Una frana spazza via vite umane e villette: il Comune deve risarcire i danni per violazione del neminem laedere

In tema di lesioni a causa di cedimento di terreno e quindi di pianificazione urbanistica e responsabilità aquiliana pubblicistica, l’ente territoriale è tenuto ad accertare preventivamente, in sede di rilascio della licenza edilizia, la liceità del vasto programma edilizio, non semplicemente sotto il profilo tecnico ma anche sotto quello esecutivo, e ad evitare la concessione di un’attività costruttiva incompatibile col contesto territoriale sui generis e ciò a tutela della pubblica incolumità.

E’, così, legittima la sentenza di merito con cui, accertata la notorietà dell’instabilità del terreno e la gravità del l’omissione degli obblighi funzionali ad hoc costituzionalmente rilevanti nonostante la non obbligatorietà di un’apposita condotta di controllo secondo la legislazione ratione temporis nonché il dubbio in sede di legittimità sull’introduzione in sede di merito di una determinata quaestio iuris o l’inammissibilità della censura e l’autonomia della ratio decidendi del provvedimento giurisdizionale, il Comune venga condannato a risarcire i danni civilistici derivanti dall’esercizio dell’azione amministrativa, anche a titolo di concausa. Il principio si argomenta dalla sentenza n. 28460 depositata il 19 dicembre 2013. Il caso. A seguito di una frana di ingenti dimensioni proveniente dalla cima del monte, notoriamente instabile per un’altra frana verificatasi qualche anno prima e per cui il Comune aveva acquisito la relazione tecnica dell’Ispettorato Dipartimento delle foreste, venivano travolte alcune villette ed un’ala di un albergo, poco tempo prima costruiti, e decedevano alcune persone. Così, un soggetto, in qualità di padre e marito, agiva con successo, in primo grado, per il risarcimento a carico del dirigente tecnico del Comune, il cui precedente processo penale si era chiuso per prescrizione dei reati. Il Comune ricorreva in Cassazione. Il danno tra eziologia ed imputabilità la genesi oggettiva. In linea generale, il crollo di un edificio non genera, in favore del privato, alcun diritto al risarcimento nei confronti del Comune per la concessione della licenza, anche se illegittima, in quanto il nesso eziologico è sempre da individuarsi nell’operato del privato Cass. n. 5346/1978 . Diverso, però, è il caso, come nella fattispecie, in cui il Comune non si sia astenuto dal porre in essere condotte non improntate all’osservanza di regole prudenziali e, quindi, abbia agito in violazione delle più elementari cautele e nozioni tecniche da adottare in situazioni oggettive di evidente pericolo generale dovuto alla natura dell’intervento edilizio ed alle caratteristiche del luogo di ubicazione Cass. n. 3939/1996 . Peraltro, la mera esecuzione di un’attività in posizione di incompetenza da parte di un funzionario non può vale re ad interrompere il nesso di immedesimazione organica della condotta del medesimo rispetto all’ente-datore di lavoro. Sanzionabile l’ente per il provvedimento amministrativo colposo, conditio sine qua non dell’evento lesivo prevedibile. In ambito di esercizio della potestà amministrativa, la P.A. locale è responsabile civilmente per violazione del principio generale di prudenza e diligenza in sede di rilascio della licenza edilizia App. Napoli n. 1641/2007 l’attività dell’ente, infatti, quale autorità amministrativa e rappresentativa della generalità, non si esaurisce nel mero controllo e/o riscontro estrinseco della conformità del progetto presentato dal richiedente alle previsioni urbanistiche e/o nell’assicurare lo sviluppo ordinato, decoroso ed igienico dell’edificazione bensì deve riguardare anche la sicurezza e la stabilità dell’opera da realizzarsi e, quindi, del relativo sito di ubicazione e delle modalità di esecuzione. Sotto il profilo formale, tre le osservazioni da effettuare a l’abrogazione di una norma senza assegnazione, da parte del legislatore, di effetti retroattivi va intesa come volontà del medesimo di preservare l’efficacia illo tempore della norma ed, altresì, l’esegesi della medesima come già affermatasi b l’incompletezza del deposito della copia autentica dell’atto e/o provvedimento processuale, onde valutare la procedibilità del ricorso, non può avvenire tramite elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso e/o da un atto aliunde e peraltro posteriore alla scadenza del termine per il deposito del ricorso Cass. n. 9005/2009, n. 16002/2007 e n. 15628/2009 . Tuttavia, il quesito non deve essere necessariamente inserito alla fine dell’esposizione di ciascun punto, purchè sia espressamente riferito al motivo con richiamo numerico e sia, comunque, agevolmente individuabile Cass. n. 5073/2008 c è inammissibile artt. 366 e 366-bis c.p.c. , quale non motivo e/o non quesito, la censura totalmente astratta e generica ovvero non recante l’oggetto del gravame subordinato, l’indicazione specifica delle ragioni e degli atti e/o non correlata alla motivazione della sentenza impugnata ovvero priva del requisito della conclusività e cioè della chiara indicazione” Cass. n. 359/2005 n. 20603/2007, n. 26020/2008 e n. 6420/2008 . Ergo , il ricorso va rigettato e la sentenza va confermata.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 11 ottobre - 19 dicembre 2013, n. 28460 Presidente Berruti – Relatore Frasca Svolgimento del processo p.1. Il Comune di Gragnano ha proposto ricorso per cassazione, iscritto al n.r.g. 4288 del 2008 avverso la sentenza del 18 maggio 2007, resa in grado d'appello dalla Corte di Appello di Napoli, con cui è stata parzialmente riformata la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Napoli su tre giudizi riuniti, rispettivamente introdotti a nel febbraio 1979 da Fr.Ra. , nella qualità di coniuge di Fu.Lu. e di padre di F.C. , per ottenere il risarcimento dei danni sofferti per la loro morte a seguito di una frana di ingenti dimensioni proveniente dalla cima del omissis , che nel gennaio del 1971 aveva travolto alcune villette ed un'ala dell'albergo omissis , siti sulle falde della montagna e poco tempo prima costruiti b nel luglio del 1985 dallo stesso F. , sempre per ottenere il risarcimento del danno, contro O.C. , tecnico redigente i progetti di costruzione delle unità immobiliari travolte ed imprenditore, Bu.Lu. , in qualità di autore dell'allargamento di un viottolo nella zona interessata, Pr.To. , capo dell'Ufficio Tecnico del Comune, P.F. , all'epoca dei fatti sindaco del Comune in tale giudizio l'O. , oltre a svolgere domanda riconvenzionale di risarcimento danni contro gli altri convenuti, chiedeva ed otteneva di chiamare in causa S.V. , imprenditore, T.G. , direttore dei lavori, Se.Ge. , committente e Ta.Ca. , proprietaria del terreno sui cui era stato edificato l'albergo, l'ANAS e l'Acquedotto OMISSIS poi scomparso nella sentenza impugnata , indicandoli come responsabili e svolgendo domanda risarcitoria nei loro riguardi c sempre nel luglio del 1985 da C.R. , in proprio e quale legale rappresentante della figlia A.M.R. , entrambe eredi di A.L. , cuoco dell'albergo, deceduto nell'evento, da Cu.Ma.Te. e Ac.Ar. , nella qualità di genitori del figlio V. , perito nel disastro, da F.E. , che aveva subito gravi lesioni nel sinistro, contro l'O. che chiamava in giudizio il S. , il T. , il Se. e la Ta. , il Bu. , il Pr. , ed il P. . p.2. Nel corso dello svolgimento dei giudizi riuniti seguivano un'interruzione per il decesso di uno dei difensori dei convenuti, la rimessione all'istituito Tribunale di Torre Annunziata ex l. n. 126 del 1992, la declaratoria di incompetenza di quest'ultimo ai sensi dell'art. 25 c.p.c. e la riassunzione dinanzi al Tribunale di Napoli nel settembre del 1997 da parte dei danneggiati con subentro quale erede di Fr.Ra. , della vedova B.L. , in proprio e nella qualità di legale rappresentante di Fr.Fr. e Ad. , e, per quello che si legge nella sentenza impugnata gli eredi di L.G. - non nominato in precedenza nello svolgimento processuale della sentenza qui impugnata - e fra essi L.M. anche in proprio . La riassunzione, per quello che si legge in sentenza, veniva effettuata nei confronti del Comune di Gragnano, del P. , del Pr. , dell'O. , del Bu. , del S. , del T. , della Ta. , del Se. , dell'ANAS e della Casmez della cui legittimazione nulla si dice . Con sentenza del 2000 il Tribunale di Napoli, in persona di un G.O.A., concludeva il lungo iter processuale di primo grado riconoscendo la responsabilità di tutti i convenuti in riassunzione dei giudizi riuniti e condannandoli al pagamento di varie somme a titolo risarcitorio in favore della B. , della C. , della Cu. e dell'Ac. , della F. , nonché di L.P. , F. e M. , nella qualità di eredi di L.G. e l'ultima anche in proprio. Rigettava, invece, la domanda riconvenzionale dell'O. . p.3. La sentenza veniva fatta oggetto di separati appelli in via principale dal P. , dall'ANAS, dal S. e dal Pr. , nonché in via incidentale dal Comune di Gragnano, dall'O. che si doleva anche del rigetto della riconvenzionale , dall'Agenzia per la Promozione dello sviluppo del Mezzogiorno ex Casmez , dal Se. e dalla Ta. , nonché dai danneggiati sul quantum debeatur . Riuniti gli appelli, nella contumacia del Bu. e del T. , la Corte d'Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza di primo grado ed in accoglimento dei rispettivi appelli principali ed incidentali, rigettava le domande proposte contro il S. , il T. , la Ta. , il Se. , il P. , la già Casmez, mentre rigettava gli appelli principali ed incidentali del Comune di Gragnano, del Pr. , dell'O. e dei danneggiati. p.4. Il ricorso del Comune di Gragnano, iscritto al n.r.g. 4288 del 2008 è stato proposto contro 1 B.L. , vedova Fr. , nella qualità di erede del medesimo e di legale rappresentante di Fr.Fr. e Ad. 2 Cu.Te. o Ma.Te. , in proprio e quale erede di Ac.Ar. , in persona del suo procuratore speciale Cu.Ma. che già la rappresentava nel giudizi di appello 3 L.P. , F. e M. , nella qualità di eredi di L.G. e l'ultima anche in proprio 4 F.E. 5 C.R. 6 I.A. , moglie ed erede di P.F. , deceduto il OMISSIS , P.A. , I. ed Al. , figli ed eredi del detto de cuius 1 l’A.N.A.S.- Ente Nazionale per le Strade 8 S.V. 9 Pr.To. 10 Ta.Ca. 11 O.C. 12 Se.Ge. 13 l'Agenzia per la Promozione e lo Sviluppo del Mezzogiorno ex CASMEZ 14 Bu.Lu. 15 T.G. . p.4.1. Al suddetto ricorso principale hanno resistito con un congiunto controricorso la B. quale vedova ed erede di Fr.Ra. e procuratrice speciale di Fr.Fr. ed Ad. , Cu.Te. o Ma.Te. quale vedova ed erede di Ac.Ar. , L.F. , R.F. e L.P. nella qualità rispettiva di moglie e figlia di L.P. e di sue eredi , e L.M. tutti e quattro in proprio e nella qualità di eredi di L.G. , F.E. e C.R. . Con altro controricorso hanno resistito la I. ed i P. nelle qualità di eredi di P.F. e con altro ancora ha resistito la s.p.a. ANAS. Ha resistito, inoltre, il Pr. con separato controricorso, nel quale ha svolto ricorso incidentale iscritto al n.r.g. 7436 del 2008. A tale ricorso ha resistito con controricorso l'ANAS. p.5. Hanno depositato memorie l'ANAS e il Pr. . Motivi della decisione p.1. Preliminarmente il ricorso incidentale proposto dal Pr. , iscritto al n.r.g. 7436 del 2008, dev'essere riunito al ricorso principale proposto dal Comune di Gragnano, in seno al quale è stato proposto. p.1.1. Va poi rilevato che il Comune di Gragnano ha depositato copia autentica della sentenza incompleta, perché in essa manca la pagina 20. La copia completa, nella quale si rinviene la pagina è stata, invece, prodotta dal ricorrente incidentale. La valutazione d procedibilità de ricorso deve farsi separatamente, non potendo l'incompletezza del deposito della copia autentica del primo ricorso, adempimento ricollegato alla scadenza del termine per il deposito del ricorso Cass. sez. un. n. 9005 del 2009 , avvenire tramite un atto aliunde e soprattutto successivo ala scadenza di quel termine. Nel caso di specie, tuttavia, la mancanza della pagina non impedirebbe lo scrutinio di tutto il ricorso, ma semmai solo di taluni motivi, onde il ricorso principale non può essere dichiarato improcedibile e, come si vedrà, anche lo scrutinio dei motivi che si correlano alla pagina 20 risulterà comunque possibile. p.2. Con il primo motivo di ricorso principale si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e 1223 c.c., 40 e 41 c.p., 31 - 32 - 33, l. 17 agosto 1942 n. 1150, 5 l.1684/62 art. 360, 1 co., n. 3 c.p.c. . Nella sua illustrazione, sulla premessa che la pronunzia affermativa della responsabilità del Comune di Gragnano adottata dalla Corte territoriale si fonderebbe, in primo luogo, sulla circostanza che l'ente territoriale aveva rilasciato la licenza edilizia, omettendo di controllare, a tutela della pubblica incolumità, la liceità del vasto programma edilizio relativo a tredici villette e ad un albergo che ne erano oggetto ed in tal modo avrebbe violato il dovere generale del neminem laedere, che deve informare l'attività della p.a., nonché su quella che l'atto autoritativo si sarebbe posto come antecedente logico dell'intervento edilizio che aveva originato la frana, si sostiene che la Corte territoriale non avrebbe considerato a che in forza della normativa urbanistica vigente all'epoca in cui furono realizzate le costruzioni, il jus aedificandi era considerato una facoltà inerente il diritto di proprietà, ancorché il suo concreto esercizio fosse subordinata al rilascio dell'autorizzazione amministrativa, la cosiddetta licenza edilizia di cui all'articolo 31 della legge numero 1150 del 42, come sostituito dall'art. 10 della l. n. 765 del 1967 b che il procedimento comunale di rilascio della licenza edilizia si esauriva nel mero riscontro della conformità del progetto presentato dal richiedente alle previsioni urbanistiche vigenti, quali il rispetto dell'indice di fabbricazione, quello dell'altezza massima e simili e non investiva la sicurezza dell'opera da realizzarsi, che invece gravava tutto sul proprietario e su altri organi estranee all'amministrazione comunale, come gli uffici del Genio Civile e che le funzioni amministrative allora attribuite dalla legislazione urbanistica al Comune erano dirette esclusivamente ad assicurare che l'edificazione, tendenzialmente libera, si sviluppasse in modo ordinato, decoroso ed igienico. Tali assunti sarebbero confermati dalla lettura degli artt. 7, 33 e 34 della legge urbanistica, che fissavano il contenuto dei piani regolatori comunali, dei regolamenti edilizi e dei piani di fabbricazione. D'altro canto - si sostiene ulteriormente - l'attività di controllo attribuita, all'epoca, al sindaco in materia urbanistica sarebbe stata un'attività di mero controllo estrinseco, che non involgeva il profilo della stabilità e/o sicurezza degli interventi edilizi. Tanto troverebbe conferma al nell'art. 2 della l. n. 1150 del 1942 b1 nell'ultimo comma dell'art. 31 di detta legge, stabilente la responsabilità del committente titolare della licenza, del direttore dei lavori dell'assuntore dei lavori per l'inosservanza delle norme generali di legge di regolamento come delle modalità esecutive stabilite nella licenza edilizia ci nell'art. 5 della l. n. 1684 del 1962, là dove stabiliva il divieto di costruire sul ciglio o al piede di dirupi, su terreni di eterogenea struttura, detritici, franosi o comunque soggetti a scoscendere, nonché il controllo sull'accertamento eseguito dal costruttore delle condizioni della natura del terreno da parte del competente ufficio del Genio Civile. Da tanto si fa discendere che, contrariamente a quanto opinato dalla Corte napoletana l'amministrazione comunale non era tenuta a verificare la sicurezza del sito di impianto delle costruzioni e le modalità di esecuzione delle stesse, poiché detti accertamenti sarebbero stati di competenza del costruttore e dell'ufficio del genio civile. A sostegno di tale assunto viene citata Cass. sez. un. n. 5346 del 1978, i cui principi vengono riprodotti. p.2.1. Il motivo non può trovare accoglimento, in quanto non solo non risulta procedibile per l'incompletezza della sentenza, ma, anche a volere superare tale rilievo, propone una lettura della motivazione della sentenza impugnata che non corrisponde alla sua effettività e che, dunque, lo rende infondato. La Corte territoriale dopo avere espressamente ricordato, per la gran parte riproducendolo proprio nella pagina 20 mancante, il principio di diritto affermato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite secondo cui Al privato danneggiato dal crollo di un edificio deve negarsi il diritto al risarcimento del danno nei confronti del comune, per fatti commissivi od omissivi ascrivibili ai dipendenti del comune stesso in materia di rilascio di licenze edilizie o di controllo e vigilanza sull'esecuzione delle costruzioni poiché la lesione e conseguenza dell'operato del soggetto che ha eseguito la costruzione, e non della concessione della licenza, anche se illegittima, e perche non e configurabile neppure un concorso di cause, considerato che il diniego di autorizzazione non rende impossibile l'operato medesimo, mentre, infine, la vigilanza sulle costruzioni si ricollega a finalità generali di sicurezza estrinseca nel corso dell'esecuzione dei lavori, ma non mira ad assicurare la statica e resistenza degli edifici, ne a difendere e tutelare la pubblica incolumità” , ha infatti osservato sempre nella pagina 20 quanto segue a parere di questo giudice, la decisione citata non si attaglia al caso in esame, in cui il disastro è stato causato dal cedimento del terreno, notoriamente instabile e franoso, su cui sono state edificate, previa concessione della licenza, ben 13 villette e un albergo, in spregio delle più elementari cautele e nozioni tecniche. Il Comune ha autorizzato un imponente e pernicioso intervento speculativo, senza tenere conto della natura franosa della zona e del conseguente, evidente pericolo per l'incolumità dei cittadini. Si deve ritenere che, se la licenza non fosse stata concessa, sarebbe stato assai difficile portare a termine in un piccolo centro un intervento edilizio di così imponenti dimensioni”. p.2.1.1. Ora, la mancanza della pagina 20 in cui tale argomentazione viene svolta, siccome si è acclarato tramite la copia autentica prodotta dal ricorrente incidentale, attesa la centralità di essa sarebbe sufficiente a giustificare l'improcedibilità dell'esame del motivo, perché non consente di percepire nella sua completezza la motivazione della sentenza sulla questione. p.2.1.2. Peraltro, il motivo, anche a volere superare tale rilievo, risulta privo di fondamento. Invero, la riportata motivazione non addebita al Comune una responsabilità per aver concesso la licenza senza controllare la staticità e la sicurezza delle costruzioni come tali, ma gli addebita una responsabilità, a titolo di concausa nell'evento, derivante dal rilascio della licenza, considerando che tale comportamento non ha avuto siffatta efficacia in ragione della pretesa omissione di quel controllo, effettivamente non dovuto e non possibile da parte del Comune secondo la legislazione allora vigente ed evocata dal ricorrente, sulla realizzazione delle costruzioni senza le condizioni di staticità e sicurezza loro proprie, cioè intrinseche all'attività costruttiva, bensì perché esso l'ha avuta nella determinazione, per effetto dell'attività costruttiva sul sito in cui è avvenuta di una situazione tale da determinare il cedimento del terreno, che era notoriamente instabile e franoso, e, quindi, la frana, che poi travolse le costruzioni. La Corte partenopea, dunque, ha ravvisato il comportamento del Comune riconducibile alla legge aquilia non già nell'avere rilasciato la licenza edilizia omettendo controlli sulla idoneità tecnica dell'attività costruttiva che ne era oggetto come tale, bensì per averla concessa per un'attività costruttiva che si sarebbe dovuta svolgere in un contesto territoriale di cui era nota la franosità e l'instabilità, onde è sotto siffatto aspetto che la quella Corte ha valutato l'efficienza causale del'evento del rilascio della licenza. Correttamente, dunque, la motivazione della sentenza impugnata ha assunto come non pertinente la lontana decisione delle Sezioni Unite, che non a caso riguardava un noto caso, asceso agli onori delle cronache, di crollo di un edificio per difetti intrinseci dell'attività costruttiva. Nel caso di specie la Corte territoriale ha, invece, apprezzato il rilascio della licenza di costruzione come un comportamento che il Comune si sarebbe dovuto astenere dal tenere non già in ragione di un vaglio tecnico sulla costruzione come tale, bensì sulla base di una valutazione relativa alla sua collocazione, cioè alla sua esecuzione in un ambito territoriale notoriamente instabile e franoso. La specifica conoscenza da parte del Comune di tale stato è stata, poi, desunta per il tramite di quella del tecnico dirigente dell'ufficio tecnico del Comune stesso, ing. Pr. sulla base della considerazione che nel 1963 si era già verificata nella zona un'altra frana, per fortuna senza vittime, e che, i tale occasione, il Comune aveva acquisito la relazione tecnica dell'ispettorato Dipartimento delle Foreste di Napoli, che chiaramente illustrava la natura franosa del terreno” pagina 18 della sentenza . L'argomentare dell'illustrazione del motivo, al lume della considerazione della motivazione della sentenza, non si correla, dunque, all'effettiva sua motivazione, là dove postula che la Corte napoletana abbia pronunciato senza osservare il principio di cui alla sentenza delle Sezioni Unite, che viceversa correttamente è stato ritenuto non adeguato alla fattispecie. p.2.2. Del tutto generica è, poi, l'affermazione, che si risolve in una diversa censura, che il Comune non era tenuto a controllare il sito di impianto delle costruzioni. In disparte che nello svolgimento dell'attività di rilascio della licenza edilizia l'agire del Comune, pur nell'esercizio dei suoi compiti amministrativi non poteva avvenire senza l'osservanza, in ragione dello stessa attribuzione di tali compiti, di tutte le cautele suggerite dall'oggetto su cui essi si estrinsecavano a tutela dei terzi, secondo il generale principio per cui anche l'agire della P.A. deve avvenire nel rispetto del generale canone del neminem laedere , deve, comunque, considerarsi che, poiché secondo la l. n. 1150 del 1942 i comuni avevano il compito di redigere il piano regolatore generale art. 7 della legge e, nel suo ambito di indicare n. 2 la divisione in zone del territorio, con precisazione di quelle destinate all'espansione dell'aggregato urbano, ed i caratteri e vincoli di zona da osservare nell'edificazione” e poiché ove non lo avessero fatto, ai sensi dell'art. 34 della citata legge, dovevano redigere un programma di fabbricazione, con l'indicazione dei limiti di ciascuna zona, secondo le delimitazioni in atto o da adottarsi, nonché con la precisazione dei tipi edilizi propri di ciascuna zona”, è palese che nello svolgimento delle attività e nell'esercizio dei poteri loro attribuiti, l'esistenza di tali oneri comportava che già nel regime di quella legge soprintendessero in linea generale al controllo del territorio sotto il profilo edilizio proprio in funzione dell'adozione dei detti strumenti urbanistici. Ne segue che erano nella condizione di percepire situazioni di instabilità del territorio incompatibili con l'attività edilizia e, quindi, in tale cornice la concessione di una licenza edilizia in una zona notoriamente instabile e franosa ed anzi per come affermato conosciuta dallo stesso Comune in ragione della relazione tecnica evocata dopo l'evento del 1963, una volta tenuto conto che il compito del Comune di fissare in definitiva le zone di edificazione implicava la valutazione e, dunque, la percezione delle caratteristiche di ogni zona, si connotò come un atto compiuto senza la dovuta considerazione delle conseguenze che l'edificazione avrebbe potuto avere in relazione alle caratteristiche della zona e, quindi, senza l'osservanza di regole prudenziali e di cautela nemmeno generiche, bensì specificamente ricollegate alla natura stessa ed al potere sotteso ai compiti comunali. D'altro canto, essendo il Comune ente esponenziale del territorio, è palese che pur sotto la vigenza della l. n. 1150 del 1942 nello svolgimento dell'attività di rilascio di licenze di costruzione, dovendo detta attività, come in generale l'attività amministrativa, ispirarsi al principio del neminem laedere , essa non poteva andare esente dalla necessaria considerazione delle caratteristiche della zona su cui l'intervento edilizio doveva realizzarsi e ciò, se anche, in ipotesi, il Comune - cosa che non è dato sapere - non si fosse dotato di piano regolatore o programma di fabbricazione. In sostanza la palese esistenza, quale presupposto del potere di intervento tramite normazione sull'attività edilizia sul proprio territorio, di un controllo e di una percezione dello stato del territorio, quest'ultima nel caso specifico addirittura verificatasi, rendeva il Comune in sede di rilascio della licenza obbligato a valutare l'intervento di cui si chiedeva licenza con riferimento alle caratteristiche della zona in cui si doveva eseguire, onde essa avrebbe dovuto certamente rifiutarsi. Le svolte considerazioni - come non ha mancato di rilevare il Pubblico Ministero nella discussione orale - trovano riscontro nel seguente precedente di questa Corte La responsabilità della P.A. per il risarcimento dei danni causati da una condotta omissiva sussiste non soltanto nel caso in cui questa si concretizzi nella violazione di una specifica norma, istitutiva dell'obbligo inadempiuto, ma anche quando detta condotta si ponga come violazione del principio generale di prudenza e diligenza cosiddetto obbligo del neminem laedere , di cui è espressione l'art. 2043 cod. civ. nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la corresponsabilità di un Comune nella determinazione dei danni derivati dal crollo di un fabbricato, perché l'ente locale, oltre ad aver negligentemente omesso di verificare, in violazione della legge urbanistica n. 1150 del 1942, la concreta edificabilità dei terreni e di prescrivere le misure idonee ad evitare pericoli di franamento di una collina e di conseguente crollo degli edifici sulla stessa costruiti, a seguito delle licenze rilasciate dall'ente medesimo, aveva comunque omesso, in violazione del principio del neminem laedere , qualsiasi accertamento preventivo rispetto ad un terreno chiaramente di tipo franoso, nonché ogni prescrizione al riguardo nel convenzionamento della lottizzazione ed ogni vigilanza sull'esecuzione delle costruzioni ” Cass. n. 3939 del 1996 . Il motivo è, pertanto, rigettato. p.3. Con il secondo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043, 1223, 2055 c.c., 40 e 41 c.p., 28 e 97 Costituzione, 22 D.P.R. 3/1957, 31-32-33 l. 1150/1942, 5 l. 1684/62 art. 360, 1 co., n. 3 c.p.c. . Nel motivo, sulla premessa che la responsabilità del Comune è stata riconosciuta nel presupposto di quella, attribuita anche in sede penale all'Ing. Pr.To. , capo dell'Ufficio Tecnico Comunale, e particolarmente in ragione del rapporto di immedesimazione organica con il Comune, si ripropongono sostanzialmente le stesse argomentazioni svolte nel precedente motivo in ordine alla circostanza che nel rilascio della licenza edilizia, e segnatamene nell'espletamento dell'attività preliminare di rilascio del parere in funzione del rilascio della licenza edilizia, non veniva in rilievo un potere di controllo del profilo della stabilità e sicurezza dell'attività costruttiva come tale. Viene nuovamente evocata la già citata sentenza delle Sezioni Unite. Ne segue che il motivo non coglie anche in questo caso la ratio deciderteli della sentenza impugnata, che, come s'è veduto esaminando il motivo precedente, ha rinvenuto la responsabilità del Comune in ragione di un'efficacia del rilascio della licenza quale concausa dell'evento franoso per la circostanza che la licenza non avrebbe dovuto rilasciarsi a cagione della notoria franosità ed instabilità della zona e non sulla base di un preteso mancato controllo sulla idoneità della divisata attività costruttiva come tale. Efficacia che, come s'è visto, la sentenza, per quanto attiene al Comune desume, sulla base della condivisione della valutazione delle perizie penali fatta dal primo giudice e non dell'efficacia del giudicato penale a carico del Pr. . Perizie che avevano evidenziato che nell'esprimere il parere il predetto ingegnere doveva conoscere la franosità della zona del divisato intervento edilizio. È palese, poi, che le considerazioni svolte riguardo al primo motivo a proposito dell'esistenza in capo al Comune e, quindi, dei soggetti in rapporto di immedesimazione con esso, qual era il Pr. , di una posizione che comunque nello svolgimento delle attività funzionali al rilascio della licenza imponeva, in ragione dei poteri attribuiti al Comune in ambito di edilizia sul territorio, di osservare comunque il principio del neminem laedere . p.3.1. Nell'ultima proposizione illustrativa del motivo si sostiene, poi, che ai sensi della l. n. 1150 del 1942 nel testo vigente all'epoca dei fatti il dirigente dell'ufficio tecnico comunale non aveva alcun obbligo di dare parere in ordine al rilascio della licenza edilizia parere che competeva alla Commissione edilizia , per cui nessun nesso causale poteva sussistere tra tale parere reso e il rilascio della licenza”, donde l'assenza di responsabilità del Pr. e, quindi, del Comune. p.3.1.1. La censura è gradatamente inammissibile e comunque infondata. La sua inammissibilità deriva innanzitutto dal fatto che ad essa nulla corrisponde nel quesito di diritto che conclude l'illustrazione del motivo, posto che in esso si fa riferimento solo alla questione ne segue che in parte qua il motivo non rispetta l'art. 366 bis c.p.c., perché non è concluso da alcun pertinente quesito di diritto. Ulteriore causa di inammissibilità discende, poi, dal fatto che non si dice se e dove la relativa questione, cioè, l'avere il Pr. rilasciato un parere in carenza di competenza, sarebbe stata introdotta nel giudizio di merito. L'omissione è tanto più rilevante, in quanto la questione involgeva anche accertamenti di fatto circa il modus procedenti temporibus illis presso il Comune di Gragnano. Ne segue che non è dato sapere se la questione fosse stata introdotta nel giudizio di merito e possa ora prospettarsi in questo giudizio di legittimità, tanto più che la sentenza impugnata non ne reca traccia. La causa di inammissibilità deriva dall'inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c., che imponeva di indicare specificamente gli atti, in questo caso processuali, nei quali la questione era stata proposta ed era pervenuta all'esame della Corte territoriale. Il motivo, nella sua astratta prospettazione di una quaestio iuris che non si dimostra rilevante in relazione all'impugnazione della sentenza, sarebbe stato, d'altro canto, anche privo di fondamento, atteso che non si comprende come e perché la mera esecuzione di un'attività in posizione di incompetenza da parte di un funzionario possa riverberare nella rottura del nesso di immedesimazione organica dell'agire del medesimo rispetto al Comune. Sul punto neppure si spende alcuna attività in iure dimostrativa. p.3.1.2. Il motivo è dichiarato conclusivamente inammissibile. p.4. Il terzo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 651 già art. 28 c.p.p. art. 360, 1 co., n. 3, c.p.p. . Vi si sostiene che la Corte partenopea avrebbe desunto la responsabilità del Pr. sulla scorta delle sentenze penali emesse in sede di appello e di legittimità, ancorché esse avessero, pur avendo negato il proscioglimento del medesimo per mancanza di una prova evidente della sua innocenza, dichiarato prescritti i reati. In tal modo quella Corte avrebbe attribuito efficacia di giudicato sull'esistenza del reato dette sentenze in violazione delle norme evocate nell'intestazione del motivo. p.4.1. Il motivo - in disparte che appare singolare l'indicazione di due norme violate, l'una del c.p.p. del 1930 e l'altra di quello del 1989 senza dire quale sarebbe stata applicabile ed in disparte che, fondandosi sulle sentenze penali, omette di fornire l'indicazione specifica ai sensi del mentovato art. 366 n. 6 c.p.c., il che lo renderebbe inammissibile - è, comunque, inammissibile, perché non si correla alla motivazione della sentenza impugnata. Essa non ha ritenuto di affermare la responsabilità del Pr. dando rilievo di cosa giudicata alle sentenze penali, ma - come emerge dalle pagine 17-18 - ha espressamente richiamato fra virgolette la motivazione della sentenza di questa Corte in sede penale sul punto in cui avevano affermato la responsabilità del Pr. ed ha dichiarato espressamente di condividerla, onde è come se l'avesse ripetuta e fatta propria e, dunque, esternata come suo convincimento autonomo e non già determinato da vincolo di cosa giudicata. Si aggiunga che, come s'è già veduto a proposito dei primi due motivi, la sentenza impugnata ha fatto riferimento alle ed ha argomentato dalle perizie penali, cui aveva fatto riferimento il Tribunale in primo grado. Il motivo è, pertanto, dichiarato inammissibile alla stregua del principio di diritto secondo cui Il motivo d'impugnazione è rappresentato dall'enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d'impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l'esercizio del diritto d'impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell'esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un non motivo, è espressamente sanzionata con l'inammissibilità ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ.” Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi . p.5. Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 33 l. 1150/42, 220 R.D. 27.7.34 n. 1365,2055 c.c., 28 Cost., 22 D.P.R. 3/1957 art. 360, 1 co, n. 3 c.p.c. . Vi è svolta la stessa censura che era accennata in chiusura del secondo motivo. Anche questo motivo presenta le stesse ragioni di inammissibilità evidenziate sopra in sede di esame del secondo motivo e, gradatamente, quelle di infondatezza, posto che nuovamente si vorrebbe che dalla pretesa mera incompetenza del Pr. derivasse rottura del nesso di immedesimazione organica ai fini della responsabilità. p.6. Con il quinto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 c.c. e 651 già art. 28 c.p.p. art. 360, n. 3, c.p.c. . Vi si sostiene, con breve ed assertoria illustrazione e senza alcun riferimento alla parte di motivazione della sentenza impugnata, che la Corte territoriale avrebbe affermato la responsabilità del Comune in ragione della responsabilità penale accertata dal giudice penale, così estendendo al Comune il relativo giudicato, ancorché esso non avesse preso parte al giudizio penale. p.6.1. Il motivo - in disparte che appare nuovamente singolare l'indicazione di due norme violate, l'una del c.p.p. del 1930 e l'altra di quello del 1989 senza scelta su quale sarebbe stata applicabile ed in disparte che, fondandosi sulle sentenze penali, omette di fornire l'indicazione specifica ai sensi del mentovato art. 366 n. 6 c.p.c., il che lo renderebbe già inammissibile - è inammissibile giusta il principio di diritto di cui a Cass. n. 359 del 2005 perché anche in questo caso non si correla alla motivazione della sentenza impugnata, atteso che, come s'è già detto a proposito del terzo motivo, essa ha proceduto ad una autonoma valutazione della responsabilità e non ha affatto esteso al Comune il giudicato penale. p.7. Con il sesto motivo si denuncia violazione degli artt. 2043, 1310, 2055 e 2909 c.c., 651 già art. 28 c.p.p., 28 Costituzione art. 360, n. 3 c.p.c. . p.7.1. Il motivo, non è dato comprendere perché, ripropone la stessa censura svolta nel motivo precedente e con la stessa tecnica illustrativa che omette di riferirsi alla motivazione della sentenza impugnata. Ne segue che merita la stessa valutazione svolta a proposito del detto motivo e, dunque, è inammissibile. p.8. Con il settimo motivo si prospetta violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 195 c.p.p. previgenti, degli artt. 2909 c.c., 324 e 329 c.p.c., art. 28 Cost. e art. 2055 c.c. art. 360, 1 co., nn. 3 e 4 c.p.c. . L'illustrazione del motivo è conclusa dai seguenti quesiti di diritto Dica la Suprema Corte se, nel caso in cui la persona offesa, costituita parte civile nel procedimento di primo grado, ometta di impugnare la sentenza con la quale l'imputato sia stato assolto perché il fatto non costituisce reato, tale pronuncia acquisti, o meno, efficacia di giudicato negativo per la parte civile, in riferimento all’azione risarcitoria, anche se la sentenza venga riformata a seguito dell'appello del pubblico ministero. Dica, altresì, la Suprema Corte se sia rilevabile, o meno, anche in sede di legittimità, il giudicato esterno che risulti da atti che siano stati acquisiti nel corso del giudizio di merito. In conseguenza di ciò, dica la Suprema Corte se, ritenuta, per tali ragioni, la esistenza del giudicato, a favore dell'imputato prosciolto in primo grado, sulla non risarcibilità del danno alle parti civili, tale giudicato sia, o meno, ostativo alla condanna dell'ente territoriale, ex art. 28 Cost., in virtù del rapporto organico che lega quest'ultimo con l'imputato assolto ”. p.8.1. I tre quesiti proposti sono inidonei ad assolvere al requisito di cui all'art. 366 bis c.p.c., norma che, in ragione dell'irretroattività della sua abrogazione, continua a regolare 1 ricorso. L'inidoneità - che si risolve in nullità della formulazione e, dunque, la rende incapace di assolvere al requisito prescritto a pena di inammissibilità - deriva dalla mancanza in essi del requisito della conclusività, cioè di un pur sommario e riassuntivo riferimento alla vicenda oggetto della controversia e di un altrettale riferimento alla motivazione della sentenza impugnata. Il detto requisito era necessario perché un quesito di diritto, secondo i principi generali delle nullità degli atti processuali, fosse idoneo allo scopo previsto dal legislatore, cioè di far percepire alla Corte di cassazione il problema giuridico posto dal motivo non già come astratta quaestio iuris , bensì come quaestio iuris relativa al caso concreto. Poiché il caso concreto che perviene alla Corte di cassazione è necessariamente individuato dalle coordinate che si muovono tra la fattispecie concreta oggetto del giudizio di merito e la motivazione della decisione impugnata, è palese che il quesito doveva essere articolato evidenziando dette coordinate. p.8.1.1. L'art. 366 bis c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito di diritto dovesse concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva concludere l'illustrazione del motivo ed il motivo si risolveva come si risolve in una critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa sul punto oggetto dell'impugnazione e che appunto dev'essere criticato dal motivo, appare evidente che il quesito, per concludere l'illustrazione del motivo, doveva necessariamente contenere un riferimento riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto, cioè al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse evidenziato - ancorché succintamente - perché l'interrogativo giuridico astratto era giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un quesito che non presentasse questa contenuto era, pertanto, un non - quesito si veda, in termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008 nonché n. 6420 del 2008 . D'altro canto, se si fosse avallata l'idea che un quesito potesse non essere articolato in modo conclusivo nel senso appena indicato, ne sarebbe derivata che al ricorrente in cassazione sarebbe bastato per ottemperare al requisito dell'art. 366-bis prospettare alla fine dell'illustrazione del motivo un quesito purchessia per adempiere al detto requisito, salvo poi constatare solo a posteriori, cioè tramite la lettura dell'illustrazione che se il quesito nella sua astrattezza risultava pertinente. Il risultato di una simile interpretazione dell'art. 366 bis sarebbe stato allora quello di vanificare il profilo funzionale della previsione del quesito, che era rappresentato dall'assicurazione alla Corte di cassazione di un'immediata percezione, pur riassuntiva, della questione proposta dal motivo e, in ragione dello sforzo tecnico riassuntivo così imposto al ricorrente, di assicurare che effettivamente il motivo prospettasse una quaestio iuris nella logica dei nn. 1,2, 3, e 4 dell'art. 360 c.p.c p.8.1.2. È da avvertire che l'utilizzo del criterio del raggiungimento dello scopo per valutare se la formulazione del quesito fosse idonea all'assolvimento della sua funzione appare perfettamente giustificato dalla soggezione di tale formulazione, costituente requisito di contenuto - forma del ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e, quindi, alla regola dell'art. 156, secondo comma, c.p.c., per cui all'assolvimento del requisito non poteva bastare la formulazione di un quesito quale che esso fosse, eventualmente anche privo di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione idonea sul piano funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da tanto l'esigenza che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati. Esigenza, del resto, che non s concretava in una richiesta al ricorrente di assolvere ad un requisito di contenuto forma dai caratteri indefiniti e, quindi, in una incidenza sull'effettività del mezzo di impugnazione costituito dal ricorso alla Corte anche nei termini del ed principio di effettività, di cui all'art. 6 della CEDU, che in no diversa guisa è amminicolo del diritto di azione e di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 e specificato dall'art. 111 Cost. , atteso che all'effettivo dispiegarsi della difesa tecnica particolarmente qualificata di cui necessita il ricorrente in Cassazione non poteva essere d'ostacolo l'onere di formulare quesiti asseritamente conclusivi nei detti sensi. p.8.1.3. Per altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il criterio di cui al terzo comma dell'art. 156 c.p.c., posto che quando il legislatore qualifica una nullità di un certo atto come determinativa della sua inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto escludere che il giudice possa apprezzare l'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo sulla base di contenuti desunti aliunde rispetto all'atto il che escludeva che il quesito potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso che l'inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell'atto complesso rappresentante il ricorso, ivi compresa l'illustrazione del motivo si veda, in termini, già Cass. ord. n. 16002 del 2007 ord. n. 15628 del 2009, a proposito del requisito di cui all'art. 366 n. 6 c.p.c. . p.8.1.4. È, altresì, da avvertire, che l'intervenuta abrogazione dell'art. 266 bis c.p.c. non può determinare - in presenza di una manifestazione di volontà del legislatore che ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 contro provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la retroattività dell'abrogazione per i ricorsi proposti antecedentemente e non ancora decisi - l'adozione di un criterio interpretativo della stessa norma distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della nomofilachia anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche con numerosi arresti delle Sezioni Unite. L'adozione di un criterio di lettura dei quesiti di diritto ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. dopo il 4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era fatto dalla giurisprudenza della Corte anteriormente si risolverebbe, infatti, in una patente violazione dell'art. 12, primo comma, delle preleggi, posto che si tratterebbe di criterio contrario all'intenzione del legislatore, il quale, quando abroga una norma, tanto più processuale, e la lascia ultrattiva o comunque non assegna effetti retroattivi all'abrogazione, manifesta non solo una voluntas nel senso di preservare l'efficacia della norma per la fattispecie compiutesi anteriormente all'abrogazione e di assicurarne l'efficacia regolatrice rispetto a quelle per cui prevede l'ultrattività, ma anche una implicita voluntas che l'esegesi della norma abrogata continui a dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente è stata compiuta. Per cui l'interprete e, quindi, anche la Corte di Cassazione ai sensi dell'art. 65 dell'Ordinamento Giudiziario, debbono conformarsi a tale doppia voluntas e ciò ancorché, in ipotesi, l'eco dei lavori preparatori della legge abrogativa riveli che l'abrogazione possa essere stata motivata anche e proprio dall'esegesi che della norma sia stata data. Invero, anche l'adozione di un criterio esegetico che tenga conto della ragione in mente legislatoris dell'abrogazione impone di considerare che l'esclusione dell'abrogazione in via retroattiva ed anzi la previsione di una certa ultrattività per determinate fattispecie sempre in mente legislatoris significhino voluntas di permanenza dell'esegesi affermatasi, perché il contrario interesse non è stato ritenuto degno di tutela. p.8.2. Il motivo in esame risulta, comunque, inammissibile anche per inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c., atteso che, se si procede alla lettura della sua illustrazione si rileva che vi si argomenta che nel processo penale si era formato un giudicato sull'infondatezza delle azioni civili esercitate nel processo penale contro il Pr. , perché le sentenze assolutorie nei suoi riguardi in relazione alle quali erano state era stata pronunciata prima la sentenza del 22 novembre 1982 della Corte d'Appello di Napoli e poi quella di questa Corte in sede penale n. 760 del 1984, erano state rispettivamente impugnate in primo grado solo dal P.M. e in appello dal P.G., onde sulla inesistenza della responsabilità civile nei confronti dei danneggiati, non estendendosi l'impugnazione del pubblico ministero alle statuizioni sulle azioni civili si era formata cosa giudicata, che nel processo civile costituiva giudicato esterno, che la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare ed i cui effetti a beneficio del Pr. si estendevano anche al Comune. È palese allora che il motivo si fonda sul contenuto delle sentenze penali della Corte napoletana e di questa Corte, ma riguardo ad esse difetta l'indicazione specifica prescritta dal n. 6 dell'art. 366 c.p.c Tale mancata indicazione concerne la riproduzione diretta o almeno indiretta, con individuazione della parte indirettamente riprodotta, del tenore delle sentenze penali che sorreggerebbe il motivo, nonché per quella di appello della sede in cui sarebbe esaminabile in questo giudizio di legittimità, onde la Corte non è messa grado di esaminare il motivo al fine di rilevare se la prospettazione trovi conferma nelle sentenze de quibus . p.8.3. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile. p.9. Con l'ottavo motivo si fa valere omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia art. 360, 1 co., n. 5 c.p.c. . L'illustrazione del motivo procede dalla pagina 36 alle prime tre righe della pagina 39 . A metà della sua illustrazione, precisamente nelle ultime righe della pagina 37 e nelle prime cinque della pagina 38, si enuncia quanto segue il fatto controverso consiste in ciò, che il Comune, nel rilasciare la licenza edilizia, e il capo dell'ufficio tecnico, nel rendere il relativo parere, non erano condizionati dal previo accertamento dello stato di pericolo dei luoghi, e che, anche in caso di rilascio di licenze edilizie parere illegittimi, non esisteva il nesso di causalità fra tale comportamento e i danni provocati a terzi dalla costruzione, giacché il privato ben poteva costruire anche in assenza di autorizzazione”. p.9.1. Il motivo è inammissibile perché non si conclude con né contiene il momento di sintesi espressivo della c.d. chiara indicazione , cui alludeva l'art. 366 bis c.p.c., nei termini di cui alla consolidata giurisprudenza inaugurata da Cass. ord. n. 16002 del 2007 e Cass. sez. un. n. 20603 del 2007. Né l'enunciazione che è stata sopra riportata riveste i caratteri del momento di sintesi, atteso che non allude ad una quaestio facti , ma evoca considerazioni in iure. p.9.2. Ove, poi, si passi alla lettura della sua illustrazione, il motivo si rivela, come del resto ammesso dallo stesso ricorrente, che meramente ripropositivo delle questioni di diritto di cui ai primi due motivi, il che, oltre ad evidenziare che non è motivo ai sensi del n. 5 dell'art. 360, bensì ai sensi del n. 3 della norma che, dunque, doveva concludersi con un quesito di diritto, che sarebbe del tutto astratto e privo di conclusività nei sensi indicati per assenza di riferimento alla motivazione della sentenza impugnata , meriterebbe le stesse considerazioni svolte a proposito soprattutto del primo motivo per evidenziarne l'infondatezza, le quali ne giustificherebbero la stessa sorte. p.10. Con il nono motivo si denuncia violazione degli artt. 2943 2947 c.c., 648 c.p.p., 157 e 590 c.p. art. 360, 1 co., nn. 3 e 4 c.p.c. . L'illustrazione del motivo è conclusa dal seguente quesito di diritto Dica la Suprema Corte se la sentenza penale dei giudici di legittimità, dichiarativa della prescrizione di un reato nella specie di lesioni colpose per cui è previsto un termine di prescrizione non più lungo di quello di cui al primo comma dell'art. 2947 c.c., e di rinvio alla corte di merito per la cognizione di altri, più gravi, reati non prescritti, costituisca, o meno, cosa giudicata, relativamente al reato dichiarato prescritto se la data del deposito di tale sentenza integri, o meno, il di essa copre la prescrizione quinquennale - prevista dal 1 comma dell'art. 2947 c.c. - dell'azione civile per i danni prodotti da quel reato e se, quindi, sia inapplicabile, o meno, il più lungo termine di prescrizione degli altri, più gravi, reati commessi dall'imputato ”. p.10.1. Il motivo è inammissibile sia per inosservanza dell'art. 366-bis c.p.c., sia per inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c Sotto il primo aspetto, nuovamente il quesito risulta privo di conclusività, atteso che omette un pur sommario e riassuntivo riferimento alla vicenda oggetto ed alla motivazione della sentenza impugnata, onde si risolve in un interrogativo del tutto astratto. Sotto il secondo aspetto, la lettura dell'illustrazione del motivo evidenzia in tanto che vi si sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato nell'individuare il termine di prescrizione operante nei confronti della danneggiata F. , in quanto il reato accertato in sede penale nei suoi riguardi era quello di lesioni personali colpose, onde allorquando la medesima aveva intrapreso l'azione civile risarcitoria in sede civile il 29 luglio 1985 essa sarebbe stata prescritta, essendo la prescrizione applicabile quella quinquennale ed avendo il suo corso ripreso a decorrere dopo la cessazione dell'effetto interruttivo ricollegato alla pendenza del processo penale e segnatamente dal 2 febbraio 1980, data della pubblicazione della sentenza di questa Corte n. 1466 del 1979, di annullamento senza rinvio della precedente decisione di appello quanto al detto reato per prescrizione. Si evidenzia, in conseguenza - in disparte il rilievo che il motivo si riferisce in realtà alla sola posizione della F. , il che paleserebbe ulteriore ragione di inammissibilità per difetto di conclusività del quesito, che non lo prospettava in alcun modo - che il motivo stesso si fonda sul contenuto della citata sentenza penale di questa Corte, che non viene riprodotto né direttamente né indirettamente nella parte che sorregge l'allegazione. È da rilevare che, essendo la sentenza de qua una decisione di questa Corte, che essa può reperire nel proprio archivio, l'inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c. quanto al se essa sia stata prodotta e sia esaminabile in questa sede non rileva, ma rileva pur sempre che il ricorrente non abbia fornito la specifica indicazione della parte della sentenza dalla quale si evincerebbe quanto allegato in relazione alla posizione della F. . p.10.2. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile. p.11. Il 10 motivo deduce infine violazione degli artt. 112 e 343 c.p.c. art. 360, 1 co., n. 4 c.p.c . L'illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto Dica la Suprema Corte se il giudice d'appello, il quale non si sia pronunziato su un mezzo di gravame subordinato, che investe il quantum, dopo aver dichiarato la responsabilità dell'appellante, incorra nel vizio di omessa pronuncia ”. p.11.1. Il motivo, data la natura totalmente astratta e generica del quesito, che non indica l'oggetto del gravame subordinato, risulta inammissibile per violazione dell'art. 366 bis c.p.c p.11.2. Se si procede alla sua lettura risulta inammissibile per una gradata ragione. Vi si sostiene, infatti, che il Comune, nel costituirsi in appello, aveva fra i vari motivi di appello incidentale dedotto censura rispetto alla sentenza di primo grado anche nella parte relativa alla quantificazione dei danni i favore degli attori, adducendo che non appariva giustificabile e comunque, non adeguatamente motivata l'affermazione secondo la quale i danneggiati avrebbero destinato agli attori una quota di reddito pari ai 2/3 di esso né è provato affatto che i defunti Ac.Vi. e L.A. al momento del fatto fossero ancora celibi e che si sarebbero sposati solo al'età di 32 anni e non invece prima come appare più credibile considerando che l'età media del matrimonio all'epoca dei fatti era sicuramente inferiore a quella di adesso”. Si riproduce, quindi, il capo C delle conclusioni della comparsa in cui si era chiesto In via subordinata, e nella non creduta ipotesi di mancato accoglimento della precedente conclusione, ridurre le somme eventualmente dovute agli attori a titolo di risarcimento danni dall'Amm.ne comunale”. Sulla base di tali deduzioni si lamenta che la Corte territoriale, una volta confermata la responsabilità comunale, avrebbe omesso di pronunciare su detto motivo di appello incidentale subordinato. p.11.2.1. Ora, poiché ci si astiene dal precisare se all'atto della precisazione delle conclusioni quanto richiesto in via subordinata era stato mantenuto fermo, la Corte non è messa in grado di valutare se effettivamente vi fu omissione di pronuncia. Va considerato d'altra parte, che la sentenza impugnata indica come conclusioni del Comune, che esso concluse con la seguente richiesta in totale riforma della sentenza, rigetto della domanda”, che non appare compatibile con il mantenimento della conclusione subordinata, che avrebbe supposto la richiesta subordinata di riforma parziale della sentenza sul quantum fra l'altro riguardo a taluni danneggiati e, quindi, di rigetto parziale della domanda. Il Collegio rileva che quando si deduce un'omissione di pronuncia da parte del giudice di merito su un capo di domanda oggetto di un motivo di appello, il ricorrente in cassazione, al fine di supportare il motivo di ricorso per cassazione come effettivamente rispondente al vizio denunciato è tenuto ad indicare, ai sensi dell'art. 366 n. 6 c.p.c., non solo di avere il detto motivo di appello, riproducendone l'attività assertiva o riproducendola indirettamente con indicazione della parte dell'atto di appello in cui l'indiretta riproduzione trova riscontro, ma deve anche allegare che il motivo venne mantenuto in sede di precisazione delle conclusioni e parimenti adempiere con riferimento a quel momento l'onere di cui a detta norma. In caso contrario il motivo di ricorso è inammissibile perché l'attività di deduzione del motivo è inidonea dimostrare, sul piano dell'esercizio del diritto di impugnazione con il ricorso, che la censura sia ammissibile e perché l'indicazione specifica richiesta dall'art. 366 n. 6 non è completa. p.11.3. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile. p.12. Conclusivamente, il ricorso principale è rigettato. p.13. Il ricorso incidentale del Pr. , dopo avere dichiarato di proporre ricorso incidentale sottoponendo le seguenti osservazioni”, le distingue in due paragrafi. p.13.1. In quello sub A assume di volerle svolgere in relazione al ricorso principale” e in esso svolge effettivamente considerazioni sui motivi del medesimo, postulandone l'accoglimento quanto al primo, al secondo, al terzo, al settimo, all'ottavo, al nono ed al decimo, mentre per gli altri motivi sostiene che sarebbero inammissibili o infondati. Sotto il primo aspetto le doglianze assumono natura di ricorso incidentale adesivo a quello principale, peraltro proposto tempestivamente, cioè entro il c.d. temine lungo. Le considerazioni svolte a proposito del ricorso principale, considerato che alla prospettazione del ricorso principale nulla si aggiunge, tale non essendo l'attività dimostrativa che vi si svolge, e che le ragioni di inammissibilità dove rilevate a proposito del ricorso principale rimangono immutate, il Collego osserva che il primo, il secondo, il terzo, il settimo, l'ottavo, il nono ed il decimo motivo si intendono dichiarati inammissibili o rigettati con gli stessi rilievi svolti a proposito dei motivi identici del ricorso principale salvo quello di improcedibilità del primo motivo, che qui non sussiste, atteso che la copia autentica della sentenza è stata prodotta nella sua interezza . p.13.2. A partire dalla pagina 22, sotto il paragrafo B il controricorso espone, invece, un proprio motivo di ricorso incidentale, con cui si denuncia Error in judicando - Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2055, 2697 e 1223 c.c. - Violazione dei principi generali in materia di responsabilità civile - Difetto di motivazione ed omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia in relazione agli artt. 360, 1 comma, nn. 3 e 5 c.p.c. . L'illustrazione è conclusa, alla pagina 32, dal seguente quesito di diritto Dica la Suprema Corte se un Comune, nel rilasciare la licenza o concessione edilizia, ed il Tecnico Comunale, nel rendere il relativo parere, siano o meno condizionati dal previo accertamento dello stato di pericolo dei luoghi sotto il profilo della staticità degli stessi. Dica ancora la Corte se esista o meno un nesso di causalità tra il rilascio di una licenza o concessione illegittima e le conseguenze dannose aventi origine nella situazione statica dei luoghi, quando sia stata realizzata da costruttore l'opera oggetto della licenza o concessione in questione senza gli adeguati accorgimenti tecnici ”. p.13.2.1. Il motivo è inammissibile per inosservanza dell'art. 366-6/5 c.p.c In primo luogo, lo è, con riguardo alle censure di diritto, sotto il profilo dell'assoluta astrattezza e genericità dei due interrogativi proposti, la quale si risolve nella mancanza di conclusività, secondo le ampie considerazioni svolte in ordine alla sua necessità nell'esame del settimo motivo del ricorso principale. Invero, nei due interrogativi prospettati non si fa riferimento alla vicenda oggetto di giudizio, sebbene in modo riassuntivo e minimale, e non si fa riferimento alcuno alla motivazione della sentenza impugnata. In secondo luogo, una volta considerato che l'intestazione del formalmente unitario motivo, in realtà si scinde in tre distinte indicazioni, ognuna delle quali appare avere, se le parole usate debbono avere un senso, dignità di autonomo motivo, si rileva che i due interrogativi proposti nel quesito non recano alcune che li raccordi rispettivamente ai due vizi di violazione di norme di diritto, cioè la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2055, 2697 e 1223 c.c. e la violazione dei principi generali in materia di responsabilità civile . Ne consegue che viene in rilievo il principio di diritto secondo cui La previsione di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ., là dove esige che l'esposizione del motivo si debba concludere con il quesito di diritto, non significa che il quesito debba topograficamente essere inserito alla fine della esposizione di ciascun motivo, essendo consentita la elencazione finale o conclusiva di tutti i quesiti, purché, in tal caso, ciascuno di essi sia espressamente riferito al motivo, con richiamo numerico od alla rubrica delle violazioni addotte, oppure il collegamento al motivo sia inequivocabilmente evidenziato dalla esistenza di un rapporto di pertinenza esclusiva, in modo tale che esso sia agevolmente individuabile, senza necessità di una particolare analisi critica” Cass. ord. n. 5073 del 2008 . In fine, per quanto attiene al motivo ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., si sarebbe dovuto formulare il momento di sintesi espressivo della c.d. chiara indicazione , cui alludeva l'art. 366-bis c.p.c., i cui caratteri per cui Cass. ord. n. 16002 del 2007 e Cass. sez. un. n. 20603 del 207, citt. , del resto, nemmeno si scorgono, al di là della qualificazione come quesito di diritto, nei due interrogativi proposti. p.13.2.2. Se si procedesse alla lettura della illustrazione si rileverebbe ancora che vi si fa riferimento a alle emergenze delle perizie penali senza fare alcuna indicazione specifica di esse ai sensi dell'art. 366 n. 6 c.p.c. b si sostiene che non vi [fosse] alcuna prova che il Pr. fosse a conoscenza della franosità intrinseca del monte XXXXXXX, né, tanto meno, che la relazione tecnica dell'Ispettorato Dipartimentale delle Foreste di Napoli fosse mai pervenuta alla Commissione edilizia comunale, di cui il Pr. faceva parte”, e ciò nuovamente senza dire dove e come tale mancanza di prova si fosse evidenziata, con nuova violazione dell'art. 366 n. 6 c.p.c. tanto più rilevante, perché della questione probatoria non vi è traccia nella sentenza impugnata c si prospetta la questione che il Pr. era un libero professionista e non un dipendente comunale, nei cui confronti non operava l'art. 28 Cost., nuovamente senza precisare se e dove la circostanza non esaminata affatto dalla sentenza fosse stata introdotta nelle fasi di merito, donde nuovamente l'inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c Il motivo, o meglio i motivi, sarebbero, dunque, anche inammissibili per inosservanza di tale norma. Si rileva ancora che nemmeno si scorge nell'illustrazione una chiara distinzione fra le attività assertive di ciascuno dei tre motivi. p.14. Il ricorso incidentale, stante l'inammissibilità di alcuni motivo ed il rigetto di altri, dev'essere, dunque, rigettato. p.15. Deve provvedersi sulle spese del giudizio di cassazione. Si ravvisa una soccombenza a carico sia del ricorrente principale, sia del ricorrente incidentale. Tale soccombenza è, però, riferibile ai resistenti rispetto a ciascuno dei due ricorsi. Va tenuto conto, tuttavia, che, nel rapporto processuale fra il Comune di Gragnano ed il Pr. , costui aveva chiesto anche il rigetto del ricorso del Comune per taluni motivi, per altri aveva aderito a quelli del Comune, e che quello complesso suo proprio in parte appariva contestare non solo la propria ma anche la responsabilità del Comune. Ne segue che le spese riguardo a tale rapporto processuale possono compensarsi, dato che i due ricorrenti per gran parte postulavano una riforma della sentenza per beneficiarne entrambi. Nel rapporto processuale fra il Comune e gli eredi P. , ritiene il Collegio di far luogo alla compensazione delle spese, atteso che sostanzialmente l'impugnazione del Comune non era rivolta contro la statuizione della sentenza che aveva visto esclusa la responsabilità del de cuius ne discende che i P. e la I. non avevano un sostanziale interesse a resistere al ricorso, essendo stata loro notificata l'impugnazione ai sensi dell'art. 332 c.p.c. Tanto giustifica l'esistenza di giusti motivi per la compensazione delle spese, attesa anche la posizione rivestita dal de cuius in seno all'ente territoriale. Analoga valutazione deve farsi riguardo all'ANAS, giacché impugnazione nei suoi riguardi risultava notificata solo ai sensi dell'art. 332 c.p.c Nel ricorso incidentale proposto dal Pr. ha resistito soltanto l'ANAS, ma anche in questo caso l'impugnazione incidentale era stata notificata sostanzialmente ai sensi dell'art. 332 c.p.c., onde ricorrono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese anche riguardo al relativo rapporto processuale. Nel rapporto processuale fra il Pr. e gli altri resistenti avverso il ricorso principale non essendosi costituito alcun rapporto processuale con essi, per non avere essi resistito al ricorso del Pr. , non dee farsi luogo a statuizione sulle spese. Vanno, invece, poste a carico del Comune le spese a favore dei controricorrenti di cui è capofila la B. , mente non è luogo a provvedere sulle spese riguardo ai rapporti con gli intimati no costituitisi. Le spese si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 140 del 2012. P.Q.M. La Corte, riuniti ricorsi, li rigetta entrambi. Condanna il Comune di Gragnano alla rifusione in favore dei resistenti di cui è capofila B.L. delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro dodicimiladuecento, di cui duecento per esborsi, oltre accessori come per legge. Compensa le spese del giudizio di cassazione riguardo a tutti i rapporti processuali fra il Comune e gli altri resistenti al suo ricorso. Nulla per le spese riguardo a tale ricorso nel rapporto fra Comune e gli intimati che non hanno resistito. Compensa le spese del giudizio di cassazione fra il Pr. e l'Anas. Nulla per le spese nel rapporto fra il Pr. ed i soggetti intimati con il suo ricorso e che non hanno resistito. Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 11 ottobre - 19 dicembre 2013, n. 28460 Presidente Berruti – Relatore Frasca Svolgimento del processo p.1. Il Comune di Gragnano ha proposto ricorso per cassazione, iscritto al n.r.g. 4288 del 2008 avverso la sentenza del 18 maggio 2007, resa in grado d'appello dalla Corte di Appello di Napoli, con cui è stata parzialmente riformata la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Napoli su tre giudizi riuniti, rispettivamente introdotti a nel febbraio 1979 da Fr.Ra. , nella qualità di coniuge di Fu.Lu. e di padre di F.C. , per ottenere il risarcimento dei danni sofferti per la loro morte a seguito di una frana di ingenti dimensioni proveniente dalla cima del omissis , che nel gennaio del 1971 aveva travolto alcune villette ed un'ala dell'albergo omissis , siti sulle falde della montagna e poco tempo prima costruiti b nel luglio del 1985 dallo stesso F. , sempre per ottenere il risarcimento del danno, contro O.C. , tecnico redigente i progetti di costruzione delle unità immobiliari travolte ed imprenditore, Bu.Lu. , in qualità di autore dell'allargamento di un viottolo nella zona interessata, Pr.To. , capo dell'Ufficio Tecnico del Comune, P.F. , all'epoca dei fatti sindaco del Comune in tale giudizio l'O. , oltre a svolgere domanda riconvenzionale di risarcimento danni contro gli altri convenuti, chiedeva ed otteneva di chiamare in causa S.V. , imprenditore, T.G. , direttore dei lavori, Se.Ge. , committente e Ta.Ca. , proprietaria del terreno sui cui era stato edificato l'albergo, l'ANAS e l'Acquedotto OMISSIS poi scomparso nella sentenza impugnata , indicandoli come responsabili e svolgendo domanda risarcitoria nei loro riguardi c sempre nel luglio del 1985 da C.R. , in proprio e quale legale rappresentante della figlia A.M.R. , entrambe eredi di A.L. , cuoco dell'albergo, deceduto nell'evento, da Cu.Ma.Te. e Ac.Ar. , nella qualità di genitori del figlio V. , perito nel disastro, da F.E. , che aveva subito gravi lesioni nel sinistro, contro l'O. che chiamava in giudizio il S. , il T. , il Se. e la Ta. , il Bu. , il Pr. , ed il P. . p.2. Nel corso dello svolgimento dei giudizi riuniti seguivano un'interruzione per il decesso di uno dei difensori dei convenuti, la rimessione all'istituito Tribunale di Torre Annunziata ex l. n. 126 del 1992, la declaratoria di incompetenza di quest'ultimo ai sensi dell'art. 25 c.p.c. e la riassunzione dinanzi al Tribunale di Napoli nel settembre del 1997 da parte dei danneggiati con subentro quale erede di Fr.Ra. , della vedova B.L. , in proprio e nella qualità di legale rappresentante di Fr.Fr. e Ad. , e, per quello che si legge nella sentenza impugnata gli eredi di L.G. - non nominato in precedenza nello svolgimento processuale della sentenza qui impugnata - e fra essi L.M. anche in proprio . La riassunzione, per quello che si legge in sentenza, veniva effettuata nei confronti del Comune di Gragnano, del P. , del Pr. , dell'O. , del Bu. , del S. , del T. , della Ta. , del Se. , dell'ANAS e della Casmez della cui legittimazione nulla si dice . Con sentenza del 2000 il Tribunale di Napoli, in persona di un G.O.A., concludeva il lungo iter processuale di primo grado riconoscendo la responsabilità di tutti i convenuti in riassunzione dei giudizi riuniti e condannandoli al pagamento di varie somme a titolo risarcitorio in favore della B. , della C. , della Cu. e dell'Ac. , della F. , nonché di L.P. , F. e M. , nella qualità di eredi di L.G. e l'ultima anche in proprio. Rigettava, invece, la domanda riconvenzionale dell'O. . p.3. La sentenza veniva fatta oggetto di separati appelli in via principale dal P. , dall'ANAS, dal S. e dal Pr. , nonché in via incidentale dal Comune di Gragnano, dall'O. che si doleva anche del rigetto della riconvenzionale , dall'Agenzia per la Promozione dello sviluppo del Mezzogiorno ex Casmez , dal Se. e dalla Ta. , nonché dai danneggiati sul quantum debeatur . Riuniti gli appelli, nella contumacia del Bu. e del T. , la Corte d'Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza di primo grado ed in accoglimento dei rispettivi appelli principali ed incidentali, rigettava le domande proposte contro il S. , il T. , la Ta. , il Se. , il P. , la già Casmez, mentre rigettava gli appelli principali ed incidentali del Comune di Gragnano, del Pr. , dell'O. e dei danneggiati. p.4. Il ricorso del Comune di Gragnano, iscritto al n.r.g. 4288 del 2008 è stato proposto contro 1 B.L. , vedova Fr. , nella qualità di erede del medesimo e di legale rappresentante di Fr.Fr. e Ad. 2 Cu.Te. o Ma.Te. , in proprio e quale erede di Ac.Ar. , in persona del suo procuratore speciale Cu.Ma. che già la rappresentava nel giudizi di appello 3 L.P. , F. e M. , nella qualità di eredi di L.G. e l'ultima anche in proprio 4 F.E. 5 C.R. 6 I.A. , moglie ed erede di P.F. , deceduto il OMISSIS , P.A. , I. ed Al. , figli ed eredi del detto de cuius 1 l’A.N.A.S.- Ente Nazionale per le Strade 8 S.V. 9 Pr.To. 10 Ta.Ca. 11 O.C. 12 Se.Ge. 13 l'Agenzia per la Promozione e lo Sviluppo del Mezzogiorno ex CASMEZ 14 Bu.Lu. 15 T.G. . p.4.1. Al suddetto ricorso principale hanno resistito con un congiunto controricorso la B. quale vedova ed erede di Fr.Ra. e procuratrice speciale di Fr.Fr. ed Ad. , Cu.Te. o Ma.Te. quale vedova ed erede di Ac.Ar. , L.F. , R.F. e L.P. nella qualità rispettiva di moglie e figlia di L.P. e di sue eredi , e L.M. tutti e quattro in proprio e nella qualità di eredi di L.G. , F.E. e C.R. . Con altro controricorso hanno resistito la I. ed i P. nelle qualità di eredi di P.F. e con altro ancora ha resistito la s.p.a. ANAS. Ha resistito, inoltre, il Pr. con separato controricorso, nel quale ha svolto ricorso incidentale iscritto al n.r.g. 7436 del 2008. A tale ricorso ha resistito con controricorso l'ANAS. p.5. Hanno depositato memorie l'ANAS e il Pr. . Motivi della decisione p.1. Preliminarmente il ricorso incidentale proposto dal Pr. , iscritto al n.r.g. 7436 del 2008, dev'essere riunito al ricorso principale proposto dal Comune di Gragnano, in seno al quale è stato proposto. p.1.1. Va poi rilevato che il Comune di Gragnano ha depositato copia autentica della sentenza incompleta, perché in essa manca la pagina 20. La copia completa, nella quale si rinviene la pagina è stata, invece, prodotta dal ricorrente incidentale. La valutazione d procedibilità de ricorso deve farsi separatamente, non potendo l'incompletezza del deposito della copia autentica del primo ricorso, adempimento ricollegato alla scadenza del termine per il deposito del ricorso Cass. sez. un. n. 9005 del 2009 , avvenire tramite un atto aliunde e soprattutto successivo ala scadenza di quel termine. Nel caso di specie, tuttavia, la mancanza della pagina non impedirebbe lo scrutinio di tutto il ricorso, ma semmai solo di taluni motivi, onde il ricorso principale non può essere dichiarato improcedibile e, come si vedrà, anche lo scrutinio dei motivi che si correlano alla pagina 20 risulterà comunque possibile. p.2. Con il primo motivo di ricorso principale si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e 1223 c.c., 40 e 41 c.p., 31 - 32 - 33, l. 17 agosto 1942 n. 1150, 5 l.1684/62 art. 360, 1 co., n. 3 c.p.c. . Nella sua illustrazione, sulla premessa che la pronunzia affermativa della responsabilità del Comune di Gragnano adottata dalla Corte territoriale si fonderebbe, in primo luogo, sulla circostanza che l'ente territoriale aveva rilasciato la licenza edilizia, omettendo di controllare, a tutela della pubblica incolumità, la liceità del vasto programma edilizio relativo a tredici villette e ad un albergo che ne erano oggetto ed in tal modo avrebbe violato il dovere generale del neminem laedere, che deve informare l'attività della p.a., nonché su quella che l'atto autoritativo si sarebbe posto come antecedente logico dell'intervento edilizio che aveva originato la frana, si sostiene che la Corte territoriale non avrebbe considerato a che in forza della normativa urbanistica vigente all'epoca in cui furono realizzate le costruzioni, il jus aedificandi era considerato una facoltà inerente il diritto di proprietà, ancorché il suo concreto esercizio fosse subordinata al rilascio dell'autorizzazione amministrativa, la cosiddetta licenza edilizia di cui all'articolo 31 della legge numero 1150 del 42, come sostituito dall'art. 10 della l. n. 765 del 1967 b che il procedimento comunale di rilascio della licenza edilizia si esauriva nel mero riscontro della conformità del progetto presentato dal richiedente alle previsioni urbanistiche vigenti, quali il rispetto dell'indice di fabbricazione, quello dell'altezza massima e simili e non investiva la sicurezza dell'opera da realizzarsi, che invece gravava tutto sul proprietario e su altri organi estranee all'amministrazione comunale, come gli uffici del Genio Civile e che le funzioni amministrative allora attribuite dalla legislazione urbanistica al Comune erano dirette esclusivamente ad assicurare che l'edificazione, tendenzialmente libera, si sviluppasse in modo ordinato, decoroso ed igienico. Tali assunti sarebbero confermati dalla lettura degli artt. 7, 33 e 34 della legge urbanistica, che fissavano il contenuto dei piani regolatori comunali, dei regolamenti edilizi e dei piani di fabbricazione. D'altro canto - si sostiene ulteriormente - l'attività di controllo attribuita, all'epoca, al sindaco in materia urbanistica sarebbe stata un'attività di mero controllo estrinseco, che non involgeva il profilo della stabilità e/o sicurezza degli interventi edilizi. Tanto troverebbe conferma al nell'art. 2 della l. n. 1150 del 1942 b1 nell'ultimo comma dell'art. 31 di detta legge, stabilente la responsabilità del committente titolare della licenza, del direttore dei lavori dell'assuntore dei lavori per l'inosservanza delle norme generali di legge di regolamento come delle modalità esecutive stabilite nella licenza edilizia ci nell'art. 5 della l. n. 1684 del 1962, là dove stabiliva il divieto di costruire sul ciglio o al piede di dirupi, su terreni di eterogenea struttura, detritici, franosi o comunque soggetti a scoscendere, nonché il controllo sull'accertamento eseguito dal costruttore delle condizioni della natura del terreno da parte del competente ufficio del Genio Civile. Da tanto si fa discendere che, contrariamente a quanto opinato dalla Corte napoletana l'amministrazione comunale non era tenuta a verificare la sicurezza del sito di impianto delle costruzioni e le modalità di esecuzione delle stesse, poiché detti accertamenti sarebbero stati di competenza del costruttore e dell'ufficio del genio civile. A sostegno di tale assunto viene citata Cass. sez. un. n. 5346 del 1978, i cui principi vengono riprodotti. p.2.1. Il motivo non può trovare accoglimento, in quanto non solo non risulta procedibile per l'incompletezza della sentenza, ma, anche a volere superare tale rilievo, propone una lettura della motivazione della sentenza impugnata che non corrisponde alla sua effettività e che, dunque, lo rende infondato. La Corte territoriale dopo avere espressamente ricordato, per la gran parte riproducendolo proprio nella pagina 20 mancante, il principio di diritto affermato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite secondo cui Al privato danneggiato dal crollo di un edificio deve negarsi il diritto al risarcimento del danno nei confronti del comune, per fatti commissivi od omissivi ascrivibili ai dipendenti del comune stesso in materia di rilascio di licenze edilizie o di controllo e vigilanza sull'esecuzione delle costruzioni poiché la lesione e conseguenza dell'operato del soggetto che ha eseguito la costruzione, e non della concessione della licenza, anche se illegittima, e perche non e configurabile neppure un concorso di cause, considerato che il diniego di autorizzazione non rende impossibile l'operato medesimo, mentre, infine, la vigilanza sulle costruzioni si ricollega a finalità generali di sicurezza estrinseca nel corso dell'esecuzione dei lavori, ma non mira ad assicurare la statica e resistenza degli edifici, ne a difendere e tutelare la pubblica incolumità” , ha infatti osservato sempre nella pagina 20 quanto segue a parere di questo giudice, la decisione citata non si attaglia al caso in esame, in cui il disastro è stato causato dal cedimento del terreno, notoriamente instabile e franoso, su cui sono state edificate, previa concessione della licenza, ben 13 villette e un albergo, in spregio delle più elementari cautele e nozioni tecniche. Il Comune ha autorizzato un imponente e pernicioso intervento speculativo, senza tenere conto della natura franosa della zona e del conseguente, evidente pericolo per l'incolumità dei cittadini. Si deve ritenere che, se la licenza non fosse stata concessa, sarebbe stato assai difficile portare a termine in un piccolo centro un intervento edilizio di così imponenti dimensioni”. p.2.1.1. Ora, la mancanza della pagina 20 in cui tale argomentazione viene svolta, siccome si è acclarato tramite la copia autentica prodotta dal ricorrente incidentale, attesa la centralità di essa sarebbe sufficiente a giustificare l'improcedibilità dell'esame del motivo, perché non consente di percepire nella sua completezza la motivazione della sentenza sulla questione. p.2.1.2. Peraltro, il motivo, anche a volere superare tale rilievo, risulta privo di fondamento. Invero, la riportata motivazione non addebita al Comune una responsabilità per aver concesso la licenza senza controllare la staticità e la sicurezza delle costruzioni come tali, ma gli addebita una responsabilità, a titolo di concausa nell'evento, derivante dal rilascio della licenza, considerando che tale comportamento non ha avuto siffatta efficacia in ragione della pretesa omissione di quel controllo, effettivamente non dovuto e non possibile da parte del Comune secondo la legislazione allora vigente ed evocata dal ricorrente, sulla realizzazione delle costruzioni senza le condizioni di staticità e sicurezza loro proprie, cioè intrinseche all'attività costruttiva, bensì perché esso l'ha avuta nella determinazione, per effetto dell'attività costruttiva sul sito in cui è avvenuta di una situazione tale da determinare il cedimento del terreno, che era notoriamente instabile e franoso, e, quindi, la frana, che poi travolse le costruzioni. La Corte partenopea, dunque, ha ravvisato il comportamento del Comune riconducibile alla legge aquilia non già nell'avere rilasciato la licenza edilizia omettendo controlli sulla idoneità tecnica dell'attività costruttiva che ne era oggetto come tale, bensì per averla concessa per un'attività costruttiva che si sarebbe dovuta svolgere in un contesto territoriale di cui era nota la franosità e l'instabilità, onde è sotto siffatto aspetto che la quella Corte ha valutato l'efficienza causale del'evento del rilascio della licenza. Correttamente, dunque, la motivazione della sentenza impugnata ha assunto come non pertinente la lontana decisione delle Sezioni Unite, che non a caso riguardava un noto caso, asceso agli onori delle cronache, di crollo di un edificio per difetti intrinseci dell'attività costruttiva. Nel caso di specie la Corte territoriale ha, invece, apprezzato il rilascio della licenza di costruzione come un comportamento che il Comune si sarebbe dovuto astenere dal tenere non già in ragione di un vaglio tecnico sulla costruzione come tale, bensì sulla base di una valutazione relativa alla sua collocazione, cioè alla sua esecuzione in un ambito territoriale notoriamente instabile e franoso. La specifica conoscenza da parte del Comune di tale stato è stata, poi, desunta per il tramite di quella del tecnico dirigente dell'ufficio tecnico del Comune stesso, ing. Pr. sulla base della considerazione che nel 1963 si era già verificata nella zona un'altra frana, per fortuna senza vittime, e che, i tale occasione, il Comune aveva acquisito la relazione tecnica dell'ispettorato Dipartimento delle Foreste di Napoli, che chiaramente illustrava la natura franosa del terreno” pagina 18 della sentenza . L'argomentare dell'illustrazione del motivo, al lume della considerazione della motivazione della sentenza, non si correla, dunque, all'effettiva sua motivazione, là dove postula che la Corte napoletana abbia pronunciato senza osservare il principio di cui alla sentenza delle Sezioni Unite, che viceversa correttamente è stato ritenuto non adeguato alla fattispecie. p.2.2. Del tutto generica è, poi, l'affermazione, che si risolve in una diversa censura, che il Comune non era tenuto a controllare il sito di impianto delle costruzioni. In disparte che nello svolgimento dell'attività di rilascio della licenza edilizia l'agire del Comune, pur nell'esercizio dei suoi compiti amministrativi non poteva avvenire senza l'osservanza, in ragione dello stessa attribuzione di tali compiti, di tutte le cautele suggerite dall'oggetto su cui essi si estrinsecavano a tutela dei terzi, secondo il generale principio per cui anche l'agire della P.A. deve avvenire nel rispetto del generale canone del neminem laedere , deve, comunque, considerarsi che, poiché secondo la l. n. 1150 del 1942 i comuni avevano il compito di redigere il piano regolatore generale art. 7 della legge e, nel suo ambito di indicare n. 2 la divisione in zone del territorio, con precisazione di quelle destinate all'espansione dell'aggregato urbano, ed i caratteri e vincoli di zona da osservare nell'edificazione” e poiché ove non lo avessero fatto, ai sensi dell'art. 34 della citata legge, dovevano redigere un programma di fabbricazione, con l'indicazione dei limiti di ciascuna zona, secondo le delimitazioni in atto o da adottarsi, nonché con la precisazione dei tipi edilizi propri di ciascuna zona”, è palese che nello svolgimento delle attività e nell'esercizio dei poteri loro attribuiti, l'esistenza di tali oneri comportava che già nel regime di quella legge soprintendessero in linea generale al controllo del territorio sotto il profilo edilizio proprio in funzione dell'adozione dei detti strumenti urbanistici. Ne segue che erano nella condizione di percepire situazioni di instabilità del territorio incompatibili con l'attività edilizia e, quindi, in tale cornice la concessione di una licenza edilizia in una zona notoriamente instabile e franosa ed anzi per come affermato conosciuta dallo stesso Comune in ragione della relazione tecnica evocata dopo l'evento del 1963, una volta tenuto conto che il compito del Comune di fissare in definitiva le zone di edificazione implicava la valutazione e, dunque, la percezione delle caratteristiche di ogni zona, si connotò come un atto compiuto senza la dovuta considerazione delle conseguenze che l'edificazione avrebbe potuto avere in relazione alle caratteristiche della zona e, quindi, senza l'osservanza di regole prudenziali e di cautela nemmeno generiche, bensì specificamente ricollegate alla natura stessa ed al potere sotteso ai compiti comunali. D'altro canto, essendo il Comune ente esponenziale del territorio, è palese che pur sotto la vigenza della l. n. 1150 del 1942 nello svolgimento dell'attività di rilascio di licenze di costruzione, dovendo detta attività, come in generale l'attività amministrativa, ispirarsi al principio del neminem laedere , essa non poteva andare esente dalla necessaria considerazione delle caratteristiche della zona su cui l'intervento edilizio doveva realizzarsi e ciò, se anche, in ipotesi, il Comune - cosa che non è dato sapere - non si fosse dotato di piano regolatore o programma di fabbricazione. In sostanza la palese esistenza, quale presupposto del potere di intervento tramite normazione sull'attività edilizia sul proprio territorio, di un controllo e di una percezione dello stato del territorio, quest'ultima nel caso specifico addirittura verificatasi, rendeva il Comune in sede di rilascio della licenza obbligato a valutare l'intervento di cui si chiedeva licenza con riferimento alle caratteristiche della zona in cui si doveva eseguire, onde essa avrebbe dovuto certamente rifiutarsi. Le svolte considerazioni - come non ha mancato di rilevare il Pubblico Ministero nella discussione orale - trovano riscontro nel seguente precedente di questa Corte La responsabilità della P.A. per il risarcimento dei danni causati da una condotta omissiva sussiste non soltanto nel caso in cui questa si concretizzi nella violazione di una specifica norma, istitutiva dell'obbligo inadempiuto, ma anche quando detta condotta si ponga come violazione del principio generale di prudenza e diligenza cosiddetto obbligo del neminem laedere , di cui è espressione l'art. 2043 cod. civ. nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la corresponsabilità di un Comune nella determinazione dei danni derivati dal crollo di un fabbricato, perché l'ente locale, oltre ad aver negligentemente omesso di verificare, in violazione della legge urbanistica n. 1150 del 1942, la concreta edificabilità dei terreni e di prescrivere le misure idonee ad evitare pericoli di franamento di una collina e di conseguente crollo degli edifici sulla stessa costruiti, a seguito delle licenze rilasciate dall'ente medesimo, aveva comunque omesso, in violazione del principio del neminem laedere , qualsiasi accertamento preventivo rispetto ad un terreno chiaramente di tipo franoso, nonché ogni prescrizione al riguardo nel convenzionamento della lottizzazione ed ogni vigilanza sull'esecuzione delle costruzioni ” Cass. n. 3939 del 1996 . Il motivo è, pertanto, rigettato. p.3. Con il secondo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043, 1223, 2055 c.c., 40 e 41 c.p., 28 e 97 Costituzione, 22 D.P.R. 3/1957, 31-32-33 l. 1150/1942, 5 l. 1684/62 art. 360, 1 co., n. 3 c.p.c. . Nel motivo, sulla premessa che la responsabilità del Comune è stata riconosciuta nel presupposto di quella, attribuita anche in sede penale all'Ing. Pr.To. , capo dell'Ufficio Tecnico Comunale, e particolarmente in ragione del rapporto di immedesimazione organica con il Comune, si ripropongono sostanzialmente le stesse argomentazioni svolte nel precedente motivo in ordine alla circostanza che nel rilascio della licenza edilizia, e segnatamene nell'espletamento dell'attività preliminare di rilascio del parere in funzione del rilascio della licenza edilizia, non veniva in rilievo un potere di controllo del profilo della stabilità e sicurezza dell'attività costruttiva come tale. Viene nuovamente evocata la già citata sentenza delle Sezioni Unite. Ne segue che il motivo non coglie anche in questo caso la ratio deciderteli della sentenza impugnata, che, come s'è veduto esaminando il motivo precedente, ha rinvenuto la responsabilità del Comune in ragione di un'efficacia del rilascio della licenza quale concausa dell'evento franoso per la circostanza che la licenza non avrebbe dovuto rilasciarsi a cagione della notoria franosità ed instabilità della zona e non sulla base di un preteso mancato controllo sulla idoneità della divisata attività costruttiva come tale. Efficacia che, come s'è visto, la sentenza, per quanto attiene al Comune desume, sulla base della condivisione della valutazione delle perizie penali fatta dal primo giudice e non dell'efficacia del giudicato penale a carico del Pr. . Perizie che avevano evidenziato che nell'esprimere il parere il predetto ingegnere doveva conoscere la franosità della zona del divisato intervento edilizio. È palese, poi, che le considerazioni svolte riguardo al primo motivo a proposito dell'esistenza in capo al Comune e, quindi, dei soggetti in rapporto di immedesimazione con esso, qual era il Pr. , di una posizione che comunque nello svolgimento delle attività funzionali al rilascio della licenza imponeva, in ragione dei poteri attribuiti al Comune in ambito di edilizia sul territorio, di osservare comunque il principio del neminem laedere . p.3.1. Nell'ultima proposizione illustrativa del motivo si sostiene, poi, che ai sensi della l. n. 1150 del 1942 nel testo vigente all'epoca dei fatti il dirigente dell'ufficio tecnico comunale non aveva alcun obbligo di dare parere in ordine al rilascio della licenza edilizia parere che competeva alla Commissione edilizia , per cui nessun nesso causale poteva sussistere tra tale parere reso e il rilascio della licenza”, donde l'assenza di responsabilità del Pr. e, quindi, del Comune. p.3.1.1. La censura è gradatamente inammissibile e comunque infondata. La sua inammissibilità deriva innanzitutto dal fatto che ad essa nulla corrisponde nel quesito di diritto che conclude l'illustrazione del motivo, posto che in esso si fa riferimento solo alla questione ne segue che in parte qua il motivo non rispetta l'art. 366 bis c.p.c., perché non è concluso da alcun pertinente quesito di diritto. Ulteriore causa di inammissibilità discende, poi, dal fatto che non si dice se e dove la relativa questione, cioè, l'avere il Pr. rilasciato un parere in carenza di competenza, sarebbe stata introdotta nel giudizio di merito. L'omissione è tanto più rilevante, in quanto la questione involgeva anche accertamenti di fatto circa il modus procedenti temporibus illis presso il Comune di Gragnano. Ne segue che non è dato sapere se la questione fosse stata introdotta nel giudizio di merito e possa ora prospettarsi in questo giudizio di legittimità, tanto più che la sentenza impugnata non ne reca traccia. La causa di inammissibilità deriva dall'inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c., che imponeva di indicare specificamente gli atti, in questo caso processuali, nei quali la questione era stata proposta ed era pervenuta all'esame della Corte territoriale. Il motivo, nella sua astratta prospettazione di una quaestio iuris che non si dimostra rilevante in relazione all'impugnazione della sentenza, sarebbe stato, d'altro canto, anche privo di fondamento, atteso che non si comprende come e perché la mera esecuzione di un'attività in posizione di incompetenza da parte di un funzionario possa riverberare nella rottura del nesso di immedesimazione organica dell'agire del medesimo rispetto al Comune. Sul punto neppure si spende alcuna attività in iure dimostrativa. p.3.1.2. Il motivo è dichiarato conclusivamente inammissibile. p.4. Il terzo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 651 già art. 28 c.p.p. art. 360, 1 co., n. 3, c.p.p. . Vi si sostiene che la Corte partenopea avrebbe desunto la responsabilità del Pr. sulla scorta delle sentenze penali emesse in sede di appello e di legittimità, ancorché esse avessero, pur avendo negato il proscioglimento del medesimo per mancanza di una prova evidente della sua innocenza, dichiarato prescritti i reati. In tal modo quella Corte avrebbe attribuito efficacia di giudicato sull'esistenza del reato dette sentenze in violazione delle norme evocate nell'intestazione del motivo. p.4.1. Il motivo - in disparte che appare singolare l'indicazione di due norme violate, l'una del c.p.p. del 1930 e l'altra di quello del 1989 senza dire quale sarebbe stata applicabile ed in disparte che, fondandosi sulle sentenze penali, omette di fornire l'indicazione specifica ai sensi del mentovato art. 366 n. 6 c.p.c., il che lo renderebbe inammissibile - è, comunque, inammissibile, perché non si correla alla motivazione della sentenza impugnata. Essa non ha ritenuto di affermare la responsabilità del Pr. dando rilievo di cosa giudicata alle sentenze penali, ma - come emerge dalle pagine 17-18 - ha espressamente richiamato fra virgolette la motivazione della sentenza di questa Corte in sede penale sul punto in cui avevano affermato la responsabilità del Pr. ed ha dichiarato espressamente di condividerla, onde è come se l'avesse ripetuta e fatta propria e, dunque, esternata come suo convincimento autonomo e non già determinato da vincolo di cosa giudicata. Si aggiunga che, come s'è già veduto a proposito dei primi due motivi, la sentenza impugnata ha fatto riferimento alle ed ha argomentato dalle perizie penali, cui aveva fatto riferimento il Tribunale in primo grado. Il motivo è, pertanto, dichiarato inammissibile alla stregua del principio di diritto secondo cui Il motivo d'impugnazione è rappresentato dall'enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d'impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l'esercizio del diritto d'impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell'esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un non motivo, è espressamente sanzionata con l'inammissibilità ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ.” Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi . p.5. Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 33 l. 1150/42, 220 R.D. 27.7.34 n. 1365,2055 c.c., 28 Cost., 22 D.P.R. 3/1957 art. 360, 1 co, n. 3 c.p.c. . Vi è svolta la stessa censura che era accennata in chiusura del secondo motivo. Anche questo motivo presenta le stesse ragioni di inammissibilità evidenziate sopra in sede di esame del secondo motivo e, gradatamente, quelle di infondatezza, posto che nuovamente si vorrebbe che dalla pretesa mera incompetenza del Pr. derivasse rottura del nesso di immedesimazione organica ai fini della responsabilità. p.6. Con il quinto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 c.c. e 651 già art. 28 c.p.p. art. 360, n. 3, c.p.c. . Vi si sostiene, con breve ed assertoria illustrazione e senza alcun riferimento alla parte di motivazione della sentenza impugnata, che la Corte territoriale avrebbe affermato la responsabilità del Comune in ragione della responsabilità penale accertata dal giudice penale, così estendendo al Comune il relativo giudicato, ancorché esso non avesse preso parte al giudizio penale. p.6.1. Il motivo - in disparte che appare nuovamente singolare l'indicazione di due norme violate, l'una del c.p.p. del 1930 e l'altra di quello del 1989 senza scelta su quale sarebbe stata applicabile ed in disparte che, fondandosi sulle sentenze penali, omette di fornire l'indicazione specifica ai sensi del mentovato art. 366 n. 6 c.p.c., il che lo renderebbe già inammissibile - è inammissibile giusta il principio di diritto di cui a Cass. n. 359 del 2005 perché anche in questo caso non si correla alla motivazione della sentenza impugnata, atteso che, come s'è già detto a proposito del terzo motivo, essa ha proceduto ad una autonoma valutazione della responsabilità e non ha affatto esteso al Comune il giudicato penale. p.7. Con il sesto motivo si denuncia violazione degli artt. 2043, 1310, 2055 e 2909 c.c., 651 già art. 28 c.p.p., 28 Costituzione art. 360, n. 3 c.p.c. . p.7.1. Il motivo, non è dato comprendere perché, ripropone la stessa censura svolta nel motivo precedente e con la stessa tecnica illustrativa che omette di riferirsi alla motivazione della sentenza impugnata. Ne segue che merita la stessa valutazione svolta a proposito del detto motivo e, dunque, è inammissibile. p.8. Con il settimo motivo si prospetta violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 195 c.p.p. previgenti, degli artt. 2909 c.c., 324 e 329 c.p.c., art. 28 Cost. e art. 2055 c.c. art. 360, 1 co., nn. 3 e 4 c.p.c. . L'illustrazione del motivo è conclusa dai seguenti quesiti di diritto Dica la Suprema Corte se, nel caso in cui la persona offesa, costituita parte civile nel procedimento di primo grado, ometta di impugnare la sentenza con la quale l'imputato sia stato assolto perché il fatto non costituisce reato, tale pronuncia acquisti, o meno, efficacia di giudicato negativo per la parte civile, in riferimento all’azione risarcitoria, anche se la sentenza venga riformata a seguito dell'appello del pubblico ministero. Dica, altresì, la Suprema Corte se sia rilevabile, o meno, anche in sede di legittimità, il giudicato esterno che risulti da atti che siano stati acquisiti nel corso del giudizio di merito. In conseguenza di ciò, dica la Suprema Corte se, ritenuta, per tali ragioni, la esistenza del giudicato, a favore dell'imputato prosciolto in primo grado, sulla non risarcibilità del danno alle parti civili, tale giudicato sia, o meno, ostativo alla condanna dell'ente territoriale, ex art. 28 Cost., in virtù del rapporto organico che lega quest'ultimo con l'imputato assolto ”. p.8.1. I tre quesiti proposti sono inidonei ad assolvere al requisito di cui all'art. 366 bis c.p.c., norma che, in ragione dell'irretroattività della sua abrogazione, continua a regolare 1 ricorso. L'inidoneità - che si risolve in nullità della formulazione e, dunque, la rende incapace di assolvere al requisito prescritto a pena di inammissibilità - deriva dalla mancanza in essi del requisito della conclusività, cioè di un pur sommario e riassuntivo riferimento alla vicenda oggetto della controversia e di un altrettale riferimento alla motivazione della sentenza impugnata. Il detto requisito era necessario perché un quesito di diritto, secondo i principi generali delle nullità degli atti processuali, fosse idoneo allo scopo previsto dal legislatore, cioè di far percepire alla Corte di cassazione il problema giuridico posto dal motivo non già come astratta quaestio iuris , bensì come quaestio iuris relativa al caso concreto. Poiché il caso concreto che perviene alla Corte di cassazione è necessariamente individuato dalle coordinate che si muovono tra la fattispecie concreta oggetto del giudizio di merito e la motivazione della decisione impugnata, è palese che il quesito doveva essere articolato evidenziando dette coordinate. p.8.1.1. L'art. 366 bis c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito di diritto dovesse concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva concludere l'illustrazione del motivo ed il motivo si risolveva come si risolve in una critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa sul punto oggetto dell'impugnazione e che appunto dev'essere criticato dal motivo, appare evidente che il quesito, per concludere l'illustrazione del motivo, doveva necessariamente contenere un riferimento riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto, cioè al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse evidenziato - ancorché succintamente - perché l'interrogativo giuridico astratto era giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un quesito che non presentasse questa contenuto era, pertanto, un non - quesito si veda, in termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008 nonché n. 6420 del 2008 . D'altro canto, se si fosse avallata l'idea che un quesito potesse non essere articolato in modo conclusivo nel senso appena indicato, ne sarebbe derivata che al ricorrente in cassazione sarebbe bastato per ottemperare al requisito dell'art. 366-bis prospettare alla fine dell'illustrazione del motivo un quesito purchessia per adempiere al detto requisito, salvo poi constatare solo a posteriori, cioè tramite la lettura dell'illustrazione che se il quesito nella sua astrattezza risultava pertinente. Il risultato di una simile interpretazione dell'art. 366 bis sarebbe stato allora quello di vanificare il profilo funzionale della previsione del quesito, che era rappresentato dall'assicurazione alla Corte di cassazione di un'immediata percezione, pur riassuntiva, della questione proposta dal motivo e, in ragione dello sforzo tecnico riassuntivo così imposto al ricorrente, di assicurare che effettivamente il motivo prospettasse una quaestio iuris nella logica dei nn. 1,2, 3, e 4 dell'art. 360 c.p.c p.8.1.2. È da avvertire che l'utilizzo del criterio del raggiungimento dello scopo per valutare se la formulazione del quesito fosse idonea all'assolvimento della sua funzione appare perfettamente giustificato dalla soggezione di tale formulazione, costituente requisito di contenuto - forma del ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e, quindi, alla regola dell'art. 156, secondo comma, c.p.c., per cui all'assolvimento del requisito non poteva bastare la formulazione di un quesito quale che esso fosse, eventualmente anche privo di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione idonea sul piano funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da tanto l'esigenza che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati. Esigenza, del resto, che non s concretava in una richiesta al ricorrente di assolvere ad un requisito di contenuto forma dai caratteri indefiniti e, quindi, in una incidenza sull'effettività del mezzo di impugnazione costituito dal ricorso alla Corte anche nei termini del ed principio di effettività, di cui all'art. 6 della CEDU, che in no diversa guisa è amminicolo del diritto di azione e di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 e specificato dall'art. 111 Cost. , atteso che all'effettivo dispiegarsi della difesa tecnica particolarmente qualificata di cui necessita il ricorrente in Cassazione non poteva essere d'ostacolo l'onere di formulare quesiti asseritamente conclusivi nei detti sensi. p.8.1.3. Per altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il criterio di cui al terzo comma dell'art. 156 c.p.c., posto che quando il legislatore qualifica una nullità di un certo atto come determinativa della sua inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto escludere che il giudice possa apprezzare l'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo sulla base di contenuti desunti aliunde rispetto all'atto il che escludeva che il quesito potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso che l'inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell'atto complesso rappresentante il ricorso, ivi compresa l'illustrazione del motivo si veda, in termini, già Cass. ord. n. 16002 del 2007 ord. n. 15628 del 2009, a proposito del requisito di cui all'art. 366 n. 6 c.p.c. . p.8.1.4. È, altresì, da avvertire, che l'intervenuta abrogazione dell'art. 266 bis c.p.c. non può determinare - in presenza di una manifestazione di volontà del legislatore che ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 contro provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la retroattività dell'abrogazione per i ricorsi proposti antecedentemente e non ancora decisi - l'adozione di un criterio interpretativo della stessa norma distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della nomofilachia anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche con numerosi arresti delle Sezioni Unite. L'adozione di un criterio di lettura dei quesiti di diritto ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. dopo il 4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era fatto dalla giurisprudenza della Corte anteriormente si risolverebbe, infatti, in una patente violazione dell'art. 12, primo comma, delle preleggi, posto che si tratterebbe di criterio contrario all'intenzione del legislatore, il quale, quando abroga una norma, tanto più processuale, e la lascia ultrattiva o comunque non assegna effetti retroattivi all'abrogazione, manifesta non solo una voluntas nel senso di preservare l'efficacia della norma per la fattispecie compiutesi anteriormente all'abrogazione e di assicurarne l'efficacia regolatrice rispetto a quelle per cui prevede l'ultrattività, ma anche una implicita voluntas che l'esegesi della norma abrogata continui a dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente è stata compiuta. Per cui l'interprete e, quindi, anche la Corte di Cassazione ai sensi dell'art. 65 dell'Ordinamento Giudiziario, debbono conformarsi a tale doppia voluntas e ciò ancorché, in ipotesi, l'eco dei lavori preparatori della legge abrogativa riveli che l'abrogazione possa essere stata motivata anche e proprio dall'esegesi che della norma sia stata data. Invero, anche l'adozione di un criterio esegetico che tenga conto della ragione in mente legislatoris dell'abrogazione impone di considerare che l'esclusione dell'abrogazione in via retroattiva ed anzi la previsione di una certa ultrattività per determinate fattispecie sempre in mente legislatoris significhino voluntas di permanenza dell'esegesi affermatasi, perché il contrario interesse non è stato ritenuto degno di tutela. p.8.2. Il motivo in esame risulta, comunque, inammissibile anche per inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c., atteso che, se si procede alla lettura della sua illustrazione si rileva che vi si argomenta che nel processo penale si era formato un giudicato sull'infondatezza delle azioni civili esercitate nel processo penale contro il Pr. , perché le sentenze assolutorie nei suoi riguardi in relazione alle quali erano state era stata pronunciata prima la sentenza del 22 novembre 1982 della Corte d'Appello di Napoli e poi quella di questa Corte in sede penale n. 760 del 1984, erano state rispettivamente impugnate in primo grado solo dal P.M. e in appello dal P.G., onde sulla inesistenza della responsabilità civile nei confronti dei danneggiati, non estendendosi l'impugnazione del pubblico ministero alle statuizioni sulle azioni civili si era formata cosa giudicata, che nel processo civile costituiva giudicato esterno, che la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare ed i cui effetti a beneficio del Pr. si estendevano anche al Comune. È palese allora che il motivo si fonda sul contenuto delle sentenze penali della Corte napoletana e di questa Corte, ma riguardo ad esse difetta l'indicazione specifica prescritta dal n. 6 dell'art. 366 c.p.c Tale mancata indicazione concerne la riproduzione diretta o almeno indiretta, con individuazione della parte indirettamente riprodotta, del tenore delle sentenze penali che sorreggerebbe il motivo, nonché per quella di appello della sede in cui sarebbe esaminabile in questo giudizio di legittimità, onde la Corte non è messa grado di esaminare il motivo al fine di rilevare se la prospettazione trovi conferma nelle sentenze de quibus . p.8.3. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile. p.9. Con l'ottavo motivo si fa valere omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia art. 360, 1 co., n. 5 c.p.c. . L'illustrazione del motivo procede dalla pagina 36 alle prime tre righe della pagina 39 . A metà della sua illustrazione, precisamente nelle ultime righe della pagina 37 e nelle prime cinque della pagina 38, si enuncia quanto segue il fatto controverso consiste in ciò, che il Comune, nel rilasciare la licenza edilizia, e il capo dell'ufficio tecnico, nel rendere il relativo parere, non erano condizionati dal previo accertamento dello stato di pericolo dei luoghi, e che, anche in caso di rilascio di licenze edilizie parere illegittimi, non esisteva il nesso di causalità fra tale comportamento e i danni provocati a terzi dalla costruzione, giacché il privato ben poteva costruire anche in assenza di autorizzazione”. p.9.1. Il motivo è inammissibile perché non si conclude con né contiene il momento di sintesi espressivo della c.d. chiara indicazione , cui alludeva l'art. 366 bis c.p.c., nei termini di cui alla consolidata giurisprudenza inaugurata da Cass. ord. n. 16002 del 2007 e Cass. sez. un. n. 20603 del 2007. Né l'enunciazione che è stata sopra riportata riveste i caratteri del momento di sintesi, atteso che non allude ad una quaestio facti , ma evoca considerazioni in iure. p.9.2. Ove, poi, si passi alla lettura della sua illustrazione, il motivo si rivela, come del resto ammesso dallo stesso ricorrente, che meramente ripropositivo delle questioni di diritto di cui ai primi due motivi, il che, oltre ad evidenziare che non è motivo ai sensi del n. 5 dell'art. 360, bensì ai sensi del n. 3 della norma che, dunque, doveva concludersi con un quesito di diritto, che sarebbe del tutto astratto e privo di conclusività nei sensi indicati per assenza di riferimento alla motivazione della sentenza impugnata , meriterebbe le stesse considerazioni svolte a proposito soprattutto del primo motivo per evidenziarne l'infondatezza, le quali ne giustificherebbero la stessa sorte. p.10. Con il nono motivo si denuncia violazione degli artt. 2943 2947 c.c., 648 c.p.p., 157 e 590 c.p. art. 360, 1 co., nn. 3 e 4 c.p.c. . L'illustrazione del motivo è conclusa dal seguente quesito di diritto Dica la Suprema Corte se la sentenza penale dei giudici di legittimità, dichiarativa della prescrizione di un reato nella specie di lesioni colpose per cui è previsto un termine di prescrizione non più lungo di quello di cui al primo comma dell'art. 2947 c.c., e di rinvio alla corte di merito per la cognizione di altri, più gravi, reati non prescritti, costituisca, o meno, cosa giudicata, relativamente al reato dichiarato prescritto se la data del deposito di tale sentenza integri, o meno, il di essa copre la prescrizione quinquennale - prevista dal 1 comma dell'art. 2947 c.c. - dell'azione civile per i danni prodotti da quel reato e se, quindi, sia inapplicabile, o meno, il più lungo termine di prescrizione degli altri, più gravi, reati commessi dall'imputato ”. p.10.1. Il motivo è inammissibile sia per inosservanza dell'art. 366-bis c.p.c., sia per inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c Sotto il primo aspetto, nuovamente il quesito risulta privo di conclusività, atteso che omette un pur sommario e riassuntivo riferimento alla vicenda oggetto ed alla motivazione della sentenza impugnata, onde si risolve in un interrogativo del tutto astratto. Sotto il secondo aspetto, la lettura dell'illustrazione del motivo evidenzia in tanto che vi si sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato nell'individuare il termine di prescrizione operante nei confronti della danneggiata F. , in quanto il reato accertato in sede penale nei suoi riguardi era quello di lesioni personali colpose, onde allorquando la medesima aveva intrapreso l'azione civile risarcitoria in sede civile il 29 luglio 1985 essa sarebbe stata prescritta, essendo la prescrizione applicabile quella quinquennale ed avendo il suo corso ripreso a decorrere dopo la cessazione dell'effetto interruttivo ricollegato alla pendenza del processo penale e segnatamente dal 2 febbraio 1980, data della pubblicazione della sentenza di questa Corte n. 1466 del 1979, di annullamento senza rinvio della precedente decisione di appello quanto al detto reato per prescrizione. Si evidenzia, in conseguenza - in disparte il rilievo che il motivo si riferisce in realtà alla sola posizione della F. , il che paleserebbe ulteriore ragione di inammissibilità per difetto di conclusività del quesito, che non lo prospettava in alcun modo - che il motivo stesso si fonda sul contenuto della citata sentenza penale di questa Corte, che non viene riprodotto né direttamente né indirettamente nella parte che sorregge l'allegazione. È da rilevare che, essendo la sentenza de qua una decisione di questa Corte, che essa può reperire nel proprio archivio, l'inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c. quanto al se essa sia stata prodotta e sia esaminabile in questa sede non rileva, ma rileva pur sempre che il ricorrente non abbia fornito la specifica indicazione della parte della sentenza dalla quale si evincerebbe quanto allegato in relazione alla posizione della F. . p.10.2. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile. p.11. Il 10 motivo deduce infine violazione degli artt. 112 e 343 c.p.c. art. 360, 1 co., n. 4 c.p.c . L'illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto Dica la Suprema Corte se il giudice d'appello, il quale non si sia pronunziato su un mezzo di gravame subordinato, che investe il quantum, dopo aver dichiarato la responsabilità dell'appellante, incorra nel vizio di omessa pronuncia ”. p.11.1. Il motivo, data la natura totalmente astratta e generica del quesito, che non indica l'oggetto del gravame subordinato, risulta inammissibile per violazione dell'art. 366 bis c.p.c p.11.2. Se si procede alla sua lettura risulta inammissibile per una gradata ragione. Vi si sostiene, infatti, che il Comune, nel costituirsi in appello, aveva fra i vari motivi di appello incidentale dedotto censura rispetto alla sentenza di primo grado anche nella parte relativa alla quantificazione dei danni i favore degli attori, adducendo che non appariva giustificabile e comunque, non adeguatamente motivata l'affermazione secondo la quale i danneggiati avrebbero destinato agli attori una quota di reddito pari ai 2/3 di esso né è provato affatto che i defunti Ac.Vi. e L.A. al momento del fatto fossero ancora celibi e che si sarebbero sposati solo al'età di 32 anni e non invece prima come appare più credibile considerando che l'età media del matrimonio all'epoca dei fatti era sicuramente inferiore a quella di adesso”. Si riproduce, quindi, il capo C delle conclusioni della comparsa in cui si era chiesto In via subordinata, e nella non creduta ipotesi di mancato accoglimento della precedente conclusione, ridurre le somme eventualmente dovute agli attori a titolo di risarcimento danni dall'Amm.ne comunale”. Sulla base di tali deduzioni si lamenta che la Corte territoriale, una volta confermata la responsabilità comunale, avrebbe omesso di pronunciare su detto motivo di appello incidentale subordinato. p.11.2.1. Ora, poiché ci si astiene dal precisare se all'atto della precisazione delle conclusioni quanto richiesto in via subordinata era stato mantenuto fermo, la Corte non è messa in grado di valutare se effettivamente vi fu omissione di pronuncia. Va considerato d'altra parte, che la sentenza impugnata indica come conclusioni del Comune, che esso concluse con la seguente richiesta in totale riforma della sentenza, rigetto della domanda”, che non appare compatibile con il mantenimento della conclusione subordinata, che avrebbe supposto la richiesta subordinata di riforma parziale della sentenza sul quantum fra l'altro riguardo a taluni danneggiati e, quindi, di rigetto parziale della domanda. Il Collegio rileva che quando si deduce un'omissione di pronuncia da parte del giudice di merito su un capo di domanda oggetto di un motivo di appello, il ricorrente in cassazione, al fine di supportare il motivo di ricorso per cassazione come effettivamente rispondente al vizio denunciato è tenuto ad indicare, ai sensi dell'art. 366 n. 6 c.p.c., non solo di avere il detto motivo di appello, riproducendone l'attività assertiva o riproducendola indirettamente con indicazione della parte dell'atto di appello in cui l'indiretta riproduzione trova riscontro, ma deve anche allegare che il motivo venne mantenuto in sede di precisazione delle conclusioni e parimenti adempiere con riferimento a quel momento l'onere di cui a detta norma. In caso contrario il motivo di ricorso è inammissibile perché l'attività di deduzione del motivo è inidonea dimostrare, sul piano dell'esercizio del diritto di impugnazione con il ricorso, che la censura sia ammissibile e perché l'indicazione specifica richiesta dall'art. 366 n. 6 non è completa. p.11.3. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile. p.12. Conclusivamente, il ricorso principale è rigettato. p.13. Il ricorso incidentale del Pr. , dopo avere dichiarato di proporre ricorso incidentale sottoponendo le seguenti osservazioni”, le distingue in due paragrafi. p.13.1. In quello sub A assume di volerle svolgere in relazione al ricorso principale” e in esso svolge effettivamente considerazioni sui motivi del medesimo, postulandone l'accoglimento quanto al primo, al secondo, al terzo, al settimo, all'ottavo, al nono ed al decimo, mentre per gli altri motivi sostiene che sarebbero inammissibili o infondati. Sotto il primo aspetto le doglianze assumono natura di ricorso incidentale adesivo a quello principale, peraltro proposto tempestivamente, cioè entro il c.d. temine lungo. Le considerazioni svolte a proposito del ricorso principale, considerato che alla prospettazione del ricorso principale nulla si aggiunge, tale non essendo l'attività dimostrativa che vi si svolge, e che le ragioni di inammissibilità dove rilevate a proposito del ricorso principale rimangono immutate, il Collego osserva che il primo, il secondo, il terzo, il settimo, l'ottavo, il nono ed il decimo motivo si intendono dichiarati inammissibili o rigettati con gli stessi rilievi svolti a proposito dei motivi identici del ricorso principale salvo quello di improcedibilità del primo motivo, che qui non sussiste, atteso che la copia autentica della sentenza è stata prodotta nella sua interezza . p.13.2. A partire dalla pagina 22, sotto il paragrafo B il controricorso espone, invece, un proprio motivo di ricorso incidentale, con cui si denuncia Error in judicando - Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2055, 2697 e 1223 c.c. - Violazione dei principi generali in materia di responsabilità civile - Difetto di motivazione ed omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia in relazione agli artt. 360, 1 comma, nn. 3 e 5 c.p.c. . L'illustrazione è conclusa, alla pagina 32, dal seguente quesito di diritto Dica la Suprema Corte se un Comune, nel rilasciare la licenza o concessione edilizia, ed il Tecnico Comunale, nel rendere il relativo parere, siano o meno condizionati dal previo accertamento dello stato di pericolo dei luoghi sotto il profilo della staticità degli stessi. Dica ancora la Corte se esista o meno un nesso di causalità tra il rilascio di una licenza o concessione illegittima e le conseguenze dannose aventi origine nella situazione statica dei luoghi, quando sia stata realizzata da costruttore l'opera oggetto della licenza o concessione in questione senza gli adeguati accorgimenti tecnici ”. p.13.2.1. Il motivo è inammissibile per inosservanza dell'art. 366-6/5 c.p.c In primo luogo, lo è, con riguardo alle censure di diritto, sotto il profilo dell'assoluta astrattezza e genericità dei due interrogativi proposti, la quale si risolve nella mancanza di conclusività, secondo le ampie considerazioni svolte in ordine alla sua necessità nell'esame del settimo motivo del ricorso principale. Invero, nei due interrogativi prospettati non si fa riferimento alla vicenda oggetto di giudizio, sebbene in modo riassuntivo e minimale, e non si fa riferimento alcuno alla motivazione della sentenza impugnata. In secondo luogo, una volta considerato che l'intestazione del formalmente unitario motivo, in realtà si scinde in tre distinte indicazioni, ognuna delle quali appare avere, se le parole usate debbono avere un senso, dignità di autonomo motivo, si rileva che i due interrogativi proposti nel quesito non recano alcune che li raccordi rispettivamente ai due vizi di violazione di norme di diritto, cioè la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2055, 2697 e 1223 c.c. e la violazione dei principi generali in materia di responsabilità civile . Ne consegue che viene in rilievo il principio di diritto secondo cui La previsione di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ., là dove esige che l'esposizione del motivo si debba concludere con il quesito di diritto, non significa che il quesito debba topograficamente essere inserito alla fine della esposizione di ciascun motivo, essendo consentita la elencazione finale o conclusiva di tutti i quesiti, purché, in tal caso, ciascuno di essi sia espressamente riferito al motivo, con richiamo numerico od alla rubrica delle violazioni addotte, oppure il collegamento al motivo sia inequivocabilmente evidenziato dalla esistenza di un rapporto di pertinenza esclusiva, in modo tale che esso sia agevolmente individuabile, senza necessità di una particolare analisi critica” Cass. ord. n. 5073 del 2008 . In fine, per quanto attiene al motivo ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., si sarebbe dovuto formulare il momento di sintesi espressivo della c.d. chiara indicazione , cui alludeva l'art. 366-bis c.p.c., i cui caratteri per cui Cass. ord. n. 16002 del 2007 e Cass. sez. un. n. 20603 del 207, citt. , del resto, nemmeno si scorgono, al di là della qualificazione come quesito di diritto, nei due interrogativi proposti. p.13.2.2. Se si procedesse alla lettura della illustrazione si rileverebbe ancora che vi si fa riferimento a alle emergenze delle perizie penali senza fare alcuna indicazione specifica di esse ai sensi dell'art. 366 n. 6 c.p.c. b si sostiene che non vi [fosse] alcuna prova che il Pr. fosse a conoscenza della franosità intrinseca del monte XXXXXXX, né, tanto meno, che la relazione tecnica dell'Ispettorato Dipartimentale delle Foreste di Napoli fosse mai pervenuta alla Commissione edilizia comunale, di cui il Pr. faceva parte”, e ciò nuovamente senza dire dove e come tale mancanza di prova si fosse evidenziata, con nuova violazione dell'art. 366 n. 6 c.p.c. tanto più rilevante, perché della questione probatoria non vi è traccia nella sentenza impugnata c si prospetta la questione che il Pr. era un libero professionista e non un dipendente comunale, nei cui confronti non operava l'art. 28 Cost., nuovamente senza precisare se e dove la circostanza non esaminata affatto dalla sentenza fosse stata introdotta nelle fasi di merito, donde nuovamente l'inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c Il motivo, o meglio i motivi, sarebbero, dunque, anche inammissibili per inosservanza di tale norma. Si rileva ancora che nemmeno si scorge nell'illustrazione una chiara distinzione fra le attività assertive di ciascuno dei tre motivi. p.14. Il ricorso incidentale, stante l'inammissibilità di alcuni motivo ed il rigetto di altri, dev'essere, dunque, rigettato. p.15. Deve provvedersi sulle spese del giudizio di cassazione. Si ravvisa una soccombenza a carico sia del ricorrente principale, sia del ricorrente incidentale. Tale soccombenza è, però, riferibile ai resistenti rispetto a ciascuno dei due ricorsi. Va tenuto conto, tuttavia, che, nel rapporto processuale fra il Comune di Gragnano ed il Pr. , costui aveva chiesto anche il rigetto del ricorso del Comune per taluni motivi, per altri aveva aderito a quelli del Comune, e che quello complesso suo proprio in parte appariva contestare non solo la propria ma anche la responsabilità del Comune. Ne segue che le spese riguardo a tale rapporto processuale possono compensarsi, dato che i due ricorrenti per gran parte postulavano una riforma della sentenza per beneficiarne entrambi. Nel rapporto processuale fra il Comune e gli eredi P. , ritiene il Collegio di far luogo alla compensazione delle spese, atteso che sostanzialmente l'impugnazione del Comune non era rivolta contro la statuizione della sentenza che aveva visto esclusa la responsabilità del de cuius ne discende che i P. e la I. non avevano un sostanziale interesse a resistere al ricorso, essendo stata loro notificata l'impugnazione ai sensi dell'art. 332 c.p.c. Tanto giustifica l'esistenza di giusti motivi per la compensazione delle spese, attesa anche la posizione rivestita dal de cuius in seno all'ente territoriale. Analoga valutazione deve farsi riguardo all'ANAS, giacché impugnazione nei suoi riguardi risultava notificata solo ai sensi dell'art. 332 c.p.c Nel ricorso incidentale proposto dal Pr. ha resistito soltanto l'ANAS, ma anche in questo caso l'impugnazione incidentale era stata notificata sostanzialmente ai sensi dell'art. 332 c.p.c., onde ricorrono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese anche riguardo al relativo rapporto processuale. Nel rapporto processuale fra il Pr. e gli altri resistenti avverso il ricorso principale non essendosi costituito alcun rapporto processuale con essi, per non avere essi resistito al ricorso del Pr. , non dee farsi luogo a statuizione sulle spese. Vanno, invece, poste a carico del Comune le spese a favore dei controricorrenti di cui è capofila la B. , mente non è luogo a provvedere sulle spese riguardo ai rapporti con gli intimati no costituitisi. Le spese si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 140 del 2012. P.Q.M. La Corte, riuniti ricorsi, li rigetta entrambi. Condanna il Comune di Gragnano alla rifusione in favore dei resistenti di cui è capofila B.L. delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro dodicimiladuecento, di cui duecento per esborsi, oltre accessori come per legge. Compensa le spese del giudizio di cassazione riguardo a tutti i rapporti processuali fra il Comune e gli altri resistenti al suo ricorso. Nulla per le spese riguardo a tale ricorso nel rapporto fra Comune e gli intimati che non hanno resistito. Compensa le spese del giudizio di cassazione fra il Pr. e l'Anas. Nulla per le spese nel rapporto fra il Pr. ed i soggetti intimati con il suo ricorso e che non hanno resistito.