Espressioni offensive negli atti processuali: a decidere è il giudice che le legge

Competente ad accertare e liquidare il danno derivante dall’uso di espressioni offensive contenute negli atti del processo è lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge giudizio nel quale sono state usate le espressioni stesse, ma ci sono delle eccezioni.

Lo ha affermato il Tribunale di Reggio Emilia con la sentenza n. 156/2013 del 24 gennaio. Il caso. Una donna conveniva in giudizio il marito separato, per ottenere la sua condanna a risarcire il danno non patrimoniale derivante dall’utilizzo di espressioni ritenute diffamanti - in quanto relative a pretesi comportamenti sessualmente disinvolti della moglie - nell’ambito delle difese presentate nel corso del giudizio di separazione. L’uomo, a sua volta, propone domanda riconvenzionale per ottenere il risarcimento del danno asseritamente patito a seguito del comportamento, ritenuto violativo dei precetti normativi, tenuto dalla moglie nel corso della vita matrimoniale. Espressioni offensive negli atti del processo? È competente il giudice dinanzi al quale si svolge giudizio. Il Tribunale di Reggio Emilia, condividendo la pacifica giurisprudenza della Corte di legittimità, ha affermato che competente ad accertare e liquidare il danno derivante dall’uso di espressioni offensive contenute negli atti del processo, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., è lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge giudizio nel quale sono state usate le suddette espressioni . A tale competenza funzionale, si precisa nel dispositivo, si può derogare solo in quattro ipotesi le espressioni offensive sono contenute in atti del processo di esecuzione, che per sua natura non può avere per oggetto un’azione di cognizione se sono contenute in atti di un processo di cognizione che non si conclude con un provvedimento decisionale, come nel caso di estinzione allorquando i danni si manifestano in uno stadio processuale in cui non è più possibile farli valere tempestivamente, come nel caso di frasi contenute in comparsa conclusionale o, infine, la domanda di risarcimento viene proposta nei confronti non della parte, bensì del suo difensore. Le espressioni asseritamente diffamatorie sono state pronunciate in un processo di cognizione e non esecutivo. Pertanto, nel caso in esame, non configurandosi nessuna delle quattro eccezioni indicate, la domanda attorea deve essere dichiarata inammissibile, atteso che avrebbe dovuto essere proposta davanti al giudice della separazione.

Tribunale di Reggio Emilia, sentenza 24 gennaio 2013, n. 156 Dott. Gianluigi Morlini Fatto e diritto - Rilevato che, promuovendo la presente controversia, l’attrice XXX conviene in giudizio il marito separato YYY, onde ottenere la sua condanna a risarcire il danno non patrimoniale derivante dall’utilizzo di espressioni ritenute diffamanti in quanto relative a pretesi comportamenti sessualmente disinvolti della moglie nell’ambito delle difese presentate nel corso del giudizio di separazione, ed in particolare nell’ambito della discussione di un’istanza ex art. 8 L. n. 154/2001. Resiste YYY, a sua volta proponendo domanda riconvenzionale per ottenere il risarcimento del danno asseritamente patito a seguito del comportamento, ritenuto violativo dei precetti normativi, tenuto dalla moglie nel corso della vita matrimoniale. All’odierna udienza di discussione, il Giudice ha invitato le parti, ex art. 101 c.p.c., a prendere posizione in ordine al fatto che le espressioni offensive ex art. 89 c.p.c. vadano o meno necessariamente vagliate dallo stesso Giudice davanti al quale sono state proferite - Ritenuto che, secondo la pacifica giurisprudenza della Corte di legittimità, che questo Giudice condivide e dalla quale non ha motivo di discostarsi, competente ad accertare e liquidare il danno derivante dall’uso di espressioni offensive contenute negli atti del processo, ai sensi dell’articolo 89 c.p.c., è lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge giudizio nel quale sono state usate le suddette espressioni, ed a tale competenza funzionale si può derogare solo in quattro ipotesi allorquando le espressioni offensive siano contenute in atti del processo di esecuzione, che per sua natura non può avere per oggetto un’azione di cognizione allorquando esse siano contenute in atti di un processo di cognizione che non si conclude con un provvedimento decisionale, come nel caso di estinzione allorquando i danni si manifestano in uno stadio processuale in cui non è più possibile farli valere tempestivamente, come nel caso di frasi contenute in comparsa conclusionale allorquando infine la domanda di risarcimento sia proposta nei confronti non della parte, bensì del suo difensore Cass. n. 16121/2009, Cass. n. 10916/2001, Cass. n. 11617/1992 . Poiché nel caso che qui occupa non si è in presenza di nessuna delle quattro eccezioni sopra indicate atteso che le espressioni asseritamente diffamatorie sono state pronunciate in un processo di cognizione e non esecutivo, che detto processo non si è estinto, che le espressioni stesse sono state verbalizzate in udienza e non sono quindi contenute nella comparsa conclusionale, che l’istanza risarcitoria è stata proposta nei confronti della parte e non del difensore , la domanda attorea deve essere dichiarata inammissibile, atteso che avrebbe dovuto essere proposta davanti al giudice della separazione. Ciò consente di ritenere assorbite la questione di merito relativa al fatto che le espressioni siano o meno funzionalmente collegate al sostegno della tesi prospettata dalla parte, tenuto conto del fatto che si verteva in una controversia di separazione con richiesta di addebito e che il comportamento sessuale dei coniugi era al centro delle difese di entrambe le parti - Considerato che, inammissibile, oltre che la domanda attorea, è anche la domanda riconvenzionale di parte convenuta. In proposito, si osserva che la domanda riconvenzionale, per essere ammissibile, ex art. 36 c.p.c. deve dipendere dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione”. Così non è nel caso che qui occupa, atteso che il titolo dedotto in giudizio è una pretesa responsabilità per avere pronunciato espressioni asseritamente sconvenienti ed offensive ex art. 89 c.p.c. nell’ambito di una controversia giurisdizionale, mentre la riconvenzionale attiene alla differente e distinta problematica di un preteso danno asseritamente subìto a seguito del comportamento tenuto in costanza di matrimonio, con la conseguenza che nessun collegamento oggettivo lega le domande principali e riconvenzionali, ciò che solo può giustificare il simultaneus processus in assenza di dipendenza dei titoli cfr. per tutte Cass. n. 15271/2006 . Ne deriva, come detto, che prima ancora che infondata nessun elemento agli atti comprova infatti un inadempimento dell’attrice ai doveri familiari, e meno che meno un danno subìto da parte del convenuto , la domanda risarcitoria formulata dalla difesa del convenuto è inammissibile - Osservato che, la reciproca soccombenza, derivante dal fatto che sono state dichiarate inammissibili sia la domanda principale sia la domanda riconvenzionale, impone la compensazione tra le parti delle spese di lite ex art. 92 comma 2 c.p.c. P.Q.M. il Tribunale di Reggio Emilia in composizione monocratica definitivamente pronunciando, nel contraddittorio tra le parti, ogni diversa istanza disattesa - dichiara inammissibile la domanda attorea - dichiara inammissibile la domanda riconvenzionale - compensa integralmente tra le parti le spese di lite.