Comunione di azienda o società: l’esercizio in comune dell’attività di impresa da parte dei coniugi

Tra i coniugi in comunione dei beni può essere costituita una società di persone, al cui patrimonio appartengono i beni conferiti in società essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica.

Con la pronuncia n. 8222 del 28 aprile 2020 il S.C. interviene per descrivere le modalità con le quali i coniugi possono esercitare, congiuntamente, un’attività di impresa in presenza del regime patrimoniale della comunione legale, riconoscendo la possibilità, per i coniugi stessi, di costituire una società di persone, il cui patrimonio sociale è composto dai beni conferiti dai coniugi – soci. Il caso. La vicenda decisa dalla Cassazione ha origine dall’azione promossa per il riconoscimento, da parte di uno dei coniugi, della titolarità pro quota dei beni facenti parte della comunione legale e confluiti nella società costituita dai coniugi stessi. Secondo il giudice di prime cure – con decisione poi confermata in sede di appello – la società così costituita rappresentava una azienda coniugale ai sensi dell’art. 177, lett. d c.c., entrata a far parte della comunione legale ai sensi dell’art. 177, lett. a c.c. In tale contesto, il recesso della moglie – il cui nome si rinveniva anche nella denominazione sociale della società così costituita – non avrebbe modificato l’assetto societario, determinando solo la cessione della cogestione dell’azienda e mantenendo, comunque, il regime della comunione legale. Avverso la pronuncia della Corte d’Appello, ha promosso appello il marito, sostenendo, tra l’altro, una violazione dell’art. 112 c.p.c. relativa al rapporto tra chiesto e pronunciato e ritenendo erroneo il riferimento all’art. 177, lett. d , ossia alla azienda coniugale tra i coniugi, sussistendo, semplicemente, una società nei confronti della quale la moglie aveva esercitato il diritto di recesso. Il S.C., sul punto, accoglie il ricorso, ritenendo che tra i coniugi si era costituita una società di persone, con conseguente esclusione dell’esistenza di una azienda coniugale e con la necessità che la Corte d’Appello in diversa composizione riesamini la situazione ritenendo sussistere una fattispecie societaria tra i coniugi stessi. Domanda di parte e pronuncia quale rapporto. La Cassazione, contestualmente all’esame delle varie tipologie di rapporti che i coniugi – secondo l’ordinamento – possono costituire per lo svolgimento di attività di impresa, si sofferma sul rapporto tra chiesto e pronunciato ai sensi dell’art. 112 c.p.c., ritenendo, sul punto, che i giudici di merito abbiano erratamente interpretato gli atti dei giudizi. Secondo il S.C., infatti, in violazione degli artt. 112 – 116 c.p.c., mentre da parte dell’attrice vi sarebbe stata la richiesta di accertamento della proprietà, pro quota in capo alla stessa, dei beni della società costituita con il marito avendo la stessa esercitato il recesso, i giudici di merito, pur in assenza di allegazioni, avrebbero riqualificato la domanda in termini di esistenza di un’azienda coniugale e contestuale gestione in comune della stessa circostanza, questa, che non poggiava su un riscontro effettivo e soprattutto non è stata oggetto di domanda da parte dell’attrice. Il principio iura novit curia. In altri termini, alla Corte, in applicazione del principio iura novit curia , di cui all'art. 113, comma primo, c.p.c., è consentito assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all'azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione princìpi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Impresa familiare e disciplina societaria . Considerando quanto poc’anzi illustrato, la Cassazione, prima di definire la questione, ripercorre le ipotesi previste dalla legge sulle modalità di esercizio dell’attività di impresa da parte dei coniugi, precisando che il caso di specie non può essere ricondotto alla fattispecie dell’impresa familiare, che è di per sè incompatibile con la disciplina societaria in quanto nella stessa la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda ed all'avviamento avviene in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione. Nè, peraltro, potrebbe essere considerata impresa familiare quella configurabile tra due coniugi, ove uno solo di questi eserciti un'attività commerciale in qualità di socio di una società di persone, difettando la sua qualità di imprenditore, esclusivamente propria della società Impresa familiare ed attività commerciale. Analogamente, secondo la giurisprudenza, non è applicabile la disciplina di cui all'art. 230- bis c.c. in tema di impresa familiare, con riferimento all'attività lavorativa svolta nell'impresa commerciale, poiché il concetto di lavoro familiare, applicabile alle sole imprese individuali, è estraneo alle imprese collettive in genere e sociali in particolare, non essendo configurabile nell'ambito della medesima compagine la coesistenza di due rapporti, uno fondato sul contratto di società e l'altro, fra il socio e i suoi familiari, derivante dal vincolo familiare o di affinità. Gestione comune dell’azienda da parte dei coniugi. Al tempo stesso, la gestione in comune da parte dei coniugi dell’azienda, determina l’impossibilità di qualificazione della fattispecie in termini di società di fatto, né tantomeno di un'impresa familiare ai sensi dell'art. 230- bis c.c., la cui applicazione è residuale rispetto ad ogni altro rapporto fra coniugi normativamente disciplinato. Società di persone e liquidazione della quota del socio. Per la Cassazione, quindi, tra i coniugi si era costituita una società di persone – attività pienamente riconosciuta secondo il principio dell’autonomia contrattuale – e nei confronti della quale la moglie aveva esercitato il recesso, prima dello scioglimento della comunione legale e chiedendo, successivamente, l’accertamento della proprietà dei beni stessi con una modifica del regime di proprietà, ossia da quello societario a quello comproprietario. In tale ipotesi, quindi, la corte territoriale avrebbe dovuto qualificare la domanda quale richiesta di liquidazione della quota sociale. Di conseguenza, ai fini della determinazione della quota della moglie, la situazione patrimoniale da assumere, ai sensi dell'art. 2289 c.c , a base della liquidazione della quota non può essere redatta - a differenza di quanto si pratica in caso di recesso da una società per azioni - facendo riferimento all'ultimo bilancio o, comunque, ai criteri di redazione del bilancio annuale di esercizio, ma occorre tener conto dell'effettiva consistenza al momento della uscita del socio, sicché, ai fini della determinazione del valore dell'avviamento - la cui rilevanza, quale elemento del patrimonio sociale, si proietta nel futuro, traducendosi nella probabilità, pur fondata su elementi presenti e passati, di maggiori profitti per i soci superstiti - vanno considerati non solo i risultati economici della gestione passata ma anche le prudenti previsioni della futura redditività dell'azienda.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 18 febbraio – 27 aprile 2020, n. 8222 Presidente Giancola – Relatore Nazzicone Fatti di causa La Corte d’appello di Brescia con sentenza del 30 aprile 2018 ha respinto l’impugnazione avverso la decisione di primo grado, la quale, in accoglimento della domanda proposta da T.M.R. nei confronti del coniuge separato F.I. , ha dichiarato che oggetto della comunione legale dei coniugi alla data del omissis erano tutti i beni in proprietà della società Trafinish di T.M.R. & amp C. s.n.c., dalla quale la prima era receduta con lettera del 3 agosto 2009. La corte territoriale ha affermato, per quanto ancora rileva, che a in punto di fatto, fra i coniugi vigeva il regime patrimoniale della comunione legale dei beni b pertanto, la società costituita fra i coniugi è oggetto dell’azienda coniugale di cui all’art. 177, lett. d , ed i beni acquistati dalla società sono entrati a far parte della comunione legale, ai sensi della lett. a di tale disposizione c per reputare i beni in titolarità della società, sarebbe stato necessario che l’atto costitutivo di questa fosse stato redatto per atto pubblico, necessario ai fini del mutamento convenzionale del regime patrimoniale, ai sensi degli artt. 162 e 191 c.c., in quanto ciò avrebbe coinciso con lo scioglimento della comunione di coniugi sull’azienda coniugale d il 14 aprile 2011 il F. con scrittura privata autenticata da notaio ha dato atto del recesso della T. dalla società, partecipata dai due coniugi, ed il omissis egli, revocato lo stato di liquidazione della società di cui era rimasto l’unico socio, ha trasformato la società in nome collettivo in impresa individuale e tuttavia, tali operazioni ed, in particolare, il recesso della socia hanno solo comportato la cessazione della cogestione dell’azienda, lasciando sussistere la comproprietà di tutti i beni aziendali in capo ad entrambi i coniugi ed il regime di comunione legale fra i medesimi. Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dal soccombente, fondato su quattro motivi. Si difende l’intimata con controricorso. Ragioni della decisione 1. - I motivi proposti dal ricorso possono essere come di seguito riassunti 1 violazione e falsa applicazione degli artt. 162, 177, 179, 191 e 2697 c.c., artt. 112, 115, 116 c.p.c., per essere la corte territoriale incorsa in ultra ed extra-petizione, in quanto essa - a fronte di una domanda di accertamento del diritto di comproprietà sui beni immobili e mobili registrati, in titolarità della società, formulata dall’attrice nel suo atto di citazione - ha ritenuto, d’ufficio esistente una cogestione di azienda coniugale ed il difetto di un’idonea forma della convenzione matrimoniale per la costituzione di una società di persone tra le parti, pur in assenza di domande dell’attrice al riguardo e di qualsiasi cenno in tal senso nella stessa sentenza del Tribunale di Brescia, nonché, comunque, della contestazione dell’istante su tali profili 2 violazione delle predette disposizioni e dell’art. 132 c.p.c., con nullità della sentenza, per avere la corte d’appello reso una motivazione meramente apparente, afferente i suddetti elementi di fatto e di diritto, mai introdotti in giudizio 3 violazione e falsa applicazione di una serie di disposizioni in materia di comunione legale, di azienda coniugale, di trasformazione della società e di recesso del socio, oltre che degli artt. 100, da 112 a 116 c.p.c., avendo la sentenza impugnata del tutto ignorato che l’attrice chiese semplicemente l’accertamento del preteso diritto di comproprietà dei beni sociali e che, in presenza di una società personale, al socio receduto spetta unicamente la liquidazione della quota sociale nè il richiamo all’art. 177 c.c., lett. d , è corretto, dal momento che tra i soci, come è pacifico anche nella sentenza impugnata, fu costituita una società e che solo questa era proprietaria dei beni afferenti il suo patrimonio a ciò, si aggiunga che mai la coniuge ha dedotto di avere cogestito alcunché, onde la circostanza è stata arbitrariamente individuata ed affermata dalla corte del merito 4 violazione delle medesime disposizioni di cui al motivo che precede, nonché dell’art. 132 c.p.c., con nullità della sentenza, per avere la decisione impugnata reso una motivazione meramente apparente, afferente i suddetti elementi di fatto e di diritto mai introdotti in giudizio. 2. - Il secondo ed il quarto motivo, da trattare con priorità sotto il profilo logico, sono infondati, avendo la corte del merito esposto un’argomentazione completa e diffusa, nel pieno rispetto del principio costituzionale della motivazione delle sentenze. 3. - Il primo ed il terzo motivo, del pari da trattare congiuntamente in quanto pongono le medesime questioni, sono fondati. Dal contenuto dell’atto di citazione che, in ossequio al principio di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., risulta dal ricorso introduttivo, emerge come l’attrice, dopo avere narrato che tra i coniugi fu costituita la Trafinish di T.M.R. s.n.c. e che ella era receduta dalla società, propose la domanda di accertamento della circostanza che i beni, già facenti parte del patrimonio della snc, erano di proprietà anche dell’attrice e che pertanto andava dichiarata la proprietà comune degli stessi , riportando espressamente il giudice di primo grado la domanda come volta ad accertare e dichiarare la titolarità in capo a sé del diritto di comproprietà dei beni immobili e mobili registrati già di proprietà della società Trafinish di T.M.R. & amp C. snc, società costituita in costanza di matrimonio tra le parti, le cui quote appartenevano ad entrambi i coniugi nella misura del 50% ciascuno così la sentenza di primo grado, riportata nel ricorso . Ha aggiunto il tribunale come fra le parti fosse incontestato l’avvenuto recesso della moglie dalla società nel 2009. A fronte di tale allegazione, costituisce violazione dei principi della domanda e della corrispondenza del chiesto al pronunciato la individuazione - mai dedotta - di una azienda coniugale e della cogestione della medesima in capo ai coniugi. Della allegazione e della prova di tali circostanze, infatti, la sentenza impugnata non dà affatto conto, limitandosi ad una riqualificazione ex officio della situazione, dopo avere introdotto tuttavia essa stessa, del pari d’ufficio, nuovi fatti al proprio esame. In sostanza, dal mero regime della comunione legale dei coniugi, accertato come esistente al momento della costituzione della società, nonché dall’allegazione attorea dell’esistenza di una società di persone e del proprio recesso dalla medesima, con domanda di attribuzione di beni sociali, la corte d’appello ha fatto d’ufficio derivare l’allegazione di una circostanza diversa non più il dedotto recesso da una società personale tra i coniugi, ma l’avvenuto esercizio in cogestione di un’azienda coniugale. Al riguardo, giova appena precisare che i regimi dello svolgimento di attività d’impresa nell’ambito della famiglia possono assumere qualificazioni giuridiche diverse, da cui deriva una differente disciplina regolatrice dei rispettivi rapporti l’azienda coniugale ex art. 177, comma 1, lett. d , l’azienda appartenente ad un solo coniugi con mera comunione degli utili e degli incrementi ex art. 177, comma 2, l’impresa gestita individualmente da uno dei coniugi ex art. 178, l’impresa familiare ex art. 230 bis e ter, la società di persone di cui agli artt. 2251 e segg., le società di capitali, sino al cd. patto di famiglia ex art. 768-bis. Prima ancora, sono diversi i presupposti integrativi di ciascuna fattispecie onde non compete al giudice di sostituire i fatti, allegati da una parte come costitutivi di una disposizione normativa, con i fatti che meglio si adattino a rappresentare gli elementi integrativi di una fattispecie con i relativi effetti diversa, che egli intenda applicare. Invero, a tacer d’altro - l’azienda coniugale di cui all’art. 177 c.c., lett. d , ricade nella comunione legale fra i coniugi, che vi assumono posizione paritaria, in quanto l’azienda è acquisita in costanza di matrimonio e viene gestita da entrambi Cass. 23 maggio 2006, n. 12095 , che divengono dunque coimprenditori la mera comproprietà dell’azienda non è, pertanto, idonea a far presumere, di per sé, la necessaria cogestione di entrambi i coniugi e l’esistenza di un azienda coniugale ex art. 177 c.c., lett. d la cogestione, o gestione da parte di entrambi i coniugi, deve essere effettiva e reale, pur senza particolari accordi o formalità - l’esistenza della cogestione quale elemento essenziale della fattispecie differenzia tale istituto dalla mera collaborazione che si attua nell’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c.c., ove vi è una semplice partecipazione del coniuge all’attività aziendale, interamente imputata al titolare dell’impresa cfr. Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676 Cass. 2 dicembre 2015, n. 24560 Cass. 18 gennaio 2005, n. 874 Cass. 15 aprile 2004, n. 7223 Cass., 18 dicembre 1992, n. 13390 - fra i coniugi può ben esistere una società, come ex lege confermato dall’art. 230-bis c.c., comma 1 nonché, per le convivenze, dall’art. 230-ter c.c. l’esistenza di un atto costitutivo vale proprio a segnalare che non di mera gestione di azienda coniugale in comunione si tratta, ma di titolarità dell’azienda in capo all’ente collettivo ciò avviene nell’esercizio dell’autonomia negoziale dei coniugi nel decidere le regole organizzative per l’esercizio collettivo di un’impresa, avendo il legislatore del 1975 permesso ai soli coniugi in regime di comunione legale dei beni di avvalersi di una particolare modalità organizzativa e disciplina dell’impresa collettiva, mediante la cd. impresa coniugale l’individuazione della scelta societaria è agevole in presenza della stipula di un atto costitutivo formale, il quale esonera l’interprete da più complesse interpretazioni della volontà dei coniugi, i quali, in tal modo, hanno reso esplicita la fattispecie prescelta, proprio in ragione della più efficiente e completa disciplina societaria per l’esercizio di un’attività produttiva, che soddisfa l’esigenza di regole e modelli certi e la trasparenza dei rapporti con i terzi in tal caso, non il coniuge socio, ma la società personale è il soggetto imprenditore, in quanto titolare di un interesse sovraindividuale, dotato di autonoma soggettività e sottoposto allo statuto dell’imprenditore commerciale cfr. artt. 2266, 2659, 2839 c.c. cfr., fra le altre, Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676 e Cass. 13 ottobre 2015, n. 20552 ne deriva che la disciplina sussidiaria dell’impresa familiare è recessiva, in presenza di rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente, quale quello societario, mentre nessun diritto esigibile può essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, durante societate Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676, in motiv. , potendo solo parlarsi di liquidazione della quota del socio uscente nè si pongono, al riguardo, problemi di pubblicità, atteso il regime dell’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese, il quale, anche quanto alla tutela dei terzi, permette ai medesimi di accertare agevolmente la situazione aziendale, dopo l’iscrizione tutelandosi specificamente l’affidamento dei terzi in ordine all’applicazione del regime giuridico dai coniugi prescelto. Pertanto, qualsiasi diverso inquadramento dei fatti nelle astratte ipotesi di legge, operato dal giudice pur nell’ambito del suo potere di qualificazione della domanda, è ammesso solo sino al limite in cui esso non immuti i fatti prospettati dalle parti, non potendo l’esercizio di qualificazione giuridica comportare la modifica officiosa della domanda proposta. In tal senso è la costante giurisprudenza di legittimità cfr., con riguardo sia al giudizio di cassazione, sia a quello di merito Cass. 12 agosto 2019, n. 21333 Cass. 28 giugno 2018, n. 17015 Cass. 9 aprile 2018, n. 8645 Cass. 28 luglio 2017, n. 18775 . Infatti, nel processo civile, l’applicazione del principio iura novit curia, di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, importa la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti ma tale condotta è limitata dal divieto di ultra ed extra-petizione, di cui all’art. 112 c.p.c., in applicazione del quale è precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d’ufficio. Resta, in particolare, preclusa al giudice la decisione basata non già sulla diversa qualificazione giuridica del rapporto, ma su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa Cass. 24 luglio 2012, n. 12943 . Infatti, costituisce domanda nuova la deduzione di una nuova causa petendi la quale comporti, attraverso la prospettazione di nuove circostanze, il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia conseguentemente ricorre la violazione dell’art. 112 c.p.c., quando il giudice, integrando o sostituendo in tutto o in parte gli elementi della causa petendi, ponga a fondamento della pronunzia un fatto giuridico costitutivo diverso da quello dedotto dall’atto e dibattuto in giudizio Cass. 16 luglio 2002, n. 10316 . Il principio è costante in ogni settore del diritto sostanziale cfr. es. Cass. 27 settembre 2011, n. 19736, con riguardo a diverse eccezioni nella fideiussione ed è stato applicato specificamente con riguardo al limitrofo istituto dell’impresa familiare, dove, avuto riguardo al fatto costitutivo allegato dalla parte come al bene giuridico preteso, si è qualificata nuova, perché afferente a diritti eterodeterminati, la domanda diretta a conseguire gli utili ancora dovuti al momento della cessazione del rapporto di collaborazione segnata dalla morte del titolare dell’impresa, rispetto ad un’iniziale domanda rivolta da un coerede nei confronti degli altri coeredi al fine di conseguire una quota dell’azienda e la conseguente ripartizione degli utili sul presupposto dell’esistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire , con conseguente inammissibile mutatio libelli Cass. 18 ottobre 2018, n. 26274 . 4. - Occorre ancora osservare come, ove tra i soci sussista un regime societario, i beni conferiti in società appartengono al patrimonio di questa, e non dei singoli soci, essendo anche le società personali dotate di soggettività di diritto ed il recesso di un socio comporta che la partecipazione si concentri in capo al socio superstite, con conseguente scioglimento della società personale di due soci, rimasta con unico socio e successiva liquidazione della società, ove la pluralità non sia ricostituita entro sei mesi, ai sensi dell’art. 2272 c.c., comma 1, n. 4. In ogni caso, dal recesso del socio deriva il diritto di questi alla liquidazione della quota, il cui valore va determinato ai sensi dell’art. 2289 c.c., tenuto conto del valore patrimoniale al momento dello scioglimento del rapporto sociale onde occorre richiamare ora i principi, secondo cui in tale liquidazione deve tenersi conto dell’effettiva consistenza della situazione patrimoniale al momento della uscita del socio fra le altre, Cass. 18 marzo 2015, n. 5449 , tenuto conto degli utili e delle perdite inerenti ad operazioni in corso alla data del recesso, quali sopravvenienze attive e passive che trovino la loro fonte in situazioni già esistenti a quella data Cass. 22 aprile 2016, n. 8233 . Va, infine, richiamato il condiviso principio secondo cui il recesso dalla società personale è atto unilaterale recettizio, onde il socio perde tale status al momento della comunicazione del recesso alla società Cass. 11 settembre 2017, n. 21036 Cass. 8 marzo 2013, n. 5836 . Ne deriva, altresì, che la domanda di accertamento della comproprietà dei beni sociali in capo al socio receduto può essere interpretata alla stregua della domanda di liquidazione della quota sociale, ove ne sussistano i requisiti. In particolare, con la domanda di liquidazione della quota di una società di persone da parte del socio receduto o escluso si fa valere un’obbligazione della società, non in via diretta degli altri soci ma, ove siano stati evocati in giudizio tutti i soci, il contraddittorio può dirsi correttamente instaurato cfr. Cass. 2 aprile 2012, n. 5248 e, in presenza di società di due soci, ove uno receduto, l’altro socio potrà risultare evocato, sulla base dell’esame del concreto contenuto dell’atto di citazione, sia per la società, sia in proprio, quale socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali artt. 2267, 2291, 2313 c.c. . 5. - Nel caso di specie, i fatti materiali costitutivi del diritto vantato dalla odierna intimata erano stati dalla medesima, nell’originario atto di citazione, riferiti esclusivamente all’esistenza di una società in nome collettivo tra i coniugi ed al recesso dalla società dalla stessa operato, in epoca anteriore allo scioglimento della comunione tra i coniugi. Su tali fatti essa aveva, quindi, fondato la conseguente pretesa di vedere riconosciuta in capo a sé la proprietà paritaria dei beni sociali, con automatico passaggio dal regime societario al regime comproprietario, in riferimento ai beni pur intestati a soggetto collettivo autonomo, quale è la società personale, sebbene priva di personalità giuridica. Tali fatti non sono affatto fungibili con quelli introdotti autonomamente dalla corte del merito, relativi, invece, ad una azienda coniugale gestita da entrambi i coniugi in regime di comunione dei beni, basata su presupposti diversi da quelli fondanti la pretesa azionata inquadramento che, tra l’altro, ha comportato l’affermazione apodittica, secondo cui il recesso del socio ha comportato la cessazione della cogestione dell’azienda ma non della titolarità dei beni . In sostanza, i fatti costitutivi, posti a base della domanda originaria proposta, volti a pretendere la attribuzione della quota pari alla metà dei beni sociali, erano carenti di inerenza rispetto al diverso titolo di credito della pretesa accolta, attesa la notevole diversità fra i medesimi, implicante non una mera riqualificazione giuridica, ma la valutazione di una diversa causa petendi. Si noti, per completezza, che neppure potrebbe farsi applicazione del lato principio espresso da questa Corte a Sezioni unite Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310, posto che non risulta mai svolta una modifica della domanda ad opera della parte, ma una diretta introduzione di fatti e di causa petendi nuovi da parte del giudice. 6. - Dall’accoglimento dei detti motivi deriva la cassazione della sentenza impugnata, che non ha correttamente applicato i principi della domanda e della corrispondenza del chiesto al pronunciato, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, affinché - valutata la possibilità di interpretare la domanda proposta come di liquidazione della quota sociale della allegata società personale fra i coniugi - provveda all’accertamento dell’esistenza e della entità del diritto stesso, al tempo dell’efficacia della comunicazione del recesso, a norma dell’art. 2289 c.c La stessa applicherà i seguenti principi di diritto Tra i coniugi in comunione dei beni può essere costituita una società di persone, al cui patrimonio appartengono i beni conferiti in società, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica. Il recesso di un socio comporta l’obbligo della liquidazione, a carico della società, della quota di questi, il cui valore va determinato ai sensi dell’art. 2289 c.c., tenuto conto del valore patrimoniale della quota al momento dello scioglimento del rapporto sociale La domanda di accertamento della comproprietà dei beni sociali in capo al socio receduto può essere interpretata dal giudice del merito, ove ne sussistano i presupposti, come domanda di liquidazione della quota sociale. Nel giudizio volto alla liquidazione di quota sociale in favore del socio uscente è legittimata passiva la società, ma l’unico socio superstite può essere convenuto in giudizio sia in nome di questa, sia in proprio, al fine di farne valere la responsabilità per le obbligazioni sociali quale socio illimitatamente responsabile . Alla corte territoriale si demanda altresì, la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo del ricorso, assorbiti gli altri cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, innanzi alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione.