirizzato al R. . I giudici del merito sostengono che detto consenso era stato estorto con l'inganno e che poi era stato revocato. In realtà, per quel che riguarda R. , va detto che lo stesso non ha avuto contatti con la Ro. e che quindi le modalità in cui si è svolta l'intervista riguardano solo il personale che a ciò ha effettivamente proceduto. I dati, per altro, forniti dalla Ro. certamente non possono dirsi sensibili numero di targa della sua autovettura ecc. . Sesta censura violazione dei medesimi articoli e della autorizzazione generale del Garante n. 6/2002, con conseguente erronea applicazione della legge penale, quanto al trattamento dei dati personali o sensibili da parte dell'investigatore privato. Va ritenuta la piena validità della predetta autorizzazione, cioè la possibilità per gli investigatori privati di prescindere lecitamente dal consenso dell'avente diritto nel trattare dati personali, anche sensibili. C. fu incaricata per iscritto da R. di effettuare determinati accertamenti. R. si risolse a tanto avendo subito minacce via sms. Per altro, la CdA sembra far confusione tra la pretesa violazione di tale autorizzazione e la condotta descritta dall'articolo 167 del d.lgs. più volte indicato, mentre in realtà le due fattispecie non sono sovrapponibili. I dati sono stati trattati esclusivamente a fini di indagine e solo per periodo di tempo limitato. È poi evidente che i dati trattati dalla C. non sono sensibili, ma semplici dati personali. È dunque irrilevante la pretesa mancata ottemperanza alla prescrizioni della autorizzazione 6/2002 e occorre considerare che l'articolo 167 non prevede alcun reato per il trattamento di dati personali in violazione dell'articolo 24 lett. f del d.lgs. 196/2003. Settima censura relativa al solo R. violazione dell'articolo 110 c.p. e 167 d.lgs. 196/2003 per erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione per quanto ritenuto contributo concorsuale nel reato ascritto alla titolare della struttura investigativa. R. si limitò a conferire l'incarico alla C. , che gestì professionalmente il rapporto. Secondo i giudici di merito, il R. sarebbe stato il vero dominus dell'indagine, ma ciò non ha fondamento né in fatto, né in diritto, atteso che l'articolo 170 codice della privacy indica il responsabile della condotta addebitata agli imputati, come persona rivestente una posizione di garanzia, posizione alla quale il R. , in quanto semplice committente, è estraneo. La CdA, travisando i fatti, ritiene che il R. avrebbe ammesso di aver dato carta bianca alla C. , ma l'assunto è privo di fondamento, in quanto risulta ex actis che a R. interessava solo il risultato della indagine, non certo le modalità. Ottava censura violazione del l'articolo 167 d.lgs. 196/2003 per erronea interpretazione della legge penale in ordine alla sussistenza della condizione obiettiva di punibilità del nocumento. La questione è già stata sollevata nei precedenti gradi di giudizio. Trattasi di condizione obiettiva di punibilità per entrambe le condotte previste dall'articolo 167 del d.lgs. del 2003. Ciò ha trasformato la fattispecie in reato di danno e non più di mero pericolo. È dunque indispensabile che il nocumento risulti provato a contestato nel corso del dibattimento. Tale non è il caso di specie, in quanto esso è contestato per la contravvenzione del capo a , che è stata oblata e per il delitto del capo c , vale a dire per la diffamazione, con la conseguenza che non può ritenersi che esso sia derivato dalla condotta di cui al capo b . Per quanto specificamente riguarda la C. , si fa rilevare che la stessa non è stata chiamata a rispondere del delitto di diffamazione e quindi del relativo nocumento. Invero il nocumento ex articolo 167 del ricordato d.lgs. non va confuso con il risultato dannoso delle molestie o con il sentimento di offesa provato dalla Ro. in seguito ai reclami scritti del R. , indirizzati ai vertici dell'agenzia bancaria. Nona censura relativa al solo R. violazione degli artt. 595 e 51 c.p. per insussistenza dell'elemento materiale del delitto di diffamazione e per mancata applicazione della scriminante del diritto di critica. Manca innanzitutto il requisito della comunicazione con più persone, atteso che le lettere sono state inviate al superiore gerarchico della Ro. . In ogni caso, furono utilizzate espressioni continenti e certo non volgari. Infine, va riconosciuto al R. l'esercizio del diritto di apprezzamenti sulla qualità del servizio e sulla condotta degli impiegati della banca della quale egli è cliente. Decima censura relativa alla C. violazione di legge in ordine al trattamento sanzionatorio. È stato operato giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la aggravante di cui al ricordato articolo 35, ma i giudici del merito hanno ritenuto che concorressero entrambe le fattispecie circa l'illecito trattamento dei dati personali e sensibili . Ebbene, nulla è detto circa la pena applicata in concreto alle due distinte ipotesi. Né è chiarito se le stesse debbano essere considerate in continuazione tra loro, mancando ogni precisazione e motivazione in merito all'eventuale aumento ex articolo 81 cpv. c.p Il che costituisce ulteriore prova che in sentenza è stato ritenuto un fatto diverso da quello contestato. In ogni caso, non è stata tenuto nel debito conto la condotta processuale della C. , ispirata alla massima collaborazione. Ella dunque sarebbe, comunque, stata meritevole di un più moderato trattamento sanzionatorio. Considerato in diritto La prima censura, meramente iterativa di quella proposta alla CdA e motivatamente respinta, è inammissibile per manifesta infondatezza. Invero, la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e l'accertamento contenuto in sentenza si verifica solo quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale ASN 200600818-RV 233257 . Infatti, le previsioni di cui agli artt. 521 e 522 c.p.p. hanno lo scopo di garantire il contraddittorio sul contenuto dell'accusa e, quindi, l'esercizio effettivo del diritto di difesa dell'imputato, con la conseguenza che non è possibile ipotizzarne una violazione in astratto, prescindendo dalla natura dell'addebito specificamente formulato nell'imputazione e dalle possibilità di difesa che all'imputato sono state concretamente offerte dal reale sviluppo della dialettica processuale ASN 200446203-RV 231169 . Nel caso in esame, il riferimento agli articoli di legge è parzialmente errato, ma la condotta addebitata agli imputati al capo b è puntualmente descritta nelle sue scansioni logiche e temporali 1 avere il R. incaricato la C. di svolgere investigazioni sulla vita privata della Ro. , 2 avere la C. anche tramite suoi dipendenti acquisito dati, sensibili e non sensibili, relativi alla vita privata della Ro., 3 avere gli imputati acquisito e comunicato a terzi dati personali e dati relativi alla sfera sessuale della Ro. e dunque, ancora, dati sensibili e dati relativi alla sua vita sentimentale, 4 avere, in tal modo, e, commettendo i reati di cui agli altri capi a e c , recato nocumento alla Ro. . Su tali – precisi dati fattuali i due imputati sono stati chiamati a difendersi. Non vi era, dunque, nulla da indovinare , bastava leggere, con la dovuta attenzione il capo di imputazione. D'altra parte, i ricorrenti hanno semplicemente enunziato la lesione del diritto di difesa, ma poi, non hanno chiarito come essa si sarebbe realizzata attraverso un'effettiva menomazione del suo esercizio nell'ambito di una piena e completa contrapposizione processuale. Insomma, non si può certo sostenere che i fatti enunziati in imputazione e ritenuti, poi in sentenza, si pongano in rapporto di eterogeneità cfr. ASN 200900081-RV 242368 , atteso che i fatti addebitati in imputazione, pur con erroneo riferimento agli articoli di legge, sono gli stessi ritenuti in sentenza. La seconda censura è infondata. Ha correttamente ritenuto la CdA che tra la norma incriminatrice della legge 675/1996 e quella del d.lgs. 196/2003, vi sia vi possa essere continuità normativa. Entrambe prevedono la presenza del nocumento della PO, ma, come è già stato osservato da questa Corte ASN 200430134-RV 229472 , mentre il reato di pericolo presunto, di cui al previgente articolo 35 della legge 675/1996, lo prevedeva come circostanza aggravante per la persona alla quale i dati illecitamente trattati si riferiscono, l'articolo 167 del d.lgs. 196/2003 ha tipizzato il citato nocumento, da intendersi, sia riferito al soggetto stesso, che al suo patrimonio, come condizione obiettiva di punibilità introducendo anche un dolo specifico di danno . Peraltro, è noto cfr. SU sent. 25887 del 2003, ric. Giordano e altri, RV 224607 che, in tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile la regola del III comma dell'articolo 2 c.p., occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge ovviamente non sono più punibili i fatti commessi in precedenza e rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie . Tale situazione va verificata in base al criterio di coincidenza strutturale tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo. Orbene, la condotta degli imputati, come descritta nel capo di imputazione, era punibile sotto il vigore della legge del 1996 ed è punibile sotto il vigore di quella del 2003. A. R. e C. è contestato di aver arrecato, con la loro condotta, nocumento alla PO. E1 di tutta evidenza che il fatto che il nocumento fosse previsto come circostanza aggravante nella normativa previgente ed è previsto, viceversa, come condizione obiettiva di punibilità in quella attuale non può aver rilievo. Ciò che ha rilievo, come appena chiarito, è che il fatto condotta più elemento psicologico costituente reato prima, sia considerato dal legislatore, ovviamente reato anche dopo. E tale è il caso in esame. Tanto premesso, è corretta la opinione dei giudici di merito, in base alla quale la legge precedente deve ritenersi più favorevole agli imputati, atteso che una circostanza aggravante può essere oggetto del giudizio di bilanciamento ex articolo 69 c.p., mentre tale trattamento non può mai essere riservato a una condizione obiettiva di punibilità. La individuazione e la scelta della legge più favorevole va evidentemente fatta con riferimento al trattamento sanzionatorio globalmente inteso, naturalmente . D'altronde, se così non fosse, e si dovesse condividere il punto di vista dei ricorrenti, posto che la condotta addebitata ai due imputati costituirebbe comunque reato, se si dovesse applicare quoad poenam la nuova normativa, si giungerebbe alla paradossale conclusione che essi hanno impugnato tale capo della sentenza per avere un trattamento sanzionatorio più severo. Il fatto poi che il nocumento sia stato contestato, per c.d., per relationem ai due imputati ottava censura non può avere rilievo alcuno. È di tutta evidenza che le condotte dei capi a e b si pongono si porrebbero tra loro in rapporto di concorso formale. La violazione della privacy di Ro.Da. è avvenuta anche con le modalità di cui al capo a . È vero che la contravvenzione ex articolo 660 c.p. è stata oblata, ma l'oblazione non cancella il fatto storico. La ipotesi di accusa voleva che R. e C. avessero posto in essere il delitto del capo b , anche mediante la condotta del capo a . E i giudici del merito hanno condiviso tale impostazione. Non si tratta insomma, come pretendono i ricorrenti, di confondere il nocumento con il risultato dannoso delle molestie, atteso che avere abusivamente esercitato controlli sulla Ro. , averle carpito informazioni sulla sua vita privata con riferimento, come si vedrà, anche a sfere particolarmente riservate , aver diffuso presso terzi tali notizie costituisce, inevitabilmente, nocumento. È di tutta evidenza, invero, che il concetto di nocumento è ben più ampio di quello di danno, volendo esso abbracciare qualsiasi effetto pregiudizievole che possa conseguire alla arbitraria condotta invasiva altrui. Nel richiedere appunto quale condizione obiettiva di punibilità il nocumento, la legge vuole escludere dalla sfera del penalmente rilevante quelle condotte, pure intrusive, che tuttavia siano rimaste del tutto irrilevanti nelle loro conseguenze. È dunque evidente che la condotta sub c riguardi il solo R. tale è la contestazione , ma è altrettanto evidente che essa è, quanto alle conseguenze, relativa al danno da lesione della reputazione. La condotta sub a e b viceversa riguarda entrambi i ricorrenti. La terza censura è manifestamente infondata. Costituisce opinione personalissima dei ricorrenti che evidentemente confondono sistematico con automatico o con telematico quella in base alla quale la comunicazione sistematica di dati è solo quella che si svolge con l'utilizzo di macchine e attrezzature o comunque attraverso la rete . L'assunto è per altro normativamente smentito, atteso che il comma I lett. L articolo 4 del vigente d.lgs. sulla privacy fornisce il concetto di comunicazione esplicitata come dare conoscenza dei dati a uno o più soggetti determinati diversi dall'interessato laddove al comma II lettera a fornisce il preciso concetto di comunicazione elettronica ogni informazione scambiata o trasmessa tra un numero finito di soggetti, tramite un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico ecc . Invero, nella comune accezione, sistematico sta a significare metodico , reiterato , organizzato . Per altro, è stato ritenuto ASN 200505728-RV 230834 che il trattamento dei dati personali, effettuato da un soggetto privato per fini esclusivamente personali è soggetto alle disposizioni della normativa sulla privacy, tanto se i dati siano destinati ad una comunicazione sistematica, quanto se siano destinati alla diffusione. E, in tal caso, è necessario il consenso dell'interessato. Ancora manifestamente infondata è la quarta censura. Sostenere che l'espressione riferita a una donna avere una relazione con un uomo sposato non implichi un coinvolgimento di natura sessuale è, considerato l'uso corrente della espressione, addirittura paradossale, ai limiti della provocazione. I giudici del merito desumono la natura intima della relazione tra la PO e un suo collega di lavoro, non solo dalla accezione che correntemente e pacificamente – tutti ne fanno, ma anche dal fatto che la moglie dell'uomo sposato , venuta a conoscenza della relazione tra il coniuge e la Ro. , minacciò azioni ritorsive, non escludendo la possibilità di informare della situazione i superiori gerarchici della Ro. e ancora dal fatto che l'amante della PO così esplicitamente qualificato da una collaboratrice della C. che aveva avuto contatto diretto con la Ro. si mostrò, quantomeno, contrariato dalla diffusione della notizia. Difficilmente, argomenta la CdA, simili reazioni avrebbero potuto esser scatenate dalla scoperta di un legame platonico. E che poi oggetto di tutela non siano solo i gusti sessuali di un individuo astrattamente e genericamente considerati , ma, anche, le concrete scelte che, in questo campo, il soggetto va ad operare, è chiaramente evincibile dalla stessa lettera del medesimo articolo 4, laddove lettera D del comma I definisce i dati sensibili con riferimento ai dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale non semplicemente le tendenze o le aspirazioni in tale campo . La quinta censura è inammissibile in quanto articolata in fatto. La CdA ha motivatamente chiarito perché ebbe a ritenere che il consenso alla Ro. fosse stato carpito con modalità ingannevoli e come le attività investigative siano proseguite nonostante la predetta, resasi conto di quanto stava accedendo, si fosse, a un certo punto, rifiutata di offrire la sua collaborazione. I ricorrenti altro non fanno che contestare, frontalmente, ma sterilmente, tale ricostruzione in fatto. Per quanto specificamente riguarda la posizione del R. , la Corte torinese ha chiarito per qual motivo lo stesso è da ritenersi concorrente nella illecita attività investigativa predisposta e fatta porre in essere dalla C. . I giudici di secondo grado hanno ricordato che R. , quale cliente della agenzia investigativa, chiese di raggiungere i risultati a ogni costo, non interessandogli i metodi, ma solo il risultato. E che questa non fosse una mera affermazione di principio, del tutto slegata dalla condotta in concreto tenuta, la CdA lo desume dal fatto che gli sviluppi della indagine venivano capillarmente seguiti dal committente, che interveniva con prescrizioni, indicazioni e suggerimenti. Va poi chiarito che i dati carpiti alla Ro. ben possono ritenersi dati personali quelli sensibili furono acquisti con altra metodologia , tale essendo, ad es., anche il numero di targa del suo veicolo, a nulla rilevando che esso sia visibile a tutti quando l'auto circola per la strada. Ciò che rileva, ovviamente non è il numero in sé, ma il suo abbinamento a una persona. Del resto, in tal senso si è orientata la giurisprudenza di questa Corte, ad es. con riferimento al numero della utenza cellulare di un soggetto ASN 200846203-RV 241787 . Anche in questo caso, per altro, soccorre, la stessa lettera della legge articolo 4 comma I lettera B che qualifica dato personale qualunque informazione relativa a una persona fisica, giuridica ecc , identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale. La sesta censura è inammissibile perché, in parte articolata in fatto, in parte manifestamente infondata. La CdA ha motivatamente illustrato la natura pretestuosa della giustificazione in base alla quale R. conferì e C. sviluppò la attività di indagine che si concretizzò esclusivamente in un controllo della vita privata della Ro. . Si legge in sentenza che il R. ricevette sul suo cellulare un sms dal seguente tenore è inutile che perdi tempo dietro alla Ro.Da. perché lei esce con un suo collega sposato. Stai attenta”. Sentendosi minacciato dai poteri forti e occulti , che a suo dire operavano all'interno dell'istituto bancario nel quale la Ro. era impiegata e nel quale egli era cliente, il predetto si rivolse alla C. , titolare della agenzia di investigazioni . , perché accertasse la identità dell'autore del messaggio. Il modulo che R. sottoscrisse cfr. sentenza pag. 6 , contenente l'incarico all'agenzia, recava come causale dell'incarico la generica dicitura servizi di sicurezza per molestie-persona da identificare con riferimento alla intenzione di far valere a difendere un diritto in sede giudiziaria , con riferimento evidente all'articolo 24 lettera f del d.lgs. sulla privacy, che prevede uno dei casi in cui il consenso dell'interessato, per la raccolta dei suoi dati, non è necessario. I giudici di appello, al proposito, hanno evidenziato 1 che il R. aveva, in passato e senza successo, corteggiato la R. , 2 che lo stesso, nei confronti della ragazza, aveva tenuto un atteggiamento oscillante tra il rimprovero per presunte manchevolezze sul lavoro non sollecita esecuzione di fotocopiatura di assegni che egli, quale cliente, richiedeva e le reiterate avance inviti a cena ecc. che formulava, 3 che tutta la attività di indagine della Holmes Investigazioni si era concentrata sulla vita privata della Ro. , con particolare riferimento alla sua relazione con un collega sposato, 4 che nessun accertamento tecnico era stato condotto per risalire all'apparecchio che aveva inviato il messaggio minaccioso , 5 che la querela che il R. aveva presentato alla Procura della repubblica con riferimento al predetto messaggio minaccioso era stata archiviata in assenza di qualsiasi opposizione del querelante. Da ciò la Corte territoriale è giunta, non certo illogicamente, alla conclusione che ciò che realmente interessava al R. era controllare la vita privata dalla Ro. , utilizzando il messaggio sul cellulare quale pretesto per incaricare un'agenzia di investigazioni. E a tale conclusione la CdA perviene anche sulla base del successivo comportamento dell'uomo, che utilizzò le informazioni ottenute per danneggiare la reputazione della Ro. nel suo ambiente di lavoro, senza che ciò potesse svolgere alcun ruolo funzionale nella scoperta e neutralizzazione dei poteri forti e occulti dai quali l'imputato si sentiva o diceva di essere perseguitato. Dalla natura riconoscibilmente pretestuosa con aspetti addirittura paradossali, cfr. il riferimento, appunto, ai poteri occulti che si sarebbero accaniti contro un quisque de populo ecc. della richiesta avanzata alla C. , la CdA trae la conclusione che non ricorreva la ipotesi di cui all'articolo 24 lettera f casi nei quali il consenso dell'interessato non è necessario . Trattandosi, come premesso, sia di dati personali che di dati sensibili, ricorrono le ipotesi ex articolo 167, mentre rimane del tutto assorbita la questione della eventuale violazione della autorizzazione del Garante n. 6/2002. La settima censura è inammissibile perché articolata in fatto. Circa il concorso del R. nella illecita attività della C. si è già detto supra a proposito della quinta censura. Della ottava censura si è già trattato a proposito della seconda. La nona censura è manifestamente infondata. Quanto all'elemento materiale del delitto di diffamazione, non è dubbio che la diffusione all'interno del ristretto ambito lavorativo della notizia della esistenza di una relazione, sentimentale e sessuale, clandestina tra due impiegati può avere natura diffamatoria, specie se uno dei due è sposato. È pur vero che la condotta adulterina fu, nel caso di specie, addebitata, non alla Ro. , ma al suo amante l'unico che fosse coniugato , ma è altrettanto vero, che la riprovazione sociale anche se, spesso, materiata da una non trascurabile dose di ipocrisia colpisce, solitamente, in casi del genere, entrambi i partner, d'altronde, anche in assenza di valutazioni morali da parte di terzi, fatti del genere sono oggetto di malevolo pettegolezzo. In ogni caso, il fatto che la Ro. abbia voluto mantenere segreta la relazione con il collega, costituisce controprova del fatto che entrambi si sarebbero ritenuti danneggiati anche sul piano della reputazione dalla diffusione della notizia. E che la notizia sia stata, appunto, diffusa, non è dubitabile, atteso che il destinatario della lettera il direttore della filiale non poteva, né doveva, tenere per sé l'informazione, che, essendo relativa a una impiegata per una sua presunta scorrettezza comportamentale, doveva necessariamente essere portata a conoscenza dei competenti organi aziendali. Quanto alla pretesa sussistenza della scriminante del diritto di critica, è appena il caso di notare che manca del tutto il requisito della rilevanza sociale delle notizie che il R. si era premurato di diffondere all'interno dell'ambiente di lavoro della Ro. . Che la stessa avesse o avesse avuto una relazione con un collega sposato , che portasse minigonne vistose o vestisse in modo, secondo il R. , non appropriato, non si vede in che maniera potesse riguardare, non si vuoi dire la salus rei publicae , ma nemmeno il rendimento professionale della donna. Come cliente, il R. avrebbe potuto lamentarsi delle vere o pretese defaillance professionali della impiegata, se esse lo avessero danneggiato, ma non si vede quale rilievo possano avere avuto, per il R. e per la ristretta comunità dei colleghi della Ro. , le sue vicende personali, sentimentali e sessuali. Il fatto che il R. fosse cliente della banca non lo autorizzava certo a ritenere che gli impiegati dell'istituto di credito fossero suoi dipendenti, né tanto meno lo investiva di alcuna delega disciplinare. La decima cesura è inammissibile, nella parte in cui rileva la omessa applicazione della continuazione tra la prima e la seconda ipotesi dell'articolo 167, per mancanza di interesse nella parte in cui lamenta la eccessiva severità del trattamento sanzionatorio è generica, in quanto non tiene in alcun conto le diffuse argomentazioni sviluppate in merito dalla CdA nella parte finale della sentenza impugnata. Invero, non infondatamente i giudici di secondo grado ritengono la estrema gravità dei fatti accertati, fatti che, si osserva, se fossero stati commessi dopo la entra in vigore della legge 11/2009, avrebbero integrato il ben più grave reato di cui all'articolo 612 bis c.p. c.d. stalking . La prescrizione non è maturata, atteso che le sospensioni intervenute nel corso dell'iter processuale, la hanno spostata al 5.10.2011. Conclusivamente, i ricorsi meritano rigetto e i ricorrenti vanno singolarmente condannati al pagamento delle spese processuali. Gli stessi vanno anche condannati solidalmente al ristoro delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla PC, che si liquidano come da dispositivo. Deve farsi luogo al c.d. oscuramento dei dati in quanto previsto dalla legge. P.Q.M. rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese processuali e, in solido, alla rifusione alla parte civile delle spese sostenute in questo grado di giudizio, che liquida in compressivi Euro duemilaottocentotrentacinque 2.835 , oltre accessori come per legge.