Fallimento aperto nel lontano 1995 ed ancora pendente: qual è il dies a quo per l’equa riparazione?

Nel caso in cui i creditori di una società dichiarata fallita propongano istanza di equa riparazione per l’irragionevole durata della procedura, occorre far riferimento alla data del decreto di ammissione al passivo ai fini dell’individuazione del dies a quo nella liquidazione del danno.

Sul tema la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 21200/18, depositata il 27 agosto. La vicenda. Durante le more di una procedura fallimentare, aperta nel 1995, i creditori proponevano domanda per l’equa riparazione del danno conseguente alla’irragionevole durata della procedura stessa. La Corte d’Appello di Roma, rilevando che nel caso delle procedure fallimentari, intrinsecamente connotate da una particolare complessità, il termine di durata è stato individuato in 5 anni per quelle di media complessità ed in 7 anni per quelle più gravose come nel caso di specie , accoglieva la domanda condannando il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di 4.500 euro per ciascuno dei creditori. Riteneva infatti il Giudice che occorre tener conto della data di insinuazione dei creditori al passivo ai fini dell’individuazione del dies a quo e di quella del ricorso per equa riparazione come dies ad quem , essendo la procedura ancora pendente in quel momento. Avverso tale provvedimento, propone ricorso per cassazione il Ministero soccombente. La posizione dei creditori. Ai fini del giudizio di legittimità, diviene dirimente il motivo con cui il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 l. n. 89/2001, c.d. Legge Pinto. La giurisprudenza cfr. Cass. n. 950/2011 ha già avuto modo di chiarire che, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la nozione di procedimento presa in considerazione dall’art. 6 Cedu include anche i procedimenti fallimentari. Sulla base di tale premessa, è stato ulteriormente precisato che occorre aver riguardo - quale dies a quo - al decreto con il quale ciascuno dei creditori sia stato ammesso, in via tempestiva o tardiva al passivo artt. 97, 101 e 99 l. fall. , rimanendo invece irrilevante il momento in cui l’allora presunto creditore abbia proposto domanda di insinuazione. Come precisa il Collegio, infatti, solo dal momento dell’ammissione i creditori, effettivamente riconosciuti come tali, subiscono gli effetti dell’irragionevole durata dell’esecuzione fallimentare nella quale si sono insinuati, rimanendo per gli stessi irrilevante la durata pregressa della procedura . Ha dunque errato la Corte capitolina nell’individuare il dies a quo nella data di proposizione della domanda di ammissione, motivo per cui la S.C. accoglie il motivo di ricorso e cassa, in relazione allo stesso, il decreto impugnato con rinvio ad altra sezione della medesima Corte per un nuovo esame.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 29 gennaio – 27 agosto 2018, n. 21200 Presidente Petitti – Relatore Dongiacomo Fatti di causa Le persone indicate in epigrafe come controricorrenti , con ricorso depositato il 27/4/2011, hanno proposto la domanda intesa ad ottenere l’equa riparazione del danno conseguente alla durata non ragionevole della procedura fallimentare aperta, innanzi al tribunale di Napoli, nei confronti della s.p.a. Calzaturificio Cillo, con sentenza del 20/7/1995 ed ancora pendente. Il Ministero della giustizia, costituendosi in giudizio, ha dedotto il difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti, non avendo gli stessi fornito prova adeguata della insinuazione al passivo nella procedura fallimentare l’irrilevanza, per la maggior parte dei ricorrenti, del credito vantato e dei tempi di durata della procedura, anche in ragione dell’intervento del Fondo di garanzia presso l’INPS tra l’aprile del 2003 ed il 16/7/2009 l’inammissibilità del ricorso, per indeterminatezza dello stesso, in mancanza dell’individuazione della data di insinuazione al passivo ed in mancanza della prova dell’illecito e del danno da esso causato e, comunque, dell’ascrivibilità della pretesa irragionevole durata del processo al comportamento colposo dello Stato in subordine, la procedura fallimentare è stata di complessità superiore alla media, per il notevole numero dei creditori, per l’entità del passivo da accertare e per le opposizioni allo stato passivo, con l’individuazione di una durata ragionevole in sette anni, cui vanno aggiunti altri due anni per la stasi fra i due gradi e le operazioni di chiusura del fallimento, con conseguente assenza di ritardo riparabile. La corte d’appello di Roma, con decreto depositato in data 11/10/2016, ha accolto la domanda, condannando il Ministero al pagamento, a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale subito dai ricorrenti, della somma di Euro 4.500,00 ciascuno. La corte d’appello, in particolare, dopo aver premesso che la prova delle istanze di ammissione al passivo emerge dalla documentazione in atti, e che il giudice, nell’esaminare il mancato rispetto della durata ragionevole del processo, valuta la complessità del caso ed, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrere alla sua definizione, ha ritenuto, innanzitutto, che, con riguardo alla procedura fallimentare in cui i ricorrenti si sono insinuati per il soddisfacimento del loro credito a far data dal 1995, occorre tener conto di tale data come dies a quo e di quella del ricorso per equa riparazione 27/4/2011 come dies ad quem, essendo la procedura pendente a quella data. La corte, poi, dopo aver rilevato che nel caso delle procedure fallimentari, caratterizzate per loro natura da una maggiore complessità, poiché aventi varie fasi e comportanti anche valutazioni economiche non particolarmente semplici, il termine di durata è stato individuato in cinque anni per quelle di media complessità ed in sette anni per le altre più gravose, ha ritenuto che, nel caso esaminato, la procedura fallimentare deve ritenersi di particolare complessità, in considerazione dell’elevato numero dei creditori, dell’entità del passivo da accertare e dei giudizi di opposizione allo stato passivo, per cui il termine di ragionevole durata va individuato in anni 7 decorrente, nel caso di specie, dalle istanze di insinuazione al passivo dell’anno 1995 e che la durata del giudizio 16 anni circa dal 1995 al 2011, data del ricorso per equa riparazione , superiore ai 7 anni di ragionevole durata massima della procedura, è riconducibile sicuramente a disfunzioni dell’apparato giudiziario, con conseguente ristoro dei danni non patrimoniali subiti dalla parte ricorrente, per il periodo eccedente i 7 anni ovvero per 9 anni , costituiti dal disagio e dallo stress connessi alla legittima aspettativa di una celere conclusione del giudizio , nei limiti, peraltro, del solo danno morale, non risultando prova alcuna del danno patrimoniale . Né, ha osservato la corte, l’intervento del fondo di garanzia dell’INPS in favore dei ricorrenti, insinuatisi nel passivo del fallimento, consente di escludere il paterna d’animo ed il disagio derivante dalle lungaggini della procedura fallimentare, potendo rilevare ai fini della entità dell’indennizzo in conseguenza del minore nocumento derivato all e parti, indennizzo che va individuato in Euro 500,00 per ogni anni di ritardo, in tal senso potendosi valutare l’eventuale beneficio ottenuto dagli istanti . La corte, quindi, ha ritenuto di riconoscere a ciascun ricorrente a titolo di equo indennizzo la somma di Euro 4.500,00, pari ad Euro 500,00 per ciascuno dei nove anni di ritardo. Il Ministero della giustizia, con ricorso notificato il 11/4/2017, ha chiesto, per cinque motivi, la cassazione del decreto. Hanno resistito gli originari ricorrenti con controricorso notificato il 22/5/2017. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando l’omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia che ha formato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d’appello ha omesso di valutare l’eccezione di improcedibilità del ricorso per la genericità dello stesso in ordine al dies a quo, e cioè la data di insinuazione del credito al passivo, limitandosi a ritenere raggiunta la prova sullo an circa la partecipazione alla procedura fallimentare, per di più facendo altrettanto genericamente decorrere il dies a quo dall’anno 1995, in ciò, tra l’altro, pretermettendo ogni ulteriore valutazione circa la complessità del caso, poiché, come dedotto innanzi alla corte d’appello, richiamando a sostegno delle proprie eccezioni la relazione informativa del curatore in data 2/3/2015 v. il ricorso, p. 12 ss , i crediti lavorativi erano riferiti non solo ai cento lavoratori dipendenti della società fallita, ma anche ad altri cento lavoratori a domicilio retribuiti a cottimo, specie se si considera, ha aggiunto il ricorrente, la permanenza dei rapporti lavativi nel corso della procedura per effetto della CIG straordinaria, con relativa maturazione di emolumenti e la relativa necessità di istanze di insinuazione integrative. 2. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2 della I. n. 89 del 2001, nonché dell’art. 75 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d’appello, avendo assunto quale dies a quo la data di presentazione del ricorso, e cioè il 27/4/2011, ed avendo, poi, fatto riferimento ad un arco temporale complessivo di durata pari a sedici anni, ha, in definitiva, assunto, quale dies a quo, il 27/4/1995, vale a dire una data nella quale il fallimento non era neppure stato aperto, per cui tale termine dev’essere necessariamente ricondotto ad una data successiva solo che, ha aggiunto il ricorrente, il dies a quo non può essere compreso nel periodo in cui, tra il 1995 ed il 14/5/1997, sono state presentate le diverse istanze, sicché, in mancanza di una sicura data di riferimento, il dies a quo non può che essere ricondotto a quest’ultima data, quando è stato approvato lo stato passivo, con la conseguenza che il periodo di durata da valutare è di quattordici anni circa e non sedici, come ritenuto nel decreto impugnato. 3. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2 della L. n. 89 del 2001, nonché dell’art. 75 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d’appello, salvo che per un accenno all’effetto riduttivo in sede di liquidazione dell’indennizzo, ha omesso di considerare sia l’intervento surrogatorio del Fondo di garanzia presso l’INPS, sia il piano di riparto parziale del 2003, laddove, come riferito dal curatore nella allegata relazione informativa, l’INPS ha versato le somme vantate a titolo di trattamento di fine rapporto e si è, poi, insinuato, a seguito di surroga, per circa 350.000 Euro su un totale di crediti vantati dagli ex dipendenti per 460.000 Euro circa, con la conseguenza che, se si considera l’entità decisamente limitata degli importi originariamente insinuati, pari nei casi più rimarchevoli ad alcune migliaia di Euro sino a degradare nei casi meno rilevanti ad alcune centinaia di Euro, non si comprende come il decreto impugnato abbia potuto affermare l’incidenza degli interventi in corso di procedura secondo un criterio di astratto automatismo, senza tener conto che le posizioni riferibili ai ricorrenti fossero tutt’altro che omogenee ed, in ogni caso, liquidando un indennizzo pari ad Euro 4.500,00, con superamento, anche per le posizioni creditorie più consistenti, della posta in gioco, che pure costituisce parametro normativamente rilevante. 4. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando l’omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia che ha formato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d’appello, nella determinazione del quantum, si è limitata a richiamare l’effetto riduttivo conseguente all’intervento surrogatorio del Fondo di garanzia presso l’INPS riducendo l’indennizzo alla somma di comma 500,00 per ogni anno di ritardo, procedendo, di fatto, ad una mera liquidazione tabellare e/o secondo un criterio di astratto automatismo. Del resto, ha aggiunto il ricorrente, con riferimento a talune posizioni, da un lato, non era dato nemmeno evincere, nel ricorso, la stessa entità degli importi insinuati, mentre, dall’altro, come eccepito in comparsa di costituzione, una buona parte delle posizioni considerate risultano riferibili a crediti per importi decisamente circoscritti, se non, in taluni casi, irrisori, laddove, con riguardo alle posizioni restanti, gli importi più elevati insinuati ammontano a cifre dell’importo pari ad alcune migliaia di Euro. Ne consegue che, stante la assoluta genericità del decreto impugnato circa la posta in gioco, non è dato comprendere, ha concluso il ricorrente, in base a quale iter logico giuridico ed in base a quali parametri la corte di merito sia pervenuta alla relativa liquidazione, pari ad Euro 4.500,00 per ciascun ricorrente, finendo, così, per riconoscere importi ben superiori a quelli esigibili in corso di procedura ed, a fortiori, di quelli conseguibili in sede di riparto finale. 5. Con il quinto motivo, il ricorrente, lamentando la motivazione apparente in relazione al parametro costituzionale ex art. 111, comma 2, Cost., in riferimento all’art. 360 n. 4 c.p.c., ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d’appello, pur in presenza di una posta in gioco ab origine circoscritta e pur dando atto dell’intervento del Fondo di garanzia presso l’INPS, non ha verificato, in sede di liquidazione dell’indennizzo, se il suddetto intervento avrebbe potuto comportare una tacitazione delle posizioni creditorie vantate né l’entità delle posizioni creditorie residue ed il grado di realizzo in sede di riparto finale. 6. Il secondo motivo è fondato. Nella giurisprudenza di questa Corte si è, infatti, chiarito che in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la nozione di procedimento presa in considerazione dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali include anche i procedimenti fallimentari Cass. n. 950 del 2011 . Tuttavia, se si tratta dei creditori, occorre aver riguardo, quale dies a quo, al decreto con il quale ciascuno di essi è stato ammesso, in via tempestiva o tardiva artt. 97, 101 e 99 L. fall. , al passivo irrilevante, invece, rimanendo, rispetto alla ragionevole durata della procedura fallimentare, il momento in cui il presunto creditore abbia proposto la domanda di ammissione al passivo, che, al più, può valere ai fini della ragionevole durata del procedimento di accertamento della pretesa, a norma degli artt. 92 ss L. fall. . Solo dal momento dell’ammissione, infatti, i creditori, effettivamente riconosciuti come tali, subiscono gli effetti della irragionevole durata dell’esecuzione fallimentare nella quale si sono insinuati, rimanendo, per gli stessi, irrilevante, la durata pregressa della procedura, alla quale sono rimasti, fino a quel momento, estranei, salvo che per gli accantonamenti nei riparti parziali, a norma dell’art. 113 l. fall., i quali, tuttavia, richiedono o una misura cautelare in sede di opposizione ovvero l’accoglimento dell’opposizione con decreto non ancora definitivo in senso contrario, sul punto, Cass. n. 2207 del 2010 Cass. n. 20732 del 2011 Cass. n. 2013 del 2017, in motiv., che hanno dato rilievo, rispetto alla procedura di fallimento, alla domanda di ammissione al passivo, e Cass. n. 22422 del 2013, che ha dato, invece, rilievo, al medesimo fine, alla sentenza dichiarativa di fallimento . Nel caso in esame, la corte d’appello, ritenendo che il dies a quo dovesse essere individuato nel giorno in cui i creditori hanno proposto la domanda di ammissione, non ha fatto corretta applicazione dei principi suindicati. 7. I restanti motivi sono assorbiti. 8. Il ricorso, in relazione al motivo accolto, dev’essere, quindi, accolto ed il decreto impugnato, per l’effetto, cassato, con rinvio, per un nuovo esame, ad altra sezione della corte d’appello di Roma, anche ai fini della regolazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M. la Corte così provvede accoglie il secondo motivo assorbiti gli altri cassa, in relazione al motivo accolto, il decreto impugnato, con rinvio, per un nuovo esame, ad altra sezione della corte d’appello di Roma, anche ai fini della regolazione delle spese del presente giudizio.