Aggravamento del dissesto della società: la responsabilità è dei sindaci

Al centro dell’attenzione la problematica concernente la responsabilità del collegio sindacale di una società assoggettata a procedura fallimentare. Secondo costante giurisprudenza la responsabilità dei sindaci, in solido con quella degli amministratori, ai sensi dell’art. 2407, comma 2, c.c. presuppone non solo che essi non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica, ma anche l’esistenza di un nesso di causalità tra le violazioni addebitate e il danno accertato, onde i sindaci possono essere chiamati a rispondere delle perdite patrimoniali della società solo nel caso e nella misura in cui queste ultime siano ad essi direttamente imputabili.Â

Nel caso in esame - precisano gli Ermellini nella sentenza n. 23233 del 14 ottobre 2013 - il danno cagionato dalla condotta omissiva dei sindaci va individuato non nel dissesto della società, ma nel suo aggravamento conseguito, per effetto dell’aumentato ammontare degli interessi, al ritardo con cui è stato dichiarato il fallimento. Può dirsi, pertanto, in re ipsa , il nesso di causalità considerato che ai sindaci si è addebitato la mancata formulazione di rilievi critici su poste di bilancio palesemente ingiustificate ed il mancato esercizio di poteri sostitutivi che, secondo l’ id plerumque accidit , avrebbero condotto ad una più sollecita dichiarazione di fallimento. Peraltro, i Supremi giudici aggiungono che l’esistenza di una causa del dissesto non addebitale ad amministratore e sindaci non escludeva, comunque, la loro responsabilità per l’aggravamento del dissesto. Il fatto. Il fallimento di una società per azioni conveniva innanzi al Tribunale di Salerno l’amministratore nonché i componenti del collegio sindacale della società medesima. In particolare, a fondamento della responsabilità dei sindaci, il fallimento deduceva che essi avevano omesso di vigilare sull’osservanza degli obblighi legali e statutari da parte dell’amministratore. Il giudice di prime cure nel novembre del 2000 condannava quindi i sindaci insieme all’amministratore al risarcimento dei danni nella misura di quindici miliardi di lire precisando però che agli stessi non si poteva ascrivere la responsabilità dell’intero dissesto ma soltanto quella per l’aggravamento delle esposizioni debitorie, conseguito al ritardo nella dichiarazione di fallimento ed individuato negli interessi per un biennio sulle esposizioni bancarie e sulle altre esposizioni, quasi tutte verso altri imprenditori commerciali. In seguito la Corte di appello di Salerno riduceva la condanna ad euro 3.700.000 osservando, in particolare, per quanto concerne la posizione dei sindaci, che questi rispondono dei pregiudizi arrecati al patrimonio della società che siano conseguenza diretta ed immediata delle condotte illecite degli amministratori, quando essi non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica e ricorra un nesso di causalità tra tali inosservanze ed il danno. Avverso quest’ultima decisione i sindaci e l’amministratore proponevano ricorso per cassazione facendo valere cinque distinti motivi, che venivano invero respinti in toto . Le forme di responsabilità dei membri del collegio sindacale. Suddivise dall’art. 2407 c.c. in due fattispecie, la prima forma di responsabilità è la cosiddetta responsabilità esclusiva o diretta, e deriva dalla violazione degli obblighi di verità delle attestazioni, di conservazione del segreto e di altri doveri dei sindaci, indipendentemente da un connesso inadempimento riferibile agli amministratori. La seconda fattispecie, invece, è la responsabilità indiretta o concorrente, e si ha nel momento in cui i sindaci non hanno puntualmente adempiuto ai propri doveri di controllo, non avendo in questo modo evitato la produzione di un danno conseguente ad un inadempimento degli amministratori. Tale seconda fattispecie, definita anche come responsabilità da culpa in vigilando , è la forma a cui nella realtà si assiste con maggiore frequenza, e richiede il simultaneo concorso di più elementi inadempimento degli amministratori danno conseguente all'inadempimento inadempimento dei sindaci che ha determinato quel danno, nel senso che se i sindaci avessero vigilato diligentemente sull'operato degli amministratori colpevoli il danno non si sarebbe prodotto. Confrontando le due fattispecie appena descritte, è possibile notare come nella prima vi è un rapporto biunivoco fra l'inadempimento dei sindaci e l'evento dannoso, mentre nella seconda è necessario che sussista un inadempimento dei doveri degli amministratori, nonché un nesso di causalità fra il danno e il difetto di vigilanza. Questa connessione tra gli inadempimenti è inoltre dimostrata anche dalla responsabilità solidale tra amministratori e sindaci stessi nell'obbligo risarcitorio. Per ciò che concerne invece i rapporti fra i sindaci, sembra corretto affermare che anche tra gli stessi membri dell'organo di controllo sussista un vincolo di solidarietà, anche se non esplicitamente indicato dall'art. 2407 c.c. Tale conclusione deriva dalla considerazione che il dovere di controllo grava indistintamente su tutti i membri del collegio sindacale. Il collegio sindacale ha il potere di sollecitare una richiesta di provvedimenti ex art. 2409 c.c. Nella prassi, di frequente, accade che, in presenza di fatti suscettibili di pregiudicare l’integrità del patrimonio sociale, la convocazione dell’assemblea rimanga infruttuosa il che si verifica nel caso in cui gli amministratori siano anch’essi soci, o siano tutti espressione dei soci di controllo, ed omettano di assumere le delibere sollecitate dall’organo di controllo e volte a garantire adeguata tutela alla società, ai creditori e ai terzi. Si crea, in tal modo, una situazione di stallo che determina per la società un progressivo aggravamento del dissesto ed espone i sindaci a responsabilità concorrente, ex art. 2394 c.c., per le perdite derivate alla società a seguito della ritardata assunzione delle necessarie delibere. In questi casi, il collegio sindacale dovrà valutare l’opportunità di sollecitare l’intervento del Tribunale, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2409 c.c., nel caso in cui vi sia fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate e sussista il rischio che possano essere poste in essere manovre distrattive o elusive suscettibili di pregiudicare i diritti dei creditori sociali. Quando, poi, via sia certezza che la crisi della società è irreversibile e ciononostante l’assemblea sia rimasta latitante e l’organo gestorio non si sia attivato per fare ricorso alle procedure concorsuali, il Collegio sindacale dovrà considerare l’opportunità di sollecitare al Pubblico Ministero la richiesta di fallimento della società. Gli odierni sindaci - rileva la Corte di appello di Salerno – in grado di percepire il dissesto già alla chiusura dell’esercizio del 1986 avevano mancato ai loro doveri di vigilanza e non avevano azionato i poteri sostitutivi con ricorso al tribunale, ai sensi degli artt. 2446-2450 c.c., e con esposto al p.m. per sollecitare una richiesta di provvedimenti ex art. 2409 c.c Liquidazione del danno in via equitativa. Il danno imputabile ai sindaci di una società fallita non può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo accertato in sede concorsuale, sia perché tale differenza può essere stata cagionata, oltre che dall’azione dei sindaci, da altre numerose cause concorrenti sia perché questo criterio si porrebbe in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare il nesso di causalità tra la condotta e il danno. Tuttavia sussiste un’eccezione per le ipotesi in cui, per l’inattendibilità dei dati contabili o comunque a seguito delle violazioni poste in essere dagli amministratori e dell’insufficiente vigilanza da parte degli organi di controllo, sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i danni con la analiticità necessaria per individuare le conseguenze pregiudizievoli riconducibili al comportamento dei sindaci nel qual caso la differenza tra attivo e passivo può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa Cfr. Cass. 2538/2005 . Sul punto, gli Ermellini, nel decisum in commento, richiamando e plurimis Cass. 4788/2001, chiariscono che l’esercizio in concreto del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, nonché l’accertamento del relativo presupposto, costituito dall’impossibilità o dalla rilevante difficoltà di precisare il danno nel suo esatto ammontare sono il frutto di un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 19 settembre - 14 ottobre 2013, n. 23233 Presidente Vitrone – Relatore Di Amato Svolgimento del processo Il fallimento della s.p.a. CO.FI.MA. - Compagnia Finanziaria Mercato Alimentare dichiarato con sentenza del omissis conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Salerno, F.G. , amministratore della società, nonché F B. , C.G. ed U A. , componenti del collegio sindacale, chiedendone la condanna al risarcimento dai danni patiti dalla società. In particolare, a fondamento della responsabilità dei sindaci, il fallimento deduceva che essi avevano omesso di vigilare sull'osservanza degli obblighi legali e statutari da parte dell'amministratore il quale, tra l'altro, aveva a omesso di convocare l'assemblea per i provvedimenti di cui agli artt. 2446 e 2447 c.c., resi necessari dall'ingente perdita registrata nell'esercizio 1986 e risultante dal relativo bilancio approvato con ingiustificato ritardo soltanto in data 28 giugno 1987 b occultato dolosamente perdite ben più gravi di quelle esposte in bilancio, riportando ingenti crediti al loro valore nominale, malgrado ricorressero ragioni per una loro prudenziale riduzione, ed iscrivendo il valore di alcune partecipazioni al prezzo di acquisto, senza tenere conto delle variazioni di valore intervenute. Con sentenza del 23 novembre 2000 il Tribunale di Nocera Inferiore, al quale, dopo la sua istituzione, la causa era stata trasferita, condannava i sindaci, insieme all'amministratore, al risarcimento dei danni nella misura di L. 15.000.000.000, osservando che ai convenuti non si poteva ascrivere la responsabilità dell'intero dissesto ma soltanto quella per l'aggravamento delle esposizioni debitorie, conseguito al ritardo nella dichiarazione di fallimento ed individuato negli interessi per un biennio sulle esposizioni bancarie e sulle altre esposizioni, quasi tutte verso imprenditori commerciali. Con sentenza del 20 marzo 2006, la Corte di appello di Salerno, in parziale accoglimento delle impugnazioni proposte dai convenuti, riduceva la condanna ad Euro 3.700.000,00, osservando, per quanto ancora interessa e perciò con specifico riferimento alla posizione dei sindaci, odierni ricorrenti, che a i sindaci rispondono dei pregiudizi arrecati al patrimonio della società che siano conseguenza diretta ed immediata delle condotte illecite degli amministratori, quando essi non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica e ricorra un nesso di causalità tra tali inosservanze ed il danno b dalla consulenza tecnica d'ufficio, espletata nel giudizio di primo grado, era risultato che in sede di bilancio erano mancati i necessari chiarimenti sui rapporti tra la CO.FI.MA. e le società collegate non erano state indicate le ragioni della valutazione al costo di acquisto delle partecipazioni in alcune società, malgrado il loro patrimonio netto avesse subito significative variazioni non erano state indicate le ragioni della indicazione dei valori nominali di numerosi crediti la perdita dell'esercizio 1986 doveva ritenersi ben maggiore di quella di L. 1.888.131.937 evidenziata nel bilancio e doveva ascriversi a condotte di cattiva gestione coperte con non veritiere risultanze dei precedenti bilanci e l'assemblea per l'approvazione del bilancio al 31 dicembre 1986 si era tenuta solo nel mese di giugno 1987 e non erano stati adottati né allora né successivamente i provvedimenti previsti nel caso di riduzione del capitale sociale al disotto del limite di legge d i sindaci, in grado di percepire il dissesto già alla chiusura dell'esercizio 1986 anche in considerazione dell'analogo ruolo da essi svolto nelle società collegate, avevano mancato ai loro doveri di vigilanza e non avevano azionato i poteri sostitutivi con ricorso al tribunale, ai sensi degli artt. 2446 - 2450 c.c., e con esposto al p.m. per sollecitare una richiesta di provvedimenti ex art. 2409 c.c. in tal modo essi avevano aggravato il Ndr pagine mancanti Motivi della decisione Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 2407, 2393, 2043 c.c. e 146 L. fall., nonché il vizio di motivazione, lamentando che nella specie il fallimento non aveva dimostrato e la Corte di appello non aveva accertato un nesso di causalità giuridicamente rilevante tra le condotte dei sindaci, asseritamente in violazione dei loro doveri, e l'evento dannoso. Si deve premettere che i ricorrenti non hanno affatto censurato la configurabilità di un danno con riferimento al ritardo con cui nella fattispecie è divenuto operativo il blocco degli interessi previsto dall'art. 55 L. fall. in questa sede, pertanto, non si deve accertare se può parlarsi di danno con riferimento alla società, considerato che il blocco degli interessi opera ai fini del concorso e non nei rapporti tra debitore e creditore e neppure si deve accertare in quali termini possa parlarsi di danno con riferimento ai creditori, considerato che il blocco degli interessi è intervenuto in ritardo per tutti i creditori, con la conseguenza che tutti i crediti ammessi al passivo devono ritenersi essere aumentati in misura proporzionale e, pertanto, all'esito del riparto riceveranno probabilmente una somma identica a quella che avrebbero ricevuto nel caso di tempestiva dichiarazione di fallimento. Tanto premesso, il motivo è infondato. La sentenza impugnata ha, infatti, individuato il danno cagionato dalla condotta omissiva dei sindaci non nel dissesto, ma nel suo aggravamento conseguito, per effetto dell'aumentato ammontare degli interessi, al ritardo con cui è stato dichiarato il fallimento. Può dirsi, pertanto, in re ipsa, il nesso di causalità considerato che ai sindaci si è addebitato la mancata formulazione di rilievi critici su poste di bilancio palesemente ingiustificate ed il mancato esercizio di poteri sostitutivi che, secondo l’id quod plerumque accidit, avrebbero condotto ad una più sollecita dichiarazione di fallimento. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 61, 115 e 116 c.p.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto l'irrilevanza dei documenti prodotti senza considerare che la loro formazione in un diverso procedimento non ne impediva la libera valutazione come elemento indiziario e che il giudice del gravame aveva l'obbligo di estendere il proprio giudizio a tutte le risultanze probatorie. Il motivo è inammissibile in quanto non prende in considerazione l'assorbente causa di irrilevanza indicata dalla Corte di appello e cioè il fatto che l'esistenza di una causa del dissesto non addebitabile ad amministratore e sindaci non escludeva, comunque, la loro responsabilità per l'aggravamento del dissesto. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 61, 115, 116 e 196 c.p.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello non aveva disposto la rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio, partendo dall'erroneo presupposto che gli appellanti non avessero formulato circostanziate doglianze avverso la c.t.u. espletata nel giudizio di primo grado. Al contrario, gli appellanti, nel contestare la sussistenza del rapporto causale, avevano prospettato ben dieci quesiti da sottoporre al nominando c.t.u Il motivo è infondato. Nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio secondo cui spetta al giudice di merito, nell'esercizio del suo potere discrezionale, la valutazione dell'opportunità di disporre indagini suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini, ed il mancato esercizio di tale potere, così come il suo esercizio, non è censurabile in sede di legittimità e plurimis Cass. 3 aprile 2007, n. 8355 Cass. 29 maggio 2008, n. 14462 Cass. 14 novembre 2008, 27247 . Il giudice di appello deve, tuttavia, prendere in considerazione i rilievi tecnico-valutativi mossi dall'appellante alle valutazioni di ugual natura contenute nella sentenza impugnata Cass. 17 dicembre 2010, n. 25569 . Di tali rilievi, tuttavia, non vi è cenno nei motivi di appello, come riportati nel ricorso pp. 10-14 pertanto, la richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica, formulata in appello dagli odierni ricorrenti ed intesa ad accertare il valore dei crediti vantati dalla CO.FI.MA. ed il valore delle sue partecipazioni, non era, come esattamente rilevato dalla sentenza impugnata, giustificata dai motivi di gravame ai quali è limitato l'effetto devolutivo dell'appello. Né al riguardo, secondo quanto già esposto nell'esame del primo motivo, potevano giovare le contestazioni circa la sussistenza di un nesso di causalità tra il dissesto e le condotte di amministratore e sindaci. Ne consegue che il rilievo della mancanza di adeguate critiche alla consulenza tecnica d'ufficio svoltasi in primo grado esauriva l'obbligo di motivazione del giudice d'appello quanto al diniego della rinnovazione richiesta. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 1226, 2056 e 2697 c.c. e dell'art. 115 c.p.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello, dopo avere individuato il danno nella maturazione di ulteriori interessi sulle esposizioni debitorie della società dissestata, lo aveva liquidato equitativamente, esonerando di fatto il curatore dall'onere di fornire gli elementi di prova utili alla quantificazione del danno e principalmente le informazioni in possesso della curatela in ordine alle singole esposizioni debitorie della società fallita e in ordine ai tassi di interesse applicabili ed applicati. Il motivo è infondato. L'esercizio in concreto del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, nonché l'accertamento del relativo presupposto, costituito dall'impossibilità o dalla rilevante difficoltà di precisare il danno nel suo esatto ammontare, sono il frutto un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato e plurimis Cass. 2 aprile 2001, n. 4788 Cass. 21 giugno 1995, n. 7024 . Nella specie la Corte di appello, ritenuto certo ed esistente il danno, individuato negli ulteriori interessi maturati sull'esposizione debitoria della società, ha desunto equitativamente l'ammontare di quest'ultima dal bilancio del 1986 in quanto, pur dando atto che la curatela non aveva messo a disposizione la documentazione contabile, ha formulato un assorbente giudizio circa la notevole difficoltà dei conteggi, da operarsi sulle singole voci di credito ammesse al passivo, depurate eventualmente dagli esiti delle contestazioni insorte e plausibilmente possibili con precisione solo al momento della chiusura del fallimento e, inoltre, in considerazione della complessità dei conteggi con riferimento alle singole voci, alla stregua della difficoltà di reperimento della documentazione necessaria per ciascuna ragione di credito ha ritenuto di applicare equitativamente, ma sulla base delle nozioni di comune esperienza in ordine ai tassi all'epoca correnti sia nei rapporti bancari che in quelli commerciali, un tasso del 20 % annuo sulla detta esposizione. È evidente, pertanto, che la Corte di appello non ha affatto illegittimamente esonerato la curatela dall'onere di provare il danno, ma una volta ritenuta certa l'esistenza dello stesso, ha dato rilievo, come consentito dagli artt. 1226 e 2056 c.c., alla difficoltà di reperimento della documentazione necessaria, la cui presenza, comunque, non avrebbe eliminato la notevole difficoltà dei conteggi . Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. rigetta il ricorso condanna i ricorrenti al rimborso delle spese di lite liquidate in Euro 15.200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CP.