Marchi simili ma non identici non confondono (di per sé) il consumatore

La mera presenza di un termine identico all'interno di due marchi distinti non è astrattamente idonea a generare confusione nel consumatore, dovendosi verificare in concreto la possibilità che tale termine confonda, di fatto, il consumatore.

Così la Corte di Cassazione con ordinanza n. 8577/18, depositata il 6 aprile. Il caso. La Corte d’Appello di Torino, in parziale riforma della sentenza emessa dal Giudice di prime cure, respingeva le domande proposte da una società proprietaria di un marchio identificativo di un servizio di bingo e, parallelamente, inibiva alla stessa l’utilizzo del suddetto marchio e del domain name del relativo sito web, in quanto simile ad altro già esistente ed appartenente ad altra società. Il Giudice d’appello riteneva, inoltre, che i due marchi non potessero essere confusi per la sola presenza di due differenti termini idonei a distinguerli, quali le parole Bingo” e Casinò”, alle quali era associato, altresì un identico termine. Avverso la sentenza della Corte distrettuale la società appellante ricorre per cassazione denunciando, tra i vari motivi di ricorso, la contraffazione dei marchi, la confondibilità degli stessi, nonché l’erronea applicazione del metodo di accertamento posto in essere dal Giudice di merito. Confondibilità del marchio. Il Supremo Collegio evidenzia che, coerentemente con la normativa e la giurisprudenza comunitaria, affinché si abbia contraffazione del marchio è necessario che essa investa quegli elementi, costitutivi, che adempiono alla specifica funzione di identificare il prodotto contrassegnato nella sua consistenza merceologica e nella sua provenienza imprenditoriale , pertanto, l’individuazione degli elementi caratterizzanti il marchio presuppone l’individuazione del suo carattere forte o debole in rapporto con la presenza di elementi espressivi, denominativi ovvero astratti, metaforici e traspositivi . Secondo i Giudici di legittimità, la motivazione espressa dai Giudici di merito è conforme a tali principi laddove ha motivato il proprio giudizio comparativo sui due marchi, valutando nel loro complesso e con riferimento ai destinatari del loro utilizzo e pervenendo logicamente a concludere per la loro reciproca non interferenza . In aggiunta, la Corte distrettuale argomenta con chiarezza che Bingo” e Casinò” sono termini diversi e non confondono il consumatore, il quale pur in presenza di un comune appellativo, non potrebbe cadere in confusione sul tipo di attività svolta in ciascuno dei due diversi contesti , a nulla rilevando, diversamente da quanto affermato dal ricorrente, la sussistenza di diversi parametri valutativi della contraffazione nell’ipotesi, come nel caso di specie, in cui il marchio del ricorrente sia stato qualificato quale marchio debole . La Corte quindi rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 15 dicembre 2017 – 6 aprile 2018, n. 8577 Presidente Ambrosio – Relatore Fraulini Fatti di causa 1. La Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha respinto tutte le domande svolte da GALA GROUP INVESTMENTS LIMITED nei confronti di GAMBLING ITALIA S.R.L. e GALA BINGO S.R.L. ha accolto la domanda di inibitoria a carico di GALA GROUP INVESTMENTS LIMITED e di EUROBET ITALIA S.R.L. unipersonale dell’utilizzo del marchio Gala Bingo in ogni sua forma e del domanin name omissis , respingendo ogni altra domanda e regolando le spese di lite. 2. Il giudice di secondo grado, per quanto in questa fase ancora rileva, ha ritenuto che il marchio comunitario omissis , di cui è titolare GALA GROUP INVESTMENTS LIMITED, non sia confondibile con il marchio italiano omissis , di cui è titolare GAMBLING ITALIA S.R.L., atteso che i termini casinò e bingo sarebbero sufficientemente diversi e autonomamente identificanti l’attività, così da evitare ogni rischio di confusione nell’esercizio delle relative attività di impresa. Escluso il conflitto tra i marchi, il giudice distrettuale ha ritenuto legittimo l’uso della denominazione sociale Gala Bingo s.r.l. e del domain name omissis da parte della stessa società e ha ritenuto illecito l’uso, da parte di Eurobet s.r.l., società controllata da Gala Group, del domain name omissis , in quanto contraffattivo di quello legalmente utilizzato dalla Gala Bingo s.r.l. ha inibito a Gala Group l’uso del marchio omissis e del domain name omissis . 3. Per la cassazione della pronuncia GALA GROUP INVESTMENTS LIMITED ha proposto ricorso con cinque motivi, resistiti da GAMBLING ITALIA S.R.L. e GALA BINGO S.R.L. con controricorso. Ragioni della decisione 1. La Corte rileva in via preliminare che la memoria depositata dalla ricorrente in data 6 dicembre 2017 ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ. è tardiva rispetto al termine ivi fissato e che non vi è luogo a provvedere sull’istanza depositata dalla ricorrente e datata 11 dicembre 2017 con la quale il difensore chiede di essere audito nell’udienza camerale del 15 dicembre 2017, posto che l’ultimo alinea dell’art. 380 bis1, cod. proc. civ. espressamente esclude che le parti possano intervenire nella detta udienza. 2. Il ricorso lamenta 2.1. Primo motivo Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 12, 1 comma lett. d e 25 del d.lgs. n. 30/2005 Codice Proprietà Industriale e dell’art. 9 del Reg. CE n. 207/2009, nonché dell’art. 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. e mancata considerazione di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 n. 5, c.p.c. deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove avrebbe negato la contraffazione del marchio comunitario omissis ad opera del marchio omissis delle resistenti, utilizzabili nella stessa classe merceologica e confondibili in astratto a prescindere dal contesto d’uso, unico criterio invece a essere stato esaminato dalla sentenza impugnata. A nulla rileverebbe in proposito la contumacia della ricorrente in fase di appello, posto che la falsa applicazione di legge denunciata risultava evidente anche sulla scorta del materiale a disposizione del giudice di secondo grado, che dimostrava la affinità dei marchi e il sicuro effetto confusorio determinato dal loro contemporaneo utilizzo. 2.2. Secondo motivo Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 12, 1 comma lett. d e 25 del D.lgs. n. 30/2005 Codice Proprietà Industriale e degli artt. 7 e 9 del Reg. CE n. 207/2009, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. deducendo l’erroneità della sentenza impugnata nell’applicazione dell’accertamento in concreto della confondibilità, siccome basato su una distorta interpretazione dei criteri ermeneutici applicabili in tema di capacità distintiva. 2.3. Terzo motivo Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 12, 1 comma lett. d e 25 del Codice Proprietà Industriale e degli artt. 7 e 9 del Reg. CE n. 207/2009, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove avrebbe omesso di individuare il cuore del marchio - quand’anche debole - nella dicitura , rispetto al quale irrilevante era la questione dell’autonoma capacità distintiva della parola Bingo rispetto alla parola Casinò . 2.4. Quarto motivo Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del DM 31 gennaio 200 n. 29, e dell’art. 16 della legge 13 maggio 1999 n. 133, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c. deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove avrebbe omesso di considerare che, anche alla luce del regolamento istitutivo del gioco del bingo, la relativa attività deve esse svolta in apposite sale e previa autorizzazione statale, esattamente come il casinò, di talché erronea sarebbe la motivazione della Corte che su tale pretesa distinzione avrebbe distinto le due fattispecie. 2.5. Quinto motivo Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., nonché degli artt. 20 e 22 del Codice Proprietà Industriale, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha inibito alla ricorrente l’uso del marchio omissis in ogni sua forma l’utilizzo del domain name omissis , in assenza di alcuna prova - il cui onere incombeva sulle resistenti - della condotta di contraffazione della ricorrente. 3. Il ricorso va respinto. 4. Il primo motivo è infondato. Insegna una risalente sentenza di questa Corte che a configurare l’ipotesi di una contraffazione di marchio è necessario che essa investa quegli elementi, costitutivi e caratteristici, che adempiono alla specifica funzione di identificare il prodotto contrassegnato nella sua consistenza merceologica e nella sua provenienza imprenditoriale quindi l’individuazione degli elementi caratterizzanti il marchio presuppone l’individuazione del suo carattere forte o debole in rapporto con la presenza di elementi espressivi, denominativi ovvero astratti, metaforici e traspositivi in funzione grafica o fonetica , la determinazione della sua struttura semplice o complessa, la definizione del livello comportamentistico e valutativo dei destinatari del prodotto. Il relativo giudizio, previo apprezzamento di tutti gli elementi suddetti in relazione ai marchi contrapposti, si concreta in una valutazione globale e sintetica in ordine alla loro confondibilità, ed è rimesso al giudice del merito nonché e sottratto al sindacato in sede di legittimità se sorretto da motivazione giuridicamente corretta e logicamente congrua Sez. 1, Sentenza n. 2692 del 29/05/1978 . A tale arresto si sono conformate anche le successive pronunce di questa Corte rese dalla Sez. 1, n. 1473 del 09/02/1995 n. 9617 del 25/09/1998 n. 21086 del 28/10/2005 n. 13592 del 04/12/1999 n. 4405 del 28/02/2006 n. 1906 del 28/01/2010. La motivazione della sentenza impugnata è conforme a tali principi laddove ha motivato il proprio giudizio comparativo sui due marchi, valutandoli nel loro complesso e con riferimento ai destinatari del loro utilizzo e pervenendo logicamente a concludere per la loro reciproca non interferenza. Che il giudizio sia stato condotto in concreto e non anche in astratto appare una petizione di principio della ricorrente dalla lettura della motivazione impugnata emerge che la Corte distrettuale ha diffusamente argomentato come, per il consumatore italiano, il termine bingo sia associato a uni gioco di gruppo, laddove il termine casinò sia associato a una precisa attività imprenditoriale, rigidamente controllata dallo Stato e soggetta a specifiche e cogenti autorizzazioni. Tale valutazione attiene al merito della controversia ed è incensurabile in questa sede se non nei ristretti limiti dell’assoluta apparenza o insanabile contraddizione della relativa motivazione circostanze estranee al caso di specie, ove il ricorso mira a sostituire un’esegesi della prova favorevole alle ricorrenti rispetto a quella sfavorevole adottata dal giudice di secondo grado ciò che all’evidenza non è consentito in questa fase. 5. Parimenti infondato è il secondo motivo. In primo luogo la censura lamenta la pretesa violazione della qualificazione del marchio come debole effettuata dalla Corte di appello, senza tuttavia indicare da quali passi della sentenza tragga tale conclusione. Invero la sentenza impugnata non fa alcun cenno alla distinzione tra marchio forte e marchio debole, né identifica quale sia il cuore dei due marchi. Argomenta però con chiarezza che Bingo e Casinò sono termini diversi e non confondono il consumatore il quale, pur in presenza del comune appellativo , non potrebbe cadere in confusione sul tipo di attività svolta in ciascuno dei due diversi contesti. E ancora una volta, come per il primo mezzo, tale motivazione appare riconoscibile come, tale e coerente con la cornice normativa e giurisprudenziale di riferimento e la censura è inammissibile per la parte in cui, similmente al primo motivo, tende a far compiere a questa Corte un nuovo e più favorevole accertamento di fatto, fondato su quale sia il cuore dei marchi in questione. 6. Il terzo motivo è infondato. In primo luogo la censura dà per scontato, senza tuttavia indicare i passi della sentenza che legittimerebbero tale conclusione, che la Corte di appello abbia qualificato il marchio della ricorrente come marchio debole in ogni caso, anche qualora così fosse, si deve rilevare che questa Corte ha affermato Sez. 1, Sentenza n. 14684 del 25/06/2007 che la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non impedisce il riconoscimento della tutela nei confronti della contraffazione, in presenza dell’adozione di mere varianti formali, inidonee ad escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituisce l’aspetto caratterizzante, ovverosia il nucleo cui è affidata la funzione distintiva. La sentenza impugnata ha sul punto accertato che tra i due marchi la variante bingo/casinò sia tale da evitare il rischio di confusione, coerentemente escludendo l’interferenza. 7. Il quarto motivo è infondato, posto che il richiamo alla rigidità della legislazione in tema di autorizzazione all’apertura e alla gestione dei casinò non è stato fatto dalla Corte di appello per affermare che il gioco del bingo sia sottratto ad analoghe autorizzazioni, ma per escludere che nell’immaginario del consumatore i termini casinò e bingo siano sinonimi o comunque possano generare confusione sulla tipologia delle attività da ciascuno evocate ne deriva che la circostanza che anche il gioco del bingo sia soggetto ad autorizzazioni risulta del tutto irrilevante e non inficia la coerenza della decisione impugnata. 8. Il quinto motivo è inammissibile poiché, sotto il paradigma della violazione di legge, tende a far compiere a questa Corte un nuovo giudizio di fatto sulla confondibilità dei domain name oggetto di inibizione, in presenza di una motivazione resa dal giudice di secondo grado superiore al minimo costituzionale e riconoscibile come tale. 9. La soccombenza regola le spese. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.