Società di capitali: gli amministratori di fatto e di diritto sono solidalmente responsabili

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21730/20 depositata l’8 ottobre, si è espressa sull’azione di responsabilità avviata da un curatore nei confronti dei cessati amministratori di fatto e di diritto di una società fallita.

I Giudici di legittimità hanno ribadito, per un verso, che la disciplina della responsabilità degli amministratori delle società di capitali è applicabile anche al c.d. amministratore di fatto, cioè a colui che, pur in assenza di una qualsivoglia investitura formale, abbia esercitato sotto il profilo sostanziale nell’ambito sociale un’influenza che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto per altro, che una correlazione tra le condotte dell'organo amministrativo e il pregiudizio dato dall'intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa così generalizzate da far pensare che, proprio in ragione di esse, l'intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell'insolvenza. Il caso. Il curatore di una società dichiarata fallita conveniva innanzi al Tribunale di Cosenza i due cessati amministratori di diritto” unitamente ai due amministratori di fatto” della stessa chiedendone la condanna al risarcimento del danno causato per oltre euro 2.000.000. Il curatore assumeva in giudizio che, dalle informazioni assunte, i due amministratori di fatto avevano sempre detenuto le scritture contabili e svolto l’attività gestoria. Il Tribunale di Cosenza accoglieva la domanda condannando, però, al risarcimento richiesto i soli amministratori di diritto della società. La Corte d’Appello di Catanzaro, decidendo sul gravame proposto dal curatore, riformava la sentenza di primo grado e disponeva la condanna in solido di tutti gli amministratori di diritto e di fatto della società alla minor somma di circa euro 1.400.000 corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare. Uno degli amministratori di fatto ricorreva per cassazione formulando due motivi di impugnazione a violazione e falsa applicazione degli artt. 2392 e 2476 c.c. nonché dell’art. 146 l.fall. nella parte in cui il secondo giudice aveva ritenuto provata la sua qualità di amministratore di fatto b violazione degli artt. 1223, 1226 e 2043 c.c., nella parte in cui il secondo giudice lo aveva condannato a risarcire il danno nella differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare. La Suprema Corte di Cassazione respinge il ricorso ritenendo entrambi i motivi infondati. Sulla prova dell’amministrazione di fatto della società. Ricorda, in primo luogo, la Suprema Corte che la disciplina della responsabilità degli amministratori delle società di capitali è applicabile anche a coloro che si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita, da parte della società, così individuandosi il c.d. amministratore di fatto cfr. Cass. 12 marzo 2008 n. 6719 cioè quel soggetto che, pur privo di un’investitura formale, eserciti sotto il profilo sostanziale nell’ambito sociale un’influenza che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, sicché può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l’omissione di atti di gestione cfr. Cass. 18 settembre 2017, n. 21567 . Sulla base di siffatto presupposto osservano i Giudici di legittimità che la Corte di Appello ha correttamente accertato la qualità di amministratore di fatto in capo al ricorrente risultando in atti la sua ingerenza nella gestione della società – attraverso le direttive e il condizionamento della scelte operative – non esauritasi nel mero compimento di atti eterogenei ed occasionali, ma avendo avuto caratteri di sistematicità e completezza specie nella conduzione dei rapporti contrattuale e con i dipendenti cfr. Cass. 1° marzo 2016, n. 4045 . Sulla quantificazione del danno arrecato alla massa concorsuale. Chiarito quanto sopra, ritengono poi i Giudici di legittimità che la Corte di Appello di Catanzaro abbia correttamente quantificato anche l’ammontare dei danni subiti dal fallimento nella differenza tra passivo e attivo fallimentare sulla scorta dei principi di cui alla Cass. S.U. 6 maggio 2015, n. 9199. A mente di quest’ultima nell’azione di responsabilità promossa dal curatore ex art. 146 l.fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo. Osservano al riguardo i Giudici di legittimità che una correlazione tra le condotte dell'organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall'intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l'intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell'insolvenza. Nella fattispecie, la Corte d’Appello di Catanzaro aveva, ad avviso degli Ermellini, correttamente quantificato il pregiudizio patrimoniale considerando due elementi i il depauperamento del patrimonio societario determinato dalla condotta dolosa o gravemente colposa degli amministratori in relazione soprattutto al mancato incasso dei crediti e al conseguente mancato reimpiego degli stessi a beneficio della società ii il debito accumulato per le retribuzioni dovute ai dipendenti, che avrebbe potuto essere evitato con la messa in liquidazione della società o con la risoluzione dei rapporti in essere con i dipendenti stessi. Ritiene pertanto la Corte di Cassazione che il criterio di liquidazione adottato prescinde dall'apprezzamento della differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare il danno è infatti stato commisurato per una parte all'accertata colpevole dispersione di elementi dell'attivo patrimoniale, per altra al colpevole protrarsi di un attività produttiva implicante l'assunzione di maggiori debiti della società, a nulla rilevando che l'importo oggetto di liquidazione sulla base di tali criteri sia stato poi ridotto a una minor somma, nella specie corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare, in ragione del limite quantitativo della pretesa fatta valere. Alcune osservazioni sulla figura dell’amministratore di fatto. La giurisprudenza è ormai costante nel ritenere che le norme che disciplinano l'attività degli amministratori di una società di capitali dettate al fine di consentire un corretto svolgimento dell'amministrazione della società, sono applicabili non solo ai soggetti nominati nelle forme stabilite dalla legge alla carica di amministratore, ma anche a coloro che si siano di fatto ingeriti nella gestione della società pur in assenza di qualsivoglia investitura sia pur irregolare o implicita da parte dell'assemblea Cass., 12 marzo 2008, n. 6719 . La medesima giurisprudenza ha altresì chiarito che ai fini dell’estensione delle responsabilità da mala gestio è sufficiente l’accertamento dell’avvenuto inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società ancora Cass., 12 marzo 2008, n. 6719, ove si ritiene congruamente motivata – e insindacabile in sede di legittimità – l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto operata dal giudice di merito sulla base di un triplice ordine di considerazioni, individuate a nella relazione del curatore b nelle dichiarazioni di alcuni dipendenti, da cui sarebbe risultato il ruolo attivo svolto dal [convenuto] nella gestione societaria, pur dopo la cessazione della carica di amministratore unico della società c nel consistente apporto economico da lui prestato in favore dei dipendenti, interpretato come sintomo di un suo diretto interesse nella gestione societaria cfr. anche Cass., 6 marzo 1999, n. 1925 Cass., 14 settembre 1999, n. 9795 nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, v. App. Milano, 4 maggio 2001, in Giur. it., 2002, 419, App. Milano 26 settembre 2000 in Giur. comm., 2000, II, 562 Trib. Milano, 8 marzo 2007, in Giur. it., 2008, 1441 Trib. Torino, 15 aprile 2005, in Giur. it., 2005, 1858 Trib. Torino, 6 maggio 2005, ibidem Trib. Milano, 11 settembre 2003, in Dir. prat. soc., 2003, 23, p. 74 Trib. Torino, 30 maggio 2000, in Fallimento, 2000, p. 1301. Più recentemente, cfr. Trib. Modena 10 settembre 2020, n. 949 ancorché la qualifica di amministratore formale non comporti un automatico giudizio di colpevolezza per violazioni compiute da altri, è comunque pacifico che, a fronte di una investitura formale, sono ricollegabili oneri, obblighi ed attività di gestione che gravavo sull’amministratore. L’accettazione della carica di amministratore comporta necessariamente l’obbligo, in capo al medesimo, di vigilare sul soggetto che di fatto ha gestito la società App. Torino 14 maggio 2020, n. 506 l'amministratore di fatto è responsabile delle condotte commissive e omissive dell'amministratore di diritto essendo tenuto ad impedire, ex art. 40, comma 2, c.p., le condotte illecite riguardanti l'amministrazione della società o a pretendere l'esecuzione degli adempimenti previsti dalla legge. Nel caso di specie, nell'atto di appello l'amministratore di diritto aveva escluso che potesse essere ritenuto responsabile per fatti antecedenti alla sua nomina formale mentre la Corte confermava la decisione del Tribunale ritenendo che alcuna apprezzabile differenza vi era stata tra i periodi nei quali era privo di incarico, quelli in cui aveva conseguito incarichi di amministrazione limitati e quelli nei quali aveva avuto incarichi con poteri più ampi, sino a quando non era divenuto amministratore unico Trib. Milano 10 febbraio 2020, n. 1144 in tema di società, la persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall'esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza. A costoro sono applicabili le norme che disciplinano la responsabilità degli amministratori delle società di capitali in DeJure . In argomento, in dottrina, ABRIANI, Gli amministratori di fatto delle società di capitali, Milano, 1998 CASTAGNAZZO, Voce Amministratore di fatto, in Digesto Commerciale, Aggiornamento, Torino, 2012, 23 ss.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 8 settembre – 8 ottobre 2020, n. 21730 Presidente Cristiano – Relatore Falabella Fatti di causa 1. - Il fallimento omissis s.r.l. evocava in giudizio avanti al Tribunale di Cosenza P.D.S.F. , D.S.F. , C.C. e B.A. il curatore aveva appreso che gli ultimi due amministratori della società non erano mai stati in possesso delle scritture contabili e dei libri obbligatori della medesima e, stando a quanto dichiarato da questi ultimi, tutta l’attività amministrativa della fallita era stata sempre svolta dai predetti P.D.S.F. e D.S.F. , proprietari ed amministratori di altra società, denominata omissis . Con sentenza pubblicata il 29 gennaio 2009 il Tribunale di Cosenza respingeva la domanda risarcitoria proposta nei confronti dei convenuti indicati quali amministratori di fatto. 2. - Interposto gravame, la Corte di appello di Catanzaro riformava la sentenza di primo grado condannando D.S.F. e P.D.S.F. , oltre che B.A. , in solido, al pagamento, in favore del fallimento, della somma di Euro 2.490.141,69, oltre interessi. 3. - Contro tale pronuncia i predetti D.S.F. e P.D.S.F. ricorrono per cassazione. L’impugnazione si basa su due emotivi. Non vi è resistenza da parte degli intimati, e cioè del fallimento, di B.A. e di C.C. . Ragioni della decisione 1. - Il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2392, 2476 c.c. e L. Fall., art. 146, oltre che l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Lamentano i ricorrenti che la Corte di merito abbia ritenuto provata la qualità di amministratore di fatto in capo a D.S.F. , avendo egli compiuto non meglio specificati rilevanti atti di ingerenza nella gestione della società di cui danno conto i testi escussi . Viene osservato che la figura dell’amministratore di fatto presuppone funzioni gestorie svolte con carattere di sistematicità e di completezza e che il giudice distrettuale non aveva verificato se le condotte poste in atto dal ricorrente presentassero siffatta connotazione è sottolineato come non fosse stata fornita prova dello svolgimento di vere e proprie funzioni gestorie da parte di D.S.F. , al quale, al più, poteva ascriversi un interesse nelle vicende societarie, pienamente compatibile con la propria qualità di socio e di direttore generale della società omissis , la più importante, se non l’unica, committente della fallita. Il motivo è nel complesso infondato. Deve permettersi che il presente primo mezzo non coinvolge la posizione di P.D.S.F. , la cui qualità di amministratore di fatto è stata accertata dal Tribunale con statuizione coperta da giudicato interno pag. 13 della sentenza di appello . Si legge nella pronuncia impugnata che la società omissis esercitava attività di vigilanza privata, servizio di scorta e trasporto di valori sull’intero territorio della provincia di Cosenza e che con decreto prefettizio del 20 marzo 1998 era stata revocata alla stessa la pertinente autorizzazione amministrativa, stante il riscontro di gravi irregolarità accertate a seguito di un controllo della Questura di Cosenza. Nonostante la revoca dell’autorizzazione, l’arresto dell’amministratore unico e l’accumularsi di perdite superiori al capitale sociale, gli amministratori, di fatto e di diritto, della società non avevano provveduto alla convocazione dell’assemblea, nè alla riduzione del capitale sociale e neppure al licenziamento dei dipendenti che si sarebbe imposto in ragione della sopravvenuta impossibilità di svolgere l’attività di vigilanza. La Corte di merito ha accertato la qualità di amministratore di fatto della società fallita in capo a D.S.F. valorizzando diverse deposizioni testimoniali in particolare, avendo anche riguardo alla circostanza per cui il predetto era stato amministratore unico e socio di maggioranza della società omissis , la quale lavorava in stretta cooperazione con la fallita, la Corte di merito ha concluso nel senso di dover ritenersi provato che la gestione dei contratti degli appalti di servizi svolti dalla omissis s.r.l. facesse direttamente capo al D.S. ed alla di lui madre P.D.S.F. il quale deteneva significative quote sociali di entrambe le società e provvedeva ad impartire, direttamente o tramite propri dipendenti, direttive al personale . Come è noto, la disciplina della responsabilità degli amministratori delle società di capitali è applicabile anche a coloro i quali si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita, da parte della società, così individuandosi il cosiddetto amministratore di fatto Cass. 12 marzo 2008, n. 6719 l’amministratore di fatto di una società di capitali, pur privo di un’investitura formale, esercita sotto il profilo sostanziale nell’ambito sociale un’influenza che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, sicché può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l’omissione di atti di gestione Cass. 18 settembre 2017, n. 21567 . È ben vero che ai fini del riconoscimento della qualità di amministratore di fatto è necessario che l’ingerenza nella gestione della società, attraverso le direttive e il condizionamento delle scelte operative, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza Cass. 1 marzo 2016, n. 4045 ma la pronuncia impugnata non si è discostata da tale principio, giacché ha posto a fondamento della decisione che qui interessa lo svolgimento di un’attività non episodica, ma continuativa, relativa a due aspetti fondamentali dell’amministrazione societaria la gestione dei rapporti contrattuali in essere e la direzione del personale dipendente. Nè può farsi questione della prova dell’esercizio, da parte di D.S. , delle funzioni gestorie di fatto cfr. ricorso per cassazione, pagg. 9 s. , giacché la prospettazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta mediante le risultanze di causa inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155 Cass. 11 gennaio 2016, n. 195 . Non può d’altro canto ritenersi sia stata ritualmente introdotta una censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, visto che l’istante nemmeno spiega quale sarebbe il fatto che il giudice del merito avrebbe omesso di esaminare va qui rammentato che, ai fini della valida prospettazione della censura in questione, il ricorrente, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, deve indicare il fatto storico , il cui esame sia stato omesso, il dato , testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività , e che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053 Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054 . 2. - Il secondo motivo oppone la violazione degli artt. 1223, 1226 e 2043 c.c., nonché la nullità della sentenza o del procedimento. È dedotto dai ricorrenti che il curatore era tenuto a provare la riconducibilità del danno agli atti dolosi o colposi loro ascritti, onde ai medesimi poteva essere accollato il risarcimento del solo danno che si fosse posto quale conseguenza immediata e diretta delle violazioni commesse, per la misura equivalente al detrimento patrimoniale che non si sarebbe verificato in assenza della condotta illecita posta in atto. L’assenza delle scritture contabili, d’altro canto, non giustificava, ad avviso dei ricorrenti, alcuna agevolazione probatoria fondata su criteri presuntivi, visto che altrimenti si sarebbe attribuito al risarcimento una funzione sanzionatoria ad esso estranea. Gli istanti osservano, inoltre, come il criterio sussidiario di valutazione equitativa del danno sarebbe utilizzabile solo in presenza di una impossibilità probatoria o in costanza di una rilevante difficoltà nella liquidazione del pregiudizio stesso. Anche tale motivo è infondato. La Corte di appello è pervenuta all’accertamento del danno, osservando quanto segue attraverso la cooperazione dolosa o comunque gravemente colposa degli appellati si era verificato il progressivo depauperamento del patrimonio della società fallita e la dispersione di beni e crediti, secondo quanto già contestato in sede penale ove gli odierni ricorrenti erano stati condannati per bancarotta fraudolenta in ragione della distrazione dei medesimi elementi attivi del patrimonio sociale presi in considerazione dalla Corte di appello cfr. pagg. 12 e s. e 18 della sentenza impugnata . Il giudice distrettuale ha rilevato, in particolare, che era totalmente sconosciuta la destinazione delle seguenti poste liquidità non consegnata al curatore per l’importo di Lire 9.670.325, relativa al conto cassa risultante dal bilancio dell’esercizio 1998 immobilizzazioni materiali del valore di Lire 191.736.585, iscritte in bilancio e non rinvenute dal curatore fallimentare crediti vantati della società fallita nei confronti della propria clientela per Lire 2.187.864.856, come da bilancio dell’esercizio 1998. La Corte di merito ha ritenuto, in particolare, potersi presumere che i crediti riportati nel bilancio, del quale non era mai stata allegata la falsità, fossero stati incassati, trattandosi di crediti di sicuro realizzo verso enti notoriamente solvibili e che non era possibile ritenere che essi fossero stati riscossi e destinati ad attrezzature necessarie per lo svolgimento dell’attività, posto che non erano state rinvenute immobilizzazioni materiali di sorta. Allo stesso modo, il giudice di appello ha escluso che i crediti fossero stati impiegati per il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti, giacché l’esposizione debitoria della società per stipendi e contributi assicurativi presso gli enti previdenziali emergente dallo stato passivo alla data di dichiarazione fallimento era notevolmente superiore a quella risultante dal bilancio di esercizio al 31 dicembre 1998. Ai fini della quantificazione del danno, la Corte distrettuale ha sommato alle menzionate attività patrimoniali, non rinvenute dal curatore - e pari, nel totale, a Euro 1.233.955,89 - l’ammontare delle retribuzioni dei dipendenti non corrisposte e ammesse al fallimento di omissis per oltre Euro 500.000,00 e ciò in quanto il danno rispondente a tali emolumenti avrebbe potuto essere evitato - secondo detta Corte - attraverso la tempestiva convocazione dell’assemblea dei soci per provvedere all’azzeramento delle perdite e alla ricostituzione del capitale sociale, ovvero mercè il licenziamento delle maestranze o la messa in liquidazione la società. È spiegato dalla sentenza che il danno risulterebbe essere pari alla differenza tra i valori sopra indicati e l’attivo fallimentare residuo Euro 46.620,50, costituito dai pochi crediti verso terzi che l’amministratore B. aveva saputo indicare alla curatela tuttavia, tenuto conto dei limiti della domanda risarcitoria proposta in via principale dalla curatela, il danno stesso è stato liquidato nel minor importo di Euro 1.465.627,18, secondo i valori monetari del 2000, pari alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare. A torto i ricorrenti lamentano che tale quantificazione sia difforme dal principio enunciato da Cass. Sez. U. 6 maggio 2015, n. 9100, secondo cui nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma della L. Fall., art. 146, comma 2, la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo. Come è stato precisato nella nominata sentenza, una correlazione tra le condotte dell’organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall’intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza. Nel caso in esame - lo si è detto - il pregiudizio patrimoniale è stato quantificato avendo riguardo a due elementi il depauperamento del patrimonio societario determinato dalla condotta dolosa o gravemente colposa degli amministratori avendo riguardo soprattutto a crediti che, secondo la Corte di merito, dovevano ritenersi incassati, senza che le somme percepite fossero state però poi reimpiegate a beneficio della società segnatamente per l’acquisto di beni strumentali o il pagamento dei dipendenti il debito accumulato per le retribuzioni dovute ai lavoratori della fallita, che, a seguito della revoca delle autorizzazioni e le perdite accumulate cui non aveva fatto seguito la ricostituzione del capitale sociale , avrebbe potuto essere evitato con la messa in liquidazione e lo scioglimento della società o con la risoluzione dei rapporti in essere con i dipendenti stessi i quali erano rimasti al servizio di omissis , ma avevano tuttavia prestato la propria attività in favore della società omissis . Si tratta, quindi, di un criterio di liquidazione che prescinde dall’apprezzamento della differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare il danno è infatti stato commisurato per una parte alla procurata dispersione di attività patrimoniali in misura corrispondente agli importi che in sede penale era stato accertato essere stati oggetto di delittuosa attività distrattiva e per altra parte al protrarsi di rapporti di lavoro con la fallita, che gli amministratori avrebbero potuto e dovuto far cessare. Il dato relativo alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare è stato introdotto solo in quanto il danno accertato risultava essere superiore a quello di cui era stato domandato il risarcimento avendo la curatela evidentemente richiesto di commisurare il pregiudizio a tale importo e la somma da liquidarsi andava quindi ridotta in relazione a tale più contenuto petitum. Ma tale evenienza non vale di certo ad escludere la correttezza dell’operato della Corte di appello. In conclusione, deve riconoscersi conforme al diritto la decisione di merito che, con riferimento all’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma della L. Fall., art. 146, comma 2, quantifichi il danno avendo riguardo all’accertata colpevole dispersione di elementi dell’attivo patrimoniale da parte degli amministratori, oltre che al colpevole protrarsi di un attività produttiva implicante l’assunzione di maggiori debiti della società, a nulla rilevando che l’importo oggetto di liquidazione sulla base di tali criteri sia ridotto a una minor somma, nella specie corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, in ragione del limite quantitativo della pretesa fatta valere. 3. - Il ricorso è dunque respinto. 4. - Nulla è da statuire in punto di spese processuali. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.