È il Giudice di merito che valuta gravità dell’inadempimento e proporzionalità della sanzione

In un rapporto di lavoro dipendente, la fiducia è fattore che condiziona la permanenza del vincolo contrattuale e può avere un'intensità differenziata a seconda della funzione, della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che le stesse esigono. Elementi, questi, che devono essere tutti apprezzati dal giudice di merito, perché la valutazione sulla gravità dell'inadempimento e sulla proporzionalità della sanzione rispetto all'addebito contestato deve essere espressa tenendo conto, da un lato, dei profili oggettivi e soggettivi della condotta, dall'altro delle caratteristiche proprie del rapporto in relazione al quale va valutata la possibilità o meno della prosecuzione.

Lo sostiene la Corte di Cassazione nelal sentenza11635/21, depositata il 4 maggio. La fattispecie. La Corte d'Appello di Bari confermava la decisione del Tribunale di Foggia che aveva respinto la domanda proposta, nei confronti dell’ASL, da un uomo per ottenere la declaratoria dell’illegittimità del licenziamento e la conseguente condanna della convenuta al risarcimento del danno. L’uomo veniva licenziato in quanto, nel corso di due anni e in maniera continuativa, aveva tenuto comportamenti attestanti il perdurare di una situazione di insufficiente scarso rendimento dovuta a negligenza e a causa di altri fatti dimostrativi della piena incapacità di adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio. Secondo i Giudici d’Appello si era delineato un inadempimento rilevante sotto il differente profilo di una inaffidabile resa lavorativa che aveva comportato l'adozione della più grave sanzione del licenziamento, pur a fronte di fatti che - singolarmente valutati - non erano stati ritenuti idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario. Di conseguenza, il termine previsto a pena di decadenza doveva decorrere dal momento in cui era stata addebitata la condotta come da ultimo complessivamente manifestatasi, che non si era esaurita nella somma delle singole mancanze ma era consistita nel protrarsi di una prestazione insufficientemente produttiva. Quanto al merito, la Corte riteneva che i comportamenti posti a base del licenziamento, per la loro gravità, legittimassero la scelta datoriale per essere stato leso irrimediabilmente il rapporto fiduciario, escludendo la fondatezza delle giustificazioni addotte dall’uomo, incentrate su un preteso comportamento mobbizzante ai suoi danni posto in essere dall'Azienda. Per la cassazione della sentenza, il dipendente ricorre in Cassazione. Procedimento disciplinare da quando decorrono i termini? Il ricorrente ritiene che i 120 giorni per concludere il procedimento disciplinare decorrano non dalla data di prima acquisizione della notizia dell'infrazione - e cioè dal giorno 27 gennaio 2010, in cui il datore di lavoro aveva avuto conoscenza dell'assenza ingiustificata del lavoratore - ma dal momento in cui la stessa, per il suo protrarsi, aveva integrato un autonomo e più grave addebito disciplinare. Il motivo è infondato nel caso di specie, vi è stata una successione di contestazioni disciplinari aventi ad oggetto il comportamento assenteista del dipendente la cui gravità, rilevante ai fini dell'adottato provvedimento espulsivo, si è da ultimo palesata, in relazione alle modalità del percorso lavorativo dell’uomo profilatosi nell'arco degli ultimi due anni. Ecco perché il termine è stato fatto correttamente decorrere dal momento in cui l'assenza dal servizio, ulteriormente protrattasi nel tempo, si è delineata non solo quale fatto in sé disciplinarmente rilevante ma anche per le sue conseguenze sulla produttività del dipendente così da integrare un'autonoma e più grave infrazione, non coincidente con le precedenti singole assenze dal servizio. È il Giudice che valuta se il licenziamento è giustificato. Il ricorrente, poi, censura la sentenza impugnata per non aver considerato se la sanzione irrogata fosse proporzionale rispetto a quanto da lui subito l’uomo, infatti, aveva sempre lamentato la mancata assegnazione di una precisa e adeguata posizione di lavoro e i continui trasferimenti. La Cassazione respinge anche tale doglianza e afferma che, nella specie, l’uomo non aveva, in realtà, articolato alcuna contestazione, in fatto, sui periodi di mancata presenza in ufficio ovvero di ripetuta violazione degli orari di lavoro oggetto dell'addebito. Fatti, quindi, dimostrativi del venir meno del vincolo fiduciario, dovendo, altresì, essere esclusa, sulla base di una puntuale disamina degli esiti istruttori, ogni ragione giustificativa dei comportamenti addebitati al predetto. De resto, la Suprema Corte ha già affermato che, pur se il giustificato motivo soggettivo si caratterizza - rispetto alla giusta causa - in quanto ravvisabile in presenza di condotte che, seppure idonee a ledere il vincolo fiduciario, per la loro minore gravità, non legittimano l'interruzione immediata del rapporto e, quindi, sono compatibili con la momentanea prosecuzione dello stesso, non sussistono differenziazioni qualitative fra i due diversi tipi di licenziamento disciplinare, perché il profilo distintivo attiene alla gravità della violazione contrattuale addebitata al dipendente, che è minore nell'ipotesi del licenziamento senza preavviso, pur essendo entrambe le fattispecie accomunate dalla necessità che la sanzione espulsiva sia fondata su inadempimenti contrattuali di entità tale da ledere il vincolo fiduciario posto a fondamento del rapporto, minando l'affidamento che il datore di lavoro deve poter riporre sulla futura correttezza dell'adempimento della prestazione lavorativa. La fiducia, infatti, è fattore che condiziona la permanenza del vincolo contrattuale e può avere un'intensità differenziata a seconda della funzione, della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che le stesse esigono. Elementi, questi, che devono essere tutti apprezzati dal giudice di merito, perché la valutazione sulla gravità dell'inadempimento e sulla proporzionalità della sanzione rispetto all'addebito contestato deve essere espressa tenendo conto, da un lato, dei profili oggettivi e soggettivi della condotta, dall'altro delle caratteristiche proprie del rapporto in relazione al quale va valutata la possibilità o meno della prosecuzione. Per tali motivi il ricorso si intende respinto.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 novembre 2020 – 4 maggio 2021, n. 11635 Presidente Tria – Relatore Marotta Fatti di causa 1. La Corte d’appello di Bari, con sentenza n. 1136/2019, confermava la decisione del Tribunale di Foggia che aveva respinto la domanda proposta, nei confronti dell’ASL di Foggia, da M.G. per ottenere la declaratoria della illegittimità del licenziamento intimatogli con Delib. 2 luglio 2010, n. 1246 e la conseguente condanna della convenuta al risarcimento del danno anche non patrimoniale. Il M. era stato assunto in data 1/12/2006 a tempo indeterminato con la qualifica di operatore tecnico CED per effetto di una procedura di stabilizzazione del personale precario ed era stato licenziato con deliberazione del direttore generale del 2/7/2010 che aveva recepito la proposta dell’Ufficio procedimenti disciplinati ed applicato al dipendente la massima sanzione espulsiva con preavviso ai sensi dell’art. 13, comma 7 lett. e del c.c.n.l. comparto Sanità 2002/2005 e dell’art. 9 del Regolamento disciplinare del personale dipendente dell’ASL di Foggia per continuità, nel biennio, di comportamenti attestanti il perdurare di una situazione di insufficiente scarso rendimento dovuta a negligenza e ad altri fatti dimostrativi della piena incapacità di adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio. Riteneva, in sintesi, la Corte territoriale che non vi fosse alcuna violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4, in quanto, nella progressiva evoluzione delle condotte del dipendente, si era delineato un inadempimento rilevante sotto il differente profilo di una inaffidabile resa lavorativa che aveva comportato l’adozione della più grave sanzione del licenziamento, pur a fronte di fatti che singolarmente valutati non erano stati ritenuti idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario. In conseguenza, il termine previsto a pena di decadenza doveva decorrere dal momento in cui era stata addebitata al M. la condotta come da ultimo complessivamente manifestatasi, che non si era esaurita nella somma delle singole mancanze ma era consistita nel protrarsi di una prestazione insufficientemente produttiva così riteneva che il previsto termine di 120 giorni decorresse dal 15/2/2010 allorché l’assenza del servizio del M. , protrattasi fino a tale data, aveva fatto emergere i connotati di una autonoma e più grave infrazione. Escludeva che vi fosse stata una violazione del ne bis in idem essendo state le precedenti condotte del M. assenze dal servizio diverse dall’autonomo e successivo addebito disciplinare, di talché non poteva esservi alcuna sovrapposizione rispetto al precedente procedimento disciplinare conclusosi con l’archiviazione procedimento che, peraltro, riguardava infrazioni commesse entro il mese di novembre 2009 e cioè prima di quelle considerate nel provvedimento di licenziamento . Quanto al merito, riteneva che i comportamenti posti a base del licenziamento per la loro gravità legittimassero la scelta datoriale per essere stato leso irrimediabilmente il rapporto fiduciario. Escludeva la fondatezza delle giustificazioni addotte dal M. , incentrate su un preteso comportamento mobbizzante ai suoi danni posto in essere dall’Azienda, evidenziando che il dipendente aveva lamentato una mancata presenza operativa all’interno dell’ufficio laddove le contestazioni riguardavano la sua mancata presenza fisica. Condivideva il giudizio del Tribunale relativo all’assenza di un comportamento ritorsivo rilevando che i numerosi e gravi inadempimenti del M. risultavano ampiamente dimostrati ed evidenziava che la riconosciuta sussistenza di tutti i presupposti per il legittimo esercizio della facoltà di recesso ne escludesse l’illiceità per ragioni di rappresaglia. Respingeva anche la domanda risarcitoria formulata dall’appellante con riguardo al preteso mobbing ritenendo il motivo di gravame non solo generico ed inconferente rispetto alle ragioni evidenziate dal Tribunale ma anche infondato alla luce delle risultanze documentali di causa. 4. Per la cassazione della sentenza M.G. ha proposto ricorso sulla base di sei motivi, successivamente illustrati da memoria, cui l’ASL di Foggia ha resistito con controricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4. Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto sposando erroneamente la tesi del giudice di prime cure della giusta causa a formazione progressiva” che i 120 giorni per concludere il procedimento disciplinare decorressero non dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione - e cioè dal giorno 27/1/2010, in cui il datore di lavoro aveva avuto conoscenza dell’assenza ingiustificata del lavoratore - ma dal momento in cui la stessa, per il suo protrarsi, aveva integrato un autonomo e più grave addebito disciplinare. Lamenta, altresì, che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare la sovrapponibilità della contestazione del 15/2/2010 a quella dell’8/2/2010 ai fini del decorso del termine decadenziale. 2. Il motivo è infondato. Come si evince dalla stessa ricostruzione dei fatti di cui alla sentenza impugnata, nella specie, vi è stata una successione di contestazioni disciplinari aventi ad oggetto il comportamento assenteista del dipendente la cui gravità, rilevante ai fini dell’adottato provvedimento espulsivo, si è da ultimo palesata, in relazione alle modalità del percorso lavorativo del M. profilatosi nell’arco degli ultimi due anni, come una situazione riconducibile alle previsioni di cui all’art. 13, comma 7, lett. e del c.c.n.l. Comparto Sanità 2002-2005 ed all’art. 9, lett. e del Regolamento Disciplinare del Personale dipendente dell’ASL di Foggia. Ed allora non può porsi alcuna questione di mancato rispetto del termine decadenziale di 120 giorni decorrente, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4 - nel testo applicabile ratione temporis ed anteriore alla c.d. riforma Madia - dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione atteso che la Corte territoriale lo ha fatto correttamente decorrere dal momento in cui l’assenza dal servizio del M. , ulteriormente protrattasi nel tempo, si è delineata non solo quale fatto in sé disciplinarmente rilevante ma anche per le sue conseguenze sulla produttività del dipendente così da integrare un’autonoma e più grave infrazione, censurabile dall’U.P.D., e cioè dal momento in cui l’U.P.D. è stato posto nelle condizioni di contestare al M. un autonomo addebito disciplinare, non coincidente con le precedenti singole assenze dal servizio. Tale momento è stato individuato, tanto dal giudice di primo grado quanto dalla Corte d’appello, nella data del 15/2/2010, corrispondente alla nota che dava all’Ufficio contezza del nuovo prospettarsi di una condotta antigiuridica e della sua gravità che, peraltro, come rimarcato dalla Corte territoriale, giustificava la stessa competenza dell’U.P.D. . Del resto, secondo quanto da questa Corte già affermato Cass. 20 marzo 2017, n. 7134 , in tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55-bis, comma 4 , in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte Cost. sentenza n. 310 del 5 novembre 2010 , assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione v. anche Cass. 13 luglio 2020, n. 14886 . Non è allora censurabile il ragionamento della Corte territoriale che, sulla base di un accertamento in fatto, ha individuato tale momento nella nota del 15/2/2010 da cui ha fatto decorrere il termine di decadenza. Ad avviso dei giudici di appello, infatti, solo in tale momento si era definita la condotta poi addebitata al M. che non si esauriva nella somma delle singole mancanze ma consisteva nel protrarsi di una prestazione insufficientemente produttiva, laddove lo scarso rendimento sul lavoro è la conseguenza di una presenza in ufficio ingiustificatamente discontinua e comunque determinata da un comportamento negligente e di inosservanza degli obblighi di servizio . Nè d’altra parte sarebbe possibile far decorrere il dies iniziale del termine previsto a pena di decadenza da un momento anteriore rispetto a quello in cui la condotta abbia assunto connotati tali da integrare l’infrazione disciplinare oggetto dell’intrapreso procedimento. Rispetto all’indicata ricostruzione il ricorrente oppone una personale lettura delle note asseritamente rilevanti ai fini dell’individuazione di un termine iniziale di decorrenza diverso assumendo la sovrapponibilità della nota dell’8/2/2010, ed ancor prima della nota del 27/1/2010, rispetto a quella del 15/2/2010 ma tale prospettazione oltre a non essere suffragata dalla riproduzione testuale del contenuto delle note predette - tali note, invero, risultano allegate al ricorso per cassazione soddisfacendo così al requisito di procedibilità ma ciò non esaurisce l’onere posto a carico del ricorrente di redigere in ricorso con modalità tali da offrire alla Corte un quadro immediato, completo e autosufficiente delle censure sulle quali la stessa deve pronunciarsi - scivola, in modo inammissibile, sul piano del merito. Senza dire che neppure risulta denunciata la violazione dei canoni legali di ermeneutica in relazione ai suddetti atti. 3. Con il secondo motivo il ricorrente violazione e falsa applicazione del principio del ne bis in idem ricavabile dal testuale disposto di cui agli artt. 2 e 24 Cost., nonché dall’art. 90 c.p. e art. 39 c.p.c. e art. 2106 c.c Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe violato il principio del ne bis in idem non considerando che i fatti di cui alla contestazione che ha poi portato al provvedimento esclusivo avevano formato oggetto di altro e precedente procedimento disciplinare definito con l’archiviazione. 4. Il motivo è inammissibile. Il ricorrente non ha trascritto il contenuto degli atti cui si fa riferimento e quindi non è dato evincere alcun elemento a sostegno della tesi secondo cui, in relazione a taluni dei fatti complessivamente considerati, sarebbe stato esercitato una seconda volta, per quegli stessi fatti singolarmente considerati, il potere disciplinare ormai consumato. Peraltro, la Corte territoriale, con giudizio di fatto non rivedibile in questa sede, ha accertato che il procedimento disciplinare conclusosi con l’archiviazione riguardava infrazioni commesse entro il mese di novembre 2009 e cioè prima di quelle considerate con il licenziamento anche sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica e comunque in data antecedente alla assunzione a tempo indeterminato . 5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3-5, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., artt. 2119 e 1455 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 3, L. 11 maggio 1990, n. 108. Censura la sentenza impugnata per aver ingiustamente ritenuto legittimo il recesso datoriale sulla base della ritenuta gravità di comportamenti e fatti mai comprovati, ignorando sia la costante attività di rivendicazione del lavoratore nella esecuzione del rapporto lavorativo, sia la prestata acquiescenza dell’ASL quali elementi decisivi per escludere in capo allo stesso ogni qualsivoglia volontà di sottrarsi ingiustamente alla prestazione ed ai compiti dovuti. Rileva che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che la presunta improduttività ovvero l’assenza dal servizio avrebbero dovuto ritenersi una logica e diretta conseguenza dell’impossibilità per l’ASL di destinarlo correttamente ai compiti per i quali era stato assunto. Assume che non sarebbe stato offerto alcun ragionamento sulla decisività di circostanze quali la mancata assegnazione di una adeguata postazione di lavoro, la vera portata degli innumerevoli trasferimenti cui era stato sottoposto, la buona fede del lavoratore impiegata nel cercare sempre, attraverso delucidazioni e chiarimenti, di addivenire con il datore di lavoro ad una equa soluzione della vicenda lavorativa. 6. Il motivo è inammissibile nella parte in cui invoca l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposizione che, per i giudizi di appello instaurati successivamente al trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012 n. 134 pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012 , di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, non può essere denunciato, rispetto ad un appello proposto, come nella specie, dopo la data sopra indicata del richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2 , con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto la sussistenza dei comportamenti posti a base del licenziamento che per la loro gravità avevano legittimato la scelta datoriale di recedere dal rapporto lavorativo per irrimediabile lesione del rapporto fiduciario sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado art. 348 ter c.p.c., u.c. . Ossia il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme v. per tutte Cass. 29 ottobre 2014, n. 23021 nè parte ricorrente, per evitare l’inammissibilità del motivo, indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando come esse siano tra loro diverse Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774 Cass. 10 marzo 2014, n. 5528 . Ciò posto, poiché il fatto così come apprezzato concordemente dai giudici di merito diviene premessa data ed intangibile per questa Corte, sono inammissibili anche le ulteriori censure in cui, variamente, si prospettano formalmente violazioni o false applicazioni di plurime norme che invece, nella sostanza, tendono a criticare la valutazione dei fatti operata dai giudici ai quali compete, come è reso palese dall’ampio riferimento ai materiali istruttori. Secondo principi già noti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma tra le molteplici, Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307 Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348 . Sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata perché è quella che è stata operata dai giudici del merito al contrario, laddove si critichi la ricostruzione della vicenda storica quale risultante dalla sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito di operatività dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e la censura è attratta inevitabilmente nei confini del sindacabile esclusivamente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione tempo per tempo vigente, vizio - qui precluso - che appunto postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti. 7. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, ai sensi degli artt. 2013, 2104, 2105 e 2106 c.c Censura la sentenza impugnata per non aver offerto una chiara e coerente disamina sulla proporzionalità della sanzione irrogata ovvero sulla effettiva e definitiva compromissione del vincolo fiduciario anche in rapporto alla posizione difensiva del M. che aveva lamentato la mancata assegnazione di una precisa e adeguata posizione di lavoro, i continui trasferimenti e, comunque, in rapporto al profilo soggettivo, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto. 8. Anche questo motivo è da disattendere. Sussistono, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, gli stessi profili di inammissibilità evidenziati con riferimento al motivo che precede. Per il resto si osserva che in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo non diversamente da quanto accade per l’ipotesi di giusta causa si è da tempo affermato che spetta unicamente al giudice del merito accertare se i fatti addebitati al lavoratore rivestano il carattere di negazione degli elementi fondamentali del rapporto ed in specie di quello fiduciario e siano tali da meritare il recesso con preavviso. È stato, però, precisato che il giudizio espresso sulla gravità dell’infrazione del lavoratore disciplinarmente sanzionata, in quanto fondato su una norma di legge che sì limita ad indicare un parametro generale di contenuto elastico, presuppone un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, attraverso la quale si dà concretezza alla parte mobile della disposizione per adeguarla ad un determinato contesto storico - sociale. Detto giudizio di valore svolge una funzione integrativa delle regole giuridiche e, quindi, è soggetto al controllo della Corte di legittimità perché le specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge cfr. in relazione al licenziamento per giustificato motivo soggettivo Cass. 8 agosto 2011, n. 17093 in tema di licenziamento per giusta causa si rimanda fra le più recenti a Cass. 17 gennaio 2017, n. 985 e a Cass. 23 settembre 2016, n. 18715 . Il discrimine tra giudizio di fatto e giudizio di diritto va, dunque, individuato tenendo conto della distinzione tra ricostruzione storica assoggettata ad un mero giudizio di fatto e giudizi di valore, sicché ogniqualvolta un giudizio apparentemente di fatto si risolva, in realtà, in un giudizio di valore, si è in presenza d’una interpretazione di diritto, in quanto tale attratta nella sfera d’azione della Corte Suprema Cass. 14 marzo 2013, n. 6501, richiamata da Cass. 16 febbraio 2017, n. 4125 . Esula, pertanto, dal vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e ricade nella diversa ipotesi della falsa applicazione di norme di diritto la censura con la quale, in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, si addebiti alla sentenza impugnata di avere ritenuto la gravità dell’inadempimento sulla base di un’errata interpretazione della disciplina di legge e di contratto e si assuma che la condotta, ricostruita nei termini indicati dal giudice del merito, non sia idonea a giustificare il recesso dal rapporto, perché non riconducibile alla nozione legale di giustificato motivo soggettivo, come enunciata dalla Corte di legittimità. Invero è stato da questa Corte affermato v. Cass. 14 giugno 2018, n. 15640 che, pur se il giustificato motivo soggettivo si caratterizza rispetto alla giusta causa in quanto ravvisabile in presenza di condotte che, seppure idonee a ledere il vincolo fiduciario, per la loro minore gravità, non legittimano l’interruzione immediata del rapporto e, quindi, sono compatibili con la momentanea prosecuzione dello stesso ciò sulla base del combinato disposto dell’art. 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 , non sussistono differenziazioni qualitative fra i due diversi tipi di licenziamento disciplinare, perché il profilo distintivo attiene alla gravità della violazione contrattuale addebitata al dipendente, che è minore nell’ipotesi del licenziamento senza preavviso, pur essendo entrambe le fattispecie accomunate dalla necessità che la sanzione espulsiva sia fondata su inadempimenti contrattuali di entità tale da ledere il vincolo fiduciario posto a fondamento del rapporto, minando l’affidamento che il datore di lavoro deve poter riporre sulla futura correttezza dell’adempimento della prestazione lavorativa. La fiducia, infatti, è fattore che condiziona la permanenza del vincolo contrattuale e può avere un’intensità differenziata a seconda della funzione, della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che le stesse esigono cfr. Cass. 8 giugno 2017, n. 14319 , elementi, questi, che devono essere tutti apprezzati dal giudice di merito, perché la valutazione sulla gravità dell’inadempimento e sulla proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito contestato deve essere espressa tenendo conto, da un lato, dei profili oggettivi e soggettivi della condotta, dall’altro delle caratteristiche proprie del rapporto in relazione al quale va valutata la possibilità o meno della prosecuzione. Vale anche richiamare la trama argomentativa contenuta in un recente arresto di questa Corte che ha analizzato funditus i rapporti tra licenziamento e previsioni disciplinari della contrattazione collettiva v. ex multis Cass. 9 maggio 2019, n. 12365 Cass. 18 maggio 2019, n. 14500 Cass. 19 luglio 2019, n. 19578 Cass. 22 agosto 2019, n. 21628 . Avuto riguardo alle previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, si è più volte espresso il generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di merito ex plurimis, Cass. 4 aprile 2017, n. 8718 Cass. 7 maggio 2015, n. 9223 Cass. 17 giugno 2011, n. 13353 . Nella specie la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione degli indicati principi laddove, premesso che il M. non aveva, in realtà, articolato alcuna contestazione, in fatto, sui periodi di mancata presenza in ufficio ovvero di ripetuta violazione degli orari di lavoro oggetto dell’addebito disciplinare v. pag. 9 della sentenza ha ritenuto che tali fatti fossero dimostrativi del venir meno del vincolo fiduciario, dovendo, altresì, essere esclusa, sulla base di una puntuale disamina degli esiti istruttori, ogni ragione giustificativa dei comportamenti addebitati al predetto. Del pari correttamente la Corte barese, conformemente a quanto, sul punto, affermato dal Tribunale, ha ritenuto che l’addebito disciplinare accertato in sede di relazione dell’U.P.D. consistente, come detto, in un’attività lavorativa che, nell’arco di tempo degli ultimi due anni era stata insufficientemente svolta in termini di produttività e di materiale presenza nei luoghi di lavoro a lui destinati fosse pienamente riconducibile alla previsione pattizia di cui all’art. 13, comma 7, lett. e del c.c.n.l. Comparto Sanità 2002-2005 prevedente il licenziamento con preavviso continuità, nel biennio, dei comportamenti attestanti il perdurare di una situazione di insufficiente scarso rendimento dovuta a comportamento negligente ovvero per qualsiasi fatto grave che dimostri la piena incapacità ad adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio , disposizione il cui contenuto era stato ripreso dall’art. 9, lett. e del Regolamento Disciplinare del Personale dipendente dell’ASL di Foggia. 9. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15, L. n. 108 del 1990, art. 3, art. 1418 c.c., comma 2, artt. 1324, 1343 e 1345 c.c Censura la sentenza impugnata per aver escluso, attraverso una errata ricostruzione dei fatti, che il licenziamento fosse stato il principale ed unico strumento per punire il lavoratore soprattutto a fronte della sua costante rivendicazione di essere adibito alle mansioni di competenza. 10. Il motivo è inammissibile per le stesse ragioni già evidenziate con riguardo ai motivi terzo e quarto. Anche in questo caso il ricorrente pretende una rivalutazione dei fatti di causa, preclusa in sede di legittimità. 11. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., artt. 2097, 2103 c.c., artt. 2 e 32 Cost. e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52. Censura la sentenza impugnata per aver escluso la responsabilità della ASL per i danni non patrimoniali cagionati al lavoratore esclusivamente in rapporto alla mancata specificazione e descrizione delle mansioni per le quali quest’ultimo era stato assunto. Sostiene che i giudici di appello si sarebbero attestati sulla posizione del Tribunale senza alcun autonomo percorso argomentativo. 12. Il motivo non coglie la ratio decidendi in quanto la Corte territoriale ha ritenuto che le critiche dell’appellante non toccassero le ragioni del respingimento della domanda - e cioè la mancata descrizione delle mansioni per l’espletamento delle quali era stato assunto e che a suo dire non avrebbe mai svolto ed ancor più l’esito negativo della prova testimoniale - v. pag. 11 della sentenza . Non è, perciò, affatto vero che la Corte territoriale avrebbe sposato asetticamente quanto affermato dal Tribunale. Peraltro, nella sentenza impugnata vi è una autonoma valutazione delle risultanze documentali v. pag. 12 della sentenza non contrastata con il motivo di ricorso. 13. Il ricorso deve, dunque, essere respinto. 14. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza. 15. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’ASL controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.