Escluso il licenziamento del lavoratore inurbano e scurrile: la minaccia a un sindacalista non può ritenersi grave

Inutile l’azione legale della società. Confermata la decisione con cui i Giudici d’Appello hanno escluso la legittimità del licenziamento. Decisivo il riferimento alle usuali intemperanze verbali del lavoratore.

La – pessima – abitudine del lavoratore a tenere anche in azienda atteggiamenti inurbani, accompagnati da un linguaggio scurrile , rende meno grave le parole forti – con tanto di minacce di morte – rivolte a un rappresentante sindacale durante un’assemblea. Ciò significa che l’episodio non può portare al suo licenziamento, sanciscono i Giudici Cassazione, sentenza n. 28630/20, sez. Lavoro, depositata il 15 dicembre . Il fattaccio ha come scenario lo stabilimento di un’azienda metalmeccanica. Durante un’assemblea un operaio affronta a muso duro un componente della rappresentanza sindacale la loro diversità di opinioni lo spinge a chiedere prima la sostituzione del sindacalista e poi addirittura a minacciarlo di morte. L’episodio viene mal digerito dai vertici della società, che, di conseguenza, sanzionano il dipendente e lo mettono alla porta. Il licenziamento viene confermato solo dai Giudici del Tribunale, mentre i Giudici d’Appello ritengono eccessivo il provvedimento adottato dall’azienda a fronte di un comportamento, quello del dipendente, che va, a loro avviso, rivalutato, ridimensionato e punito con una sanzione che salvi il posto del dipendente. Sia chiaro, nessun dubbio sulle frasi minacciose rivolte dall’operaio all’indirizzo di un componente della RSU aziendale nel corso di un’assemblea . Per i Giudici di secondo grado, però, non si può ignorare il contesto , con particolare riferimento alla circostanza che nel corso dell’assemblea sindacale era in discussione una problematica, sollevata dal lavoratore, sulla quale il componente della RSU era in aperto dissenso , né si può trascurare che i due soggetti già avevano avuto una discussione, all’esito della quale il lavoratore aveva chiesto la sostituzione del rappresentante sindacale . Di conseguenza, per i giudici d’Appello la condotta dell’operaio non è riconducibile alla ipotesi contemplata dal codice disciplinare e sanzionata col licenziamento, poiché non si possono ravvisare né il grave nocumento morale o materiale subito dall’azienda per effetto della condotta del lavoratore né gli estremi del reato nel comportamento del lavoratore , anche tenendo presente che le sue intemperanze verbali, a cui egli è aduso, non potevano riflettere un serio proposito . Tirando le somme, quindi, va escluso il licenziamento. Semmai, secondo i Giudici d’Appello, il comportamento del lavoratore è suscettibile di una sanzione meramente conservativa . Inutile il ricorso proposto in Cassazione dai legali della società. Per i magistrati, difatti, l’operaio può considerare salvo il proprio posto di lavoro. Rilevante la ricostruzione dell’episodio verificatosi nello stabilimento. Decisiva, però, la constatazione della non serietà della minaccia di morte proferita dal lavoratore nei confronti del rappresentante sindacale . Tale condotta è, secondo i Giudici, da inquadrare piuttosto nell’abitudine del lavoratore ad atteggiamenti inurbani e ad un linguaggio scurrile . Ciò significa che ci si trova di fronte a un comportamento inidoneo ad integrare gli estremi del reato e ad arrecare nocumento morale e materiale alla società . Secondo i magistrati, quindi, l’episodio va inquadrato nella categoria dei comportamenti contrari alla correttezza delle relazioni personali in ambito aziendale , comportamenti che vengono sanzionati, contratto collettivo nazionale alla mano, con l’irrogazione di una sanzione conservativa .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 ottobre – 15 dicembre 2020, n. 28630 Presidente Raimondi – Relatore De Marinis Fatti di causa Con sentenza del 15 febbraio 2018, la Corte d'Appello di Trento, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Rovereto, accoglieva la domanda proposta da Va. Di. nei confronti della Meccanica Cainelli S.r.l., avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato al Di. dalla Società datrice, ai sensi dell'art. 10, lett. B, del CCNL per le imprese metalmeccaniche del 15.10.2009, per aver proferito frasi minacciose all'indirizzo di un componente della RSU aziendale nel corso di una assemblea. La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto di dover dare rilievo al contesto in cui si era verificato l'accaduto ed in particolare alla circostanza che, nel corso dell'assemblea sindacale, era in discussione una problematica, sollevata dallo stesso Di., sulla quale il componente della RSU era in aperto dissenso, tanto che i due già avevano avuto una discussione all'esito della quale il Di. aveva chiesto la sostituzione del rappresentante sindacale, non riconducibile, in relazione a ciò, la condotta del Di. alla ipotesi contemplata dal codice disciplinare in base alla quale era stata mossa la contestazione, non ravvisandosi né il grave nocumento morale o materiale subito dall'azienda per effetto della condotta né gli estremi del reato nel comportamento del Di., atteso che le sue intemperanze verbali, per essere egli aduso alle stesse, non potevano riflettere un serio proposito, ma semmai tale da risultare ricompresa nella fattispecie di cui all'art. 9 del CCNL applicabile, suscettibile tuttavia di una sanzione meramente conservativa. Per la cassazione di tale decisione ricorre la Società, affidando l'impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, il Di Ragioni della decisione Con il primo motivo, la Società ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli articolo 18, comma 4, L. n. 300/1970, come novellato dalla L. n. 92/2012 e 10, lett. B , CCNL per le imprese metal meccaniche del 15.10.2009, lamenta la non conformità a diritto della pronunzia resa dalla Corte territoriale per aver applicato il regime sanzionatorio della tutela reale del posto di lavoro pur a fronte della ricorrenza del fatto nella sua materialità. Con il secondo motivo, posto sotto la medesima rubrica, la Società ricorrente lamenta l'incongruità dell'iter logico-argomentativo dalla Corte territoriale posto a base della pronunzia resa, inficiato dall'omessa considerazione della rilevanza agli effetti dell'ipotesi di cui al codice disciplinare posta a base della contestazione di qualsiasi condotta che sia in connessione con il rapporto di lavoro. Nel terzo motivo la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e delle norme di legge e di contratto di cui ai precedenti motivi è prospettata in relazione all'asserita erroneità del convincimento in base al quale la Corte territoriale esclude la ravvisabilità nella specie di un nocumento morale o materiale in danno della Società ricorrente. Con il quarto motivo, rubricato in termini identici al primo ed al secondo motivo, la Società ricorrente censura il convincimento espresso dalla Corte territoriale circa la riconducibilità della condotta all'ipotesi qualificata come disciplinarmente rilevante dall'art. 9 del CCNL applicabile ma suscettibile di una sanzione meramente conservativa. I quattro motivi, che, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, si rivelano infondati, dovendosi ritenere, contrariamente a quanto prospettato dalla Società ricorrente nella propria impugnazione, la piena coerenza con l'accertamento istruttorio eseguito della ricostruzione in fatto accolta dalla Corte territoriale, incentrata sulla non serietà della minaccia di morte proferita dal lavoratore nei confronti del rappresentante sindacale, da inquadrare piuttosto nell'abitudine del lavoratore medesimo ad atteggiamenti inurbani e ad un linguaggio scurrile, la conseguente plausibilità logica e giuridica del giudizio inteso ad escludere, stante l'inidoneità del comportamento ad integrare gli estremi del reato e così ad arrecare nocumento morale e materiale alla Società datrice, la riconducibilità del fatto medesimo alla fattispecie astratta contemplata dal codice disciplinare di cui al CCNL applicato ed invocata dalla Società, la sussumibilità del fatto medesimo in altra fattispecie, peraltro non fatta oggetto di contestazione disciplinare da parte della Società, intesa a punire comportamenti contrari alla correttezza delle relazioni personali in ambito aziendale, per la quale il medesimo CCNL prevede l'irrogazione di una sanzione conservativa, la conformità a diritto della valutazione, resa dalla Corte territoriale ed incidente sul regime sanzionatorio applicabile alla Società in ragione dell'illegittimità del recesso intimato, in termini di insussistenza del fatto materiale , da intendersi, in coerenza con l'orientamento invalso nella giurisprudenza di questa Corte, come fatto disciplinarmente rilevante e così da risolversi nel comportamento astrattamente inadempiente corrispondente a quello considerato nella disposizione del codice disciplinare su cui si fonda la contestazione disciplinare elevata Il ricorso va, dunque, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.