I residui della lavorazione di marmo sono rifiuti inquinanti e obbligano alla riduzione in pristino

In materia di danno ambientale, al fine di evitare distonie tra il diritto europeo e quello nazionale, si applica il principio della preminenza delle misure di ripristino dello stato dei luoghi.

Nei soli casi in cui ciò non sia possibile, ovvero risulti eccessivamente onerosa l’adozione di misure di riparazione complementare o compensativa, il giudice applica la tutela risarcitoria per equivalente. Il titolare di una discarica non autorizzata, pertanto, va condannato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente nei confronti dello Stato. Con la sentenza n. 22382 del 10 dicembre 2012, la Terza sezione Civile della Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di riparazione del danno ambientale causato dal mantenimento, per lungo tempo, di un deposito di rifiuti non autorizzato, costituito da residui della lavorazione del marmo, chiarendo come, anche alla luce della normativa europea, la tutela reale è quella più idonea a garantire l’effettività dei risultati. Il caso. Con atto di citazione del 20 marzo 2003, l’Amministrazione comunale aveva chiesto di essere risarcita per i danni provocati dalla società di lavorazione di marmi che, già condannata in sede penale, per lungo tempo aveva mantenuto un deposito di rifiuti non autorizzato all’interno del proprio territorio. La domanda era stata accolta dal Tribunale, che aveva condannato il legale rappresentante della società all’immediata rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti dello stesso avviso era risultata la decisione della Corte di appello successivamente adita, che aveva evidenziato come era irrilevante che l’Ente avesse avanzato la richiesta di esecuzione in forma specifica solo in sede di precisazione delle conclusioni, potendo la stessa essere disposta anche d’ufficio, ex art. 18, legge 349/1986. Tuttavia, aveva aggiunto la Corte territoriale, mentre la prova del danno non patrimoniale per la lesione dell’ambiente naturale doveva considerarsi in re ipsa, per quello patrimoniale in senso stretto doveva sussistere apposita allegazione, non fornita dal Comune, il cui appello incidentale veniva, pertanto, ugualmente respinto. Anche il giudizio di legittimità ha confermato le sorti della vicenda, respingendo sia il ricorso principale formulato dalla società di marmi, sia quello incidentale proposto dall’Ente leso. Danno all’ambiente. In via preliminare, la Suprema Corte ha chiarito che i residui della lavorazione di marmo ed affini sono da considerare rifiuti inquinanti, ancorchè non pericolosi, ove non sottoposti ad un’operazione di recupero ambientale, né rispettosi dei requisiti tecnici per gli scopi specifici e dei valori limite per sostanze inquinanti previsti dalla vigente normativa. Forme di risarcimento. Dopo aver brevemente ripercorso gli interventi legislativi succedutesi nel tempo in materia di danno ambientale, i giudici della legittimità hanno evidenziato come colui che arrechi danno all’ambiente alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato. Il legislatore del 2009, infatti, ha privilegiato la tutela reale a quella per equivalente, uniformandosi alle direttive europee, pur avendo del tutto ignorato, così come in passato, il problema squisitamente processuale del rapporto tra la domanda di riduzione in pristino e quella di risarcimento per equivalente. Tuttavia, ad avviso della Corte, il problema può essere risolto attraverso l’esegesi dell’art. 12, comma 1, legge n. 166/2009, di conversione del d.l. n. 135/2009, il quale depone per la tesi della potenziale officiosità dell’ordine di ripristino. Sulla scorta di tali premesse, appare evidente che la richiesta di tutela reale deve sempre e comunque considerarsi insita nella domanda di risarcimento del danno ambientale. Onere probatorio. In tema di onere della prova, la Corte ha altresì chiarito che la lesione dell’ambiente in sé, è risarcita in forma specifica dall’ordine di riduzione in pristino, per cui non vi è necessità di prova da parte dello Stato. Al contrario, le pretese risarcitorie connesse a pregiudizi, economicamente valutabili, subiti da singoli beni, presuppongono l’assolvimento di un onere di allegazione e prova che, ove non adempiuto, comporta il rigetto della domanda.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 5 novembre - 10 dicembre 2012, n. 22382 Presidente Massera – Relatore Amendola Svolgimento del processo I fatti di causa possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata. Con citazione notificata il 20 marzo 2003 il Comune di Bolgare convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Bergamo Marmi Mecca s.r.l. nonché, in proprio, P B. , legale rappresentante della stessa. Espose che il B. era stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per reati di carattere ambientale commessi fino a tutto il 16 giugno 1999. Rilevò che tali condotte, consistite nella realizzazione e nel mantenimento per lungo tempo di un deposito di rifiuti non autorizzato, gli avevano cagionato danni. Dei relativi pregiudizi chiese, pertanto, di essere risarcito. Costituitisi in giudizio, P B. e Marmi Mecca s.r.l. contestarono le avverse pretese. Con sentenza del 26 giugno 2008 il giudice adito ordinò ai convenuti di procedere all'immediata rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, respingendo ogni altra domanda. Proposto gravame principale da P B. e da Marmi Mecca s.r.l., e incidentale dal Comune di Bolgare, la Corte d'appello di Brescia, in data 7 ottobre 2009, li ha respinti entrambi. Nel motivare il suo convincimento ha osservato il giudice di merito 1 che correttamente il Tribunale aveva ritenuto irrilevante la sentenza penale in data 5 marzo 2002, che aveva assolto il B. dalle imputazioni ascrittegli, riguardando la stessa fatti successivi a quelli per i quali il Comune di Bolgare aveva agito in giudizio 2 che il consulente tecnico, sia nella relazione depositata il 21 febbraio 2006, sia nell'integrazione e nei successivi chiarimenti aveva accertato che il sito era interessato, per profondità e spessori variabili, dalla presenza di rifiuti prevalentemente derivati dalla lavorazione del marmo, concludendo per la necessità di un intervento di bonifica 3 che nell'inquinamento del terreno, rispetto all'utilizzo previsto dal PRG, consisteva il danno ambientale lamentato dall'Ente territoriale 4 che nessuna contraddizione era ravvisabile nel fatto che il giudice di prime cure aveva accolto la domanda di ripristino dello stato dei luoghi, mentre aveva rigettato quella di risarcimento del pregiudizio patrimoniale 5 che era irrilevante che l'Ente avesse avanzato la richiesta di esecuzione in forma specifica solo in sede di precisazione delle conclusioni, potendo la stessa essere disposta dal giudice anche d'ufficio, ex art. 18 legge n. 349 del 1986, in deroga al principio della domanda 6 che la lesione dell'ambiente naturale, bene pubblico di rango costituzionale, faceva sorgere in capo alle amministrazioni preposte il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale derivatone, danno la cui prova doveva ritenersi in re ipsa, a differenza di quello patrimoniale in senso stretto, il quale andava invece dimostrato 7 che il ripristino della situazione preesistente poteva non esaurire il novero delle lesioni sofferte dall'istante, ma, in tal caso, occorreva la prova del concreto pregiudizio economico subito, prova che nella specie non era stata fornita. Avverso detta pronuncia ricorrono per cassazione B.P. e Marmi Mecca s.r.l., formulando cinque motivi. Resiste il Comune di Bolgare, che proporne altresì ricorso incidentale affidato a un solo mezzo, al quale hanno, a loro volta, replicato, con altro controricorso B.P. e Marmi Mecca s.r.l Entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione 1 Il ricorso principale. 2.1 Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione dell'art. 186 del decreto legislativo n. 152 del 2006, come modificato dal d.l. n. 208 del 2008, convertito nella legge n. 13 del 2009, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., i ricorrenti vengono qui a sostenere che il giudice di merito avrebbe fatto malgoverno degli esiti degli accertamenti peritali. Rilevano segnatamente che, nella relazione depositata il 10 gennaio 2008, il consulente tecnico d'ufficio aveva affermato che i risultati analitici su tutti i campioni di terreno prelevati avevano confermato che gli stessi risultavano conformi alla normativa per i siti a verde pubblico privato e residenziale. Da tanto conseguirebbe, secondo gli esponenti, l'illegittimità della sentenza di condanna alla rimozione del materiale rinvenuto nel sottosuolo, atteso che lo stesso, parificato ex lege alle terre e rocce da scavo poteva legittimamente rimanere in loco. Aggiungono che, in ogni caso, mancava del tutto la prova che il predetto materiale fosse riconducibile ad attività di Marmi Mecca s.r.l. e non, piuttosto, dei precedenti utilizzatori del sito. 2.2 Con il secondo mezzo i ricorrenti lamentano violazione della normativa in materia di risarcimento del danno ambientale, di cui alla legge n. 349 del 1986 e al d.lgs. n. 152 del 2006, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Deducono che erroneamente il giudice di merito avrebbe ritenuto applicabile alla fattispecie il disposto dell'art. 18 della legge n. 349 del 1986. In ogni caso, aggiungono, non poteva il decidente ignorare che il d.lgs. n. 152 del 2006, come modificato dal d.l. n. 208 del 2008 e relativa legge di conversione n. 13 del 2009, aveva escluso la parificabilità tout court ai rifiuti dei residui di lavorazione, ammettendone la riutilizzazione nel ciclo produttivo. Ribadiscono quindi che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di merito nessun elemento consentiva di ricondurre a Marmi Mecca s.r.l., rimasta estranea al giudizio penale e al signor P B. il materiale rinvenuto nel sottosuolo. 2.3 Con il terzo motivo, prospettando vizi motivazionali, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., i ricorrenti evidenziano che la Corte territoriale, nel negare ogni rilevanza alla sentenza del Tribunale di Bergamo, sez. dist. di Grumello del Monte, che aveva assolto il B. dalle imputazioni relative a condotte poste in essere dopo il 19 giungo 1999, aveva contraddittoriamente affermato che si trattava della valutazione di due comportamenti tra loro successivi, ancorché del medesimo tenore e accaduti nello stesso luogo. Cosi argomentando, non avrebbe il decidente considerato che la sentenza assolutaria, proprio perché relativa a fatti successivi, consentiva di ritenere superati quelli precedenti che avevano portato alla condanna del B. , la cui assoluzione era segnatamente intervenuta perché Marmi Mecca aveva ormai ripristinato i luoghi. In ogni caso, aggiungono, la sentenza penale di condanna non si riferiva in alcun modo ad attività di deposito di materiali nel sottosuolo, bensì solo ad attività di raccolta in superficie. 2.4 Con il quarto mezzo gli impugnanti denunciano omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento alla interpretazione delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. Evidenziano che, ritenendo il terreno inquinato, rispetto all'utilizzo previsto dal PRG, la Corte territoriale avrebbe travisato gli esiti dell'accertamento peritale. L'esperto aveva invero escluso ogni forma di inquinamento, posto che i risultati delle analisi su tutti i campioni di terreno prelevati apparivano conformi agli standard richiesti dalla normativa per siti a verde pubblico privato e residenziale confr. pag. 11 relazione integrativa depositata il 10 gennaio 2008 . 2.5 Con il quinto motivo lamentano violazione degli artt. 112, 183 e 189 cod. proc. civ., 2043 e 2058 cod. civ., nonché nullità della sentenza per inammissibile mutatio libelli in sede di precisazione delle conclusioni, ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ. Rilevano che nell'atto introduttivo del giudizio l'attore aveva chiesto il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dal Comune di Bolgare, da liquidarsi anche in via equitativa e quindi esclusivamente per equivalente, ex art. 2058 cod. civ., laddove in sede di precisazione delle conclusioni, modificando la domanda, aveva insistito per la condanna dei convenuti al ripristino dello stato dei luoghi. I giudici di merito avevano sul punto ritenuto infondate le eccezioni dei convenuti volte a far valere la tardività della richiesta, sulla base dell'assunto che il risarcimento del danno in forma specifica poteva essere disposto anche d'ufficio. Ma tali affermazioni contrastavano con il consolidato orientamento del Supremo Collegio, secondo cui, a fronte di una domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno per equivalente, quella volta a ottenere il risarcimento del danno in forma specifica integra una vera e propria mutatio libelli. 3 Il primo, il secondo e il quarto motivo di ricorso, che si prestano a essere esaminati congiuntamente per la loro intrinseca connessione, sono infondati per le ragioni che seguono anzitutto di palmare evidenza che le critiche, nella parte in cui denunciano il malgoverno degli esiti della compiuta istruttoria, e segnatamente delle risultanze della consulenza tecnica, sono volte a sollecitare una rivalutazione dei fatti e delle prove, preclusa in sede di legittimità. Valga al riguardo considerare che il presente giudizio è stato incardinato dopo che il B. era stato condannato per reati di carattere ambientale e segnatamente perché, quale presidente del consiglio di amministrazione di Marmi Mecca s.p.a., aveva costituito e mantenuto un deposito di rifiuti non autorizzato. A ciò aggiungasi che la condanna dei convenuti al ripristino dello stato dei luoghi è stata dal giudice di merito pronunciata all'esito di una complessa e articolata istruttoria, fatta di allegazioni documentali, prove per testi e indagini peritali. Segnatamente l'assunto di un preteso travisamento delle conclusioni dell'esperto, già sostenuto in sede di gravame, è stato argomentatamente smentito dalla Corte d'appello, che ha pedissequamente riportato i passi salienti dell'elaborato peritale, inequivocabilmente volti a qualificare l'area occupata dalla società convenuta come sito inquinato da rifiuti, ancorché non pericolosi in quanto derivanti dalla lavorazione di marmo e prodotti affini. 4 È il caso di aggiungere, per completezza, che le censure investono una questione di stretto merito anche laddove sono volte a prospettare la non imputabilità della condotta inquinante a Marmi Mecca s.p.a., per essere essa subentrata nell'esercizio dell'attività produttiva ad altre imprese, che in precedenza avevano operato nel medesimo luogo. A prescindere, invero, dalla novità della deduzione, non trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, e quindi inammissibile, in difetto di qualsivoglia allegazione volta a dimostrare che invece essa era già compresa nel thema decidendum del giudizio di gravame, non par dubbio che la positiva valutazione del fondamento della domanda attrice ha comportato la verifica, in via preliminare, della correttezza della individuazione nei convenuti degli autori del damnum iniuria datum di cui l'Ente territoriale è venuto a chiedere il ristoro, di talché le critiche volte a riaprire questo fronte di indagine sono irrimediabilmente precluse. 5 Sotto altro, concorrente profilo, va poi osservato che la qualificazione in termini di residui provenienti dall'estrazione di marmi e pietre, residui equiparati dal primo comma dell'art. 186 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, alle terre e rocce da scavo, del materiale che i convenuti sono stati condannati a rimuovere, non sarebbe in ogni caso idoneo a ribaltare tout court l'esito del giudizio. E invero la norma richiamata dai ricorrenti prevede, si, la possibilità di reimpiego delle terre e rocce da scavo, quali sottoprodotti, per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati, ma a condizione che, siano impiegate direttamente nell'ambito di opere o interventi preventivamente individuati e definiti sin dalla fase della produzione vi sia certezza dell'integrale utilizzo questo sia tecnicamente possibile senza necessità di preventivo trattamento o di trasformazioni preliminari sia garantito un elevato livello di tutela ambientale la sussistenza dei predetti requisiti sia accertata dall'autorità competente nei modi e nelle forme prescritte, con l'ulteriore e decisivo corollario che le terre e le rocce da scavo, ove non trattate nel rispetto delle condizioni predette, sono sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti. A siffatta disciplina devono dunque ritenersi soggetti anche i residui provenienti dall'estrazione di marmi e pietre, i quali, peraltro, quando siano sottoposti a un'operazione di recupero ambientale, devono altresì soddisfare i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispettare i valori limite, per eventuali sostanze inquinanti presenti, previsti nell'Allegato 5 alla parte TV del decreto legislativo n. 152 del 2006. Ed è significativo che la ricorrenza di siffatte condizioni non sia stata mai neppure dedotta dagli impugnanti. 6 Prive di pregio sono anche le censure svolte nel terzo mezzo, le quali ruotano intorno alla portata assolutoria degli accertamenti posti a base della sentenza penale del Tribunale di Bergamo del marzo 2002, accertamenti che avrebbero imposto e imporrebbero di ritenere superati i fatti costitutivi della pretesa azionata. Trattasi di critiche gravemente carenti sotto il profilo dell’autosufficienza. L’argomentazione difensiva ad essa sottesa è stata invero già esaminata nel giudizio di merito e ritenuta non conducente in ragione della posteriorità dei fatti oggetto della sentenza del Tribunale, rispetto a quelli sanzionati dalla Corte d'appello di Brescia. Ne deriva che gli esponenti, al fine di consentire alla Corte il preliminare apprezzamento sulla decisività delle censure, avrebbero dovuto riportare esattamente i capi di imputazione e i punti salienti dell'iter motivazionale della pronuncia assolutoria, e avrebbero altresì dovuto indicarne l'esatta allocazione nel fascicolo d'ufficio o in quello di parte. Si ricorda, in proposito, che le sezioni unite di questa Corte, pur avendo chiarito che l'onere del ricorrente, di cui all'art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., così come modificato dall'art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, gli atti processuali, i documenti, contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda è soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, mediante la produzione dello stesso, e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione, presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell'art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., hanno tuttavia precisato che resta ferma, in ogni caso, l'esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., del contenuto degli atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari al loro reperimento confr. Cass. civ. 3 novembre 2011, n. 22726 . Nella fattispecie, invece, per come innanzi evidenziato, siffatto contenuto espositivo del ricorso è del tutto omesso, con conseguente inammissibilità della censura. 7 Neppure giovano agli esponenti i rilievi critici formulati nel quinto motivo, rilievi volti a far valere l'illegittimità della loro condanna al ripristino dello stato dei luoghi, per essere stata la relativa domanda avanzata solo in sede di precisazione delle conclusioni. Non ignora il collegio che questa Corte ha ripetutamente affermato che il risarcimento del danno per equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica cofr. Cass. civ. 8 marzo 2006, n. 4925 Cass. civ. 15 luglio 2005, n. 15021 Cass. civ. 25 luglio 1997, n. 6985 , il che, specularmente, comporta che questo, essendo, a sua volta, qualcosa di più rispetto al primo, è, come tale, soggetto alle preclusioni che presiedono alla formazione del thema decidendum, se non addirittura al regime della domanda nuova confr. Cass. civ. 5 marzo 1988, n. 2300 . Ritiene tuttavia la Corte che, con riferimento al danno ambientale, la praticabilità processuale della condanna al ripristino dello stato dei luoghi o al risarcimento per equivalente si presti a essere ripensata alla luce dell'assetto tutt'affatto peculiare che la materia ha ricevuto nel nostro ordinamento. 8 Va al riguardo anzitutto evidenziato che in epoca immediatamente precedente alla pubblicazione della sentenza impugnata la materia delle tutele attivabili in caso di danno all'ambiente è stata rivista dal legislatore. E invero il decreto legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito con modificazioni nella legge 20 novembre 2009 n. 166, al fine di adeguare l'ordinamento nazionale alla direttiva 2004/35/Ce e all'esito della procedura di infrazione n. 2007/4679 ai sensi dell'art. 226 del Trattato CE , attivata in ragione della esclusione, dalla disciplina della responsabilità ambientale, delle situazioni di inquinamento rispetto alle quali fossero già avviate le procedure di bonifica, della limitazione dell'obbligo di riparazione ai soli danni causati da comportamenti dolosi o colposi e dell'ammissibilità del risarcimento del danno ambientale in forma pecuniaria, mentre la direttiva prevede principalmente misure di ripristino dello stato dei luoghi, ha aggiunto al primo comma della lett. f dell'art. 303 del d.lgs. n. 152 del 2006, il seguente periodo i criteri di determinazione dell'obbligazione risarcitoria stabiliti dall'art. 311, commi 2 e 3, si applicano anche alle domande di risarcimento proposte o da proporre ai sensi della L. 18 luglio 1986, n. 349, art. 18, in luogo delle previsioni dei commi 6, 7 e 8 del citato art. 18, o ai sensi del titolo 9 del libro A del codice civile o ai sensi di altre disposizioni non aventi natura speciale, con esclusione delle pronunce passate in giudicato ai predetti giudizi trova, inoltre, applicazione la previsione dell'art. 315 del presente decreto” L'art. 311, a sua volta, dopo aver previsto al primo comma che il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio agisce . per il risarcimento del danno in forma specifica e, se è necessario, per equivalente patrimoniale, stabilisce, al secondo che, chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o in spregio a norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato. 9 Ora, la prima peculiarità della disciplina sopravvenuta sta nel fatto che essa si applica anche alle domande già proposte, con il solo limite, affatto scontato, dei giudizi ormai definiti con sentenza passata in giudicato confr. Cass. civ. 9 febbraio 2011, n. 6551 . Ne deriva che la tenuta della decisione impugnata deve essere verificata con riferimento al nuovo assetto normativo, anche se l'esegesi della fonte applicabile, ai fini che qui interessano, non può non giovarsi dell'analisi della disciplina preesistente e dei profili critici ai quali aveva dato luogo la sua applicazione. F, in proposito non può non sfuggire che il legislatore del 2009, nell'ottica di una normazione che aveva ed ha chiaramente per destinatario il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio nel quale sono state ora centralizzate le azioni risarcitorie per danno all'ambiente, mostra di privilegiare la tutela reale, quale forma ontologicamente più idonea di quella per equivalente a garantire l'effettività dei risultati della reazione del soggetto leso dal lamentato danno ambientale e della risposta giudiziaria che ne riconosca il fondamento. 10 Convalida tale lettura il già evidenziato contesto in cui sono stati emanati il decreto legge n. 135 del 2009 e la successiva legge di conversione n. 166 dello stesso anno, intervenuti, per quanto testé detto, all'esito della procedura di infrazione n. 2007/4679, con la quale era stato segnatamente sanzionata l'ammissibilità del risarcimento del danno ambientale in forma pecuniaria, laddove la direttiva 2004/35/CE prevede principalmente misure di ripristino dello stato dei luoghi. Ne deriva che, ancorché la nuova disciplina ignori del tutto - al pari, del resto, di quella preesistente - il problema squisitamente processuale del rapporto tra domanda di riduzione in pristino id est, di risarcimento in forma specifica e domanda di risarcimento per equivalente, significativi spunti di riflessione possono tuttavia trarsi dalla non occulta intenzione del legislatore art. 12, primo comma . 11 E in proposito non può non sfuggire che quello del 1986, dopo avere dettato i criteri di quantificazione del danno, secondo una logica sottilmente punitiva - evidenziata dal riferimento alla gravità della colpa individuale e al profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento - apriva al giudice la facoltà di disporre nella sentenza di condanna, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile. L'allocazione della norma e il carattere asciutto del dettato, privo di qualsivoglia riferimento al contenuto dell'azione proposta dallo Stato o dall'ente territoriale di volta in volta legittimato art. 18, comma 3 , rendono la tesi della potenziale officiosità dell'ordine di ripristino - e cioè del risarcimento in forma specifica - assai meno stravagante di quanto possa a prima vista sembrare. in realtà, la norma appare scritta sul postulato di fondo che la richiesta di tutela reale debba sempre e comunque considerarsi insita nella domanda di risarcimento del danno ambientale. E una volta adottata tale prospettiva, già intravista dalla più avveduta dottrina, non può non attribuirsi un carattere sostanzialmente liquido alla scelta operata dalla parte attrice nell'atto introduttivo del giudizio, di talché il passaggio dalla richiesta di tutela per equivalente a quella reale, in chiave sollecitativa di una facoltà riconosciuta al giudice, mal si presterebbe a essere imbrigliato nell'armatura delle preclusioni processuali. 12 Siffatto approdo esegetico è confermato, a giudizio del collegio, dal tenore del secondo comma dell'art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006, come riscritto dal legislatore del 2009, norma che, circoscrivendo l'operatività della tutela risarcitoria per equivalente ai soli casi in cui l’effettivo ripristino o l'adozione di misure di riparazione complementare o compensativa risultino in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi dell'articolo 2058 del codice civile o comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, colloca tout court il risarcimento per equivalente in posizione gradata rispetto alla tutela reale. 13 Peraltro l'applicazione delle norme di rito in chiave preclusiva della possibilità di accedere alle misure ripristinatorie non sarebbe conforme al criterio dell'interpretazione adeguatrice elaborato dalla giurisprudenza comunitaria e ripetutamente accolto da questa Corte. Non par dubbio infatti che, al fine di evitare il più possibile distonie tra diritto Europeo e diritto interno, i principi del primo - come, nella fattispecie, il principio della preminenza delle misure di ripristino dello stato dei luoghi, contenuto nella Direttiva 2004/35/CE - influenzano l'interpretazione di tutto il diritto nazionale anche se non di diretta derivazione comunitaria confr. Corte di giustizia C-404/2006, Quelle Cass. civ. sez. un. 17 novembre 2008, n. 27310 Cass. civ. 22 febbraio 2012, n. 2 632 . Di qui la necessità di interpretare la disciplina processuale in modo che non ne risulti inibito il perseguimento degli obbiettivi e delle priorità sancite dalla normativa comunitaria. Il ricorso principale deve, pertanto, essere rigettato. 14 Il ricorso incidentale Nell'unico motivo il Comune di Bolgare deduce violazione dell'art. 18 della legge n. 349 del 1986, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Secondo l'esponente, affermando che l'Amministrazione non aveva addotto specifici elementi di danno né aveva fornito la prova degli stessi, il giudice di merito avrebbe fatto malgoverno della norma innanzi citata la quale si riferisce al danno all'ambiente genericamente inteso. Evidenzia che neppure la condanna alla rimozione dei rifiuti poteva elidere la sussistenza di siffatto pregiudizio, considerato che un danno al patrimonio ambientale collettivo era stato comunque inferto dall'abbandono incontrollato delle scorie, iniziato nell'anno 1999 e tuttora in corso. Del resto, aggiunge, il danno all'ambiente costituisce lesione di un bene costituzionalmente protetto, che non può essere quantificato sulla base dei criteri generalmente valevoli per la dimostrazione di un concreto pregiudizio economico. 15 Le censure sono destituite di fondamento per le ragioni che seguono. Va all'uopo anzitutto evidenziato che il giudice di merito, nell'interpretazione della domanda giudiziale, che è attività ermeneutica preliminare ad ogni altra, ha qualificato come patrimoniale il danno del quale il Comune aveva chiesto, senza ottenerlo, il ristoro, così distinguendolo dalla lesione in sé dell'ambiente, lesione risarcita invece, in forma specifica, dall'ordine di riduzione in pristino. L'esegesi risulta correttamente improntata ai risultati di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che, valorizzati i risvolti economici del danno all'ambiente, atteso che, come a suo tempo ebbe a rimarcare la Corte costituzionale, la distruzione, il deterioramento, l'alterazione e, in genere, la compromissione di siffatto bene importa di regola oneri pecuniari confr. Corte cost. n. 641 del 1987 , ha opportunamente distinto tra esigenze riparatorie della lesione, esigenze perseguite attraverso la riduzione in pristino, e pretese risarcitorie connesse a pregiudizi, economicamente valutabili, subiti da singoli beni confr. Cass. civ. 17 aprile 2008, n. 10118 Cass. civ. 10 ottobre 2008, n. 25010 . Ma il ristoro di siffatti danni presuppone l'assolvimento di un onere di allegazione e prova che, nella fattispecie, il giudice di merito ha ritenuto inadempiuto. Ne deriva che i rilievi critici svolti dal Comune - rilievi con i quali l'Ente reitera che l'abbandono incontrollato di rifiuti per un lungo arco temporale lo ha pregiudicato, senza confutare le affermate carenze deduttive e probatorie poste a base della scelta decisoria adottata - sono, in definitiva, generici e aspecifici, in quanto privi della necessaria correlazione con la ratio decidendi del provvedimento impugnato. 16 In definitiva entrambi i ricorsi appaiono destinati al rigetto. La difficoltà delle questioni e l'esito complessivo del giudizio, consigliano di compensarne integralmente le spese tra le parti. P.Q.M. La Corte, pronunciando sui ricorsi riuniti, li rigetta entrambi. Compensa integralmente tra le parti le spese di giudizio.