Manifesto polemico: consigliere comunale escluso e risarcito

Il candidato uscito bene dalle urne dovrà percepire 5mila euro dal Comune. Illegittima la sua esclusione, poiché poggiata su un’azione, cioè la pubblicazione di un manifesto, connessa al legittimo esercizio del mandato.

Manifesto polemico firmato dal candidato eletto in consiglio comunale. Sproporzionata la reazione del Municipio, che fa partire un’azione a tutela della propria reputazione ed esclude il consigliere. Quest’ultima decisione, in particolare, è ritenuta illegittima dai Giudici e viene punita con l’obbligo di un ristoro economico a favore del politico Cassazione, ordinanza n. 1906/2018, Sezione Prima Civile, depositata oggi . Frustrazione. Contesto della vicenda è un piccolo paese calabrese. Casus belli è un manifesto firmato da un consigliere comunale, manifesto che suscita la reazione del Comune, ossia il provvedimento con cui ne viene dichiarata la incompatibilità . A distanza di 2 anni, però, quell’esclusione è catalogata come illegittima. Già il Tribunale ha osservato che la pubblicazione del manifesto titolato ‘Tutti i cittadini devono sapere’ doveva ritenersi fatto connesso con l’esercizio del mandato . Consequenziale la decisione con cui è stata disposta l’immediata reintegrazione del consigliere , aggiungendo poi la condanna del Comune a versare 5mila euro al consigliere a mo’ di risarcimento. E sulla stessa linea si è attestata anche la Corte d’Appello, ritenendo provato il danno derivante dalla privazione del diritto-dovere di esercitare la carica . A chiudere la battaglia provvede ora la Cassazione, ribadendo l’illegittimità della condotta tenuta dal Comune, identificato come autore di un illecito e quindi responsabile per il danno arrecato al consigliere comunale. Su questo fronte, in particolare, i Giudici ritengono evidente la comprensibile frustrazione dell’amministratore pubblico cui è impedito l’esercizio del mandato proprio in ragione delle modalità con cui lo ha esercitato .

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 23 novembre 2017 – 25 gennaio 2018, n. 1906 Presidente Giancola Relatore Sambito Fatti di causa Ge. Mo. adì, ex artt. 22 del D.Lgs. 150 del 2011 e 702 bis c.p.c, il Tribunale di Cosenza per sentir dichiarare l'insussistenza della causa d'incompatibilità dalla carica di consigliere del comune di Fagnano Castello, di cui alla delibera di presa d'atto del 19.2.2015, riferita all'art. 69, co 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, e per ottenere la condanna del Comune al risarcimento del danno non patrimoniale per l'ingiusta esclusione dal Consiglio comunale. Nella contumacia di Cr. Al., prima candidata non eletta subentrata al Mo., e nel contraddittorio del Comune, il Tribunale adito ritenne sussistente l'esimente di cui al comma 3 dell'art. 63, in quanto la pubblicazione del manifesto dal titolo tutti i cittadini devono sapere da cui era scaturita l'azione a tutela della reputazione del Comune nei confronti del Consigliere comunale, doveva ritenersi fatto connesso con l'esercizio del mandato. Per l'effetto il Tribunale, annullato ogni provvedimento, dispose l'immediata reintegrazione del Mo. e condannò il Comune al risarcimento del danno, liquidato in Euro 5.000,00. Con sentenza del 24.11.2016, la Corte d'Appello di Catanzaro dichiarò il difetto di legittimazione del Comune in ordine alle questioni relative alla decadenza dalla carica di consigliere comunale del Mo. e, preso atto che la subentrante Moia, unica legittimata, non se ne era doluta, rilevò che il relativo capo era passato in giudicato. Ritenne, invece, il Comune legittimato in ordine alla ordinaria causa di risarcimento del danno , connessa con quella elettorale perché fondata sui medesimi presupposti, e provato il danno, anche sulla base di nozioni di comune esperienza, in quanto derivante dalla privazione del diritto-dovere di esercitare la carica, confermando la liquidazione equitativa effettuata dal Tribunale e non specificamente contestata. Per la cassazione della sentenza, il Comune ha proposto ricorso con tre motivi, con cui censura la statuizione di condanna al risarcimento del danno. Ge. Mo. ha depositato atto di costituzione e, successivamente, memoria. Il PG ha depositato conclusioni scritte. Ragioni della decisione 1. Il Collegio ha autorizzato la redazione della motivazione in forma semplificata. 2. Deve, preliminarmente, affermarsi l'ammissibilità della memoria del Mo., che pur non ha depositato controricorso. Ed, infatti, dopo la riforma recata dal d.l. n. 168 del 2016 conv., con modif., dalla L. n. 197 del 2016 , deve ritenersi consentito il deposito della memoria ex art. 380-bis c.p.c, quale unica altra attività difensiva permessa nel procedimento a struttura camerale non partecipata e, quindi, equiparata o sostitutiva della partecipazione alla pubblica udienza, che è sempre stata pacificamente ammessa, pur in presenza di controricorso inammissibile Cass. n. 13093 del 2017 , e dunque di deposito di un mero atto di costituzione. 3. Col primo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 40 c.p.c. e 22 del D.Lgs. n. 150/2011, per non avere il giudice d'Appello ritenuto precluso il simultaneus processus delle cause risarcitoria ed elettorale, nonostante le stesse fossero soggette a riti diversi e nonostante esso Comune fosse estraneo al giudizio elettorale. 5. Premesso che non è stata censurata l'affermata responsabilità dell'Ente quale autore dell'illecito, perciò legittimato passivo pag. 7 sentenza , e che sull'ammissibilità della domanda risarcitoria non sono mai state formulate censure inerenti a profili di giurisdizione, talché su tale questione -a parte ogni rilievo sulla relativa fondatezza si è formato il giudicato interno cfr. Cass. SU n. 24883 del 2008 e successive conformi , la doglianza è inammissibile. 4. E' bensì vero, infatti, che l'art. 40 c.p.c, nel consentire il cumulo nello stesso processo di domande soggette a riti diversi esclusivamente in presenza di ipotesi qualificate di connessione cd. per subordinazione o forte artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c , esclude la possibilità di proporre più domande connesse ai sensi dell'art. 33 o dell'art. 103 c.p.c. soggette a riti diversi, ma è anche vero che la mancanza di una ragione di connessione idonea a consentire, ai sensi dell'art. 40 c.p.c. la trattazione unitaria delle cause, può essere eccepita dalle parti o rilevata dal giudice non oltre la prima udienza, in analogia a quanto disposto dal medesimo art. 40, co 2 cfr. Cass. n. 9915 del 2007 e 18870 del 2014 cit. . 6. Nella specie, la circostanza sottolineata in seno al ricorso, secondo cui la connessione tra la domanda di risarcimento danni e quella volta a contestare l'ipotesi di decadenza, non dava luogo ad un'ipotesi di connessione forte non giova al ricorrente, che non ha riportato il tenore delle sue difese nel costituirsi in giudizio innanzi al primo giudice, dovendo, appena, aggiungersi che anche quando venga denunciato un error in procedendo, il ricorrente non è esentato dall'onere della redazione del motivo, nel rispetto di cui all'art. 366 n. 6. c.p.c. cfr. Cass. n. 2771 del 2017 . 7. Col secondo ed il terzo motivo, il ricorrente lamenta, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 e 2059 c.c. e dei principi in tema di onere della prova in materia di danno all'immagine ed alla vita di relazione, nonché la violazione dell'art. 112 c.p.c. 8. I motivi sono infondati. L'impugnata sentenza non si è discostata dall'orientamento consolidato di questa Corte secondo cui il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza, che deve essere allegato e provato sent. Sez. un. n. 26972 del 2008 v. inoltre, Cass. nn. 7211 del 2009 e 2226 del 2012 21865 del 2013 , ma ne ha piuttosto ritenuta espressamente provata la sussistenza in riferimento alla privazione del diritto-dovere di esercitare la carica di consigliere comunale, benché eletto e senza che vi fossero cause d'incompatibilità a tale esercizio ed in riferimento alle regole di comune esperienza, sottolineando la comprensibile frustrazione dell'amministratore pubblico cui è stato impedito l'esercizio del mandato proprio in ragione delle modalità con cui lo ha esercitato. 9. La dedotta violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato va, del pari, rigettata la doglianza dell'Ente territoriale, quale trascritta in seno al ricorso, era volta alla contestazione del diritto al risarcimento per un'ipotesi di danno in re ipsa e per mancato assolvimento dell'onere della prova, e tale censura è stata valutata dai giudici a quo, che la hanno appunto disattesa, come riportato al § 8, laddove la mancata specifica contestazione è stata dagli stessi riferita alla taxatio operata in via equitativa. 10. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Trattandosi di processo esente, non si applica l'art. 13, co. 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00, per spese vive, oltre a spese generali e ad accessori, come per legge.