Niente mansioni sedentarie per il dipendente disabile: legittimo l’operato dell’azienda

Respinte le contestazioni mosse dal lavoratore. Per i Giudici è decisiva la constatazione che le mansioni a lui assegnate erano compatibili e congrue poiché svolte in condizioni di sicurezza.

Nessuna sanzione per l’azienda che al dipendente disabile non affida mansioni sedentarie. Per i Giudici, invece, ciò che conta è che i compiti assegnati al lavoratore siano congrui e svolti in sicurezza Cassazione, ordinanza n. 25396/20, depositata l’11 novembre . All’origine della vicenda giudiziaria vi è la richiesta del lavoratore disabile , dipendente di una società, di ottenere un adeguato ristoro economico per le presunte condotte illegittime dell’azienda. In particolare, egli punta al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente all’adibizione a mansioni incompatibili con la propria condizione di accertata disabilità e chiede allo stesso tempo l’emanazione di un provvedimento organizzativo che lo ricollochi in una posizione lavorativa idonea e dignitosa . Per i Giudici di merito, però, alla società datrice di lavoro non è addebitabile alcuna azione illegittima. In particolare, viene catalogata come congrua la posizione assegnata al lavoratore, poiché svolta con l’uso di opportuni dispositivi di protezione individuale, segnatamente dei guanti ad alto scorrimento . Secondo i Giudici, quindi, preso atto delle condizioni di salute del lavoratore, è emersa la congruità delle mansioni offertegli, anche sotto il profilo della peculiare modalità di sicura esecuzione delle mansioni stesse . A corroborare questa visione anche la consulenza medico-legale, secondo cui è evidente la compatibilità dell’impiego prospettato dalla società . Di conseguenza, manca, secondo i Giudici di merito, la prova di condotte illegittime dell’azienda ai danni del dipendente. Il lavoratore contesta, ovviamente, la decisione favorevole all’azienda. Ecco spiegato il ricorso in Cassazione, ricorso con cui imputa ai Giudici di secondo grado, tramite il proprio legale, di aver disatteso la regola che deriva dalla disciplina posta a tutela del lavoro degli invalidi nella specie data ratione temporis dalla l. n. 482/1968 e che impone all’impresa l’inserzione dell’invalido in mansioni non operative , onerando l’impresa stessa della prova dell’impossibilità di adeguarsi ad essa . Secondo il legale, poi, in Appello è stato compiuto un altro errore, poiché si è caricato sul suo cliente l’onere di indicare le posizioni di lavoro disponibili che sarebbero risultate rispettose dell’obbligo prospettato a carico della società datrice, facendone discendere, in difetto di tale allegazione, l’inammissibilità della pretesa . Allo stesso tempo, viene censurato dal legale anche il ragionamento con cui i Giudici di merito hanno rigettato la domanda di risarcimento del danno, sostenendo il difetto di condotte illegittime, causative della lesione e ciò sulla base del rilievo per cui tutte le mansioni affidate al lavoratore, siccome ontologicamente diverse e contrastanti con le mansioni sedentarie all’invalido riservate per legge, dovrebbero considerarsi illegittime ed espressione di un diffuso inadempimento del datore . Chiaro l’assunto proposto dal legale del lavoratore quest’ultimo avrebbe avuto diritto, sin dalla data della sua assunzione, all’adibizione a mansioni sedentarie, con onere a carico dell’impresa di provarne l’impossibilità . Dalla Cassazione ribattono però che il richiamato assunto è smentito dalla stessa previsione invocata, l’art. 20 l. n. 482/1968, del resto poi ribadita dall’art. 10, l. n. 68/1999, secondo cui è in facoltà al datore di adibire il prestatore invalido a mansioni diverse da quelle per le quali fu assunto, purché compatibili con le condizioni di salute dell’invalido . Di conseguenza, correttamente è stato ritenuto legittimo l’operato dell’azienda, una volta preso atto della compatibilità delle mansioni offerte con lo stato di invalidità del lavoratore, compatibilità emersa con chiarezza dalla consulenza medico-legale. Tirando le somme, nessun addebito è possibile nei confronti della società datrice di lavoro, e priva di fondamento è la richiesta del dipendente di vedersi riconosciuta l’assegnazioni a mansioni diverse .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 13 luglio – 11 novembre 2020, n. 25396 Presidente Raimondi – Relatore De Marinis Rilevato - che, con sentenza del 21 aprile 2016, la Corte d'Appello di Perugia, confermava la decisione resa dal Tribunale di Terni che sulle domande proposte da An. Br. nei confronti di Alcantara S.p.A. e UnipolSai Assicurazioni S.p.A. già UGF Assicurazioni S.p.A. da quest'ultima chiamata in causa, domande aventi ad oggetto la condanna della Società datrice al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente all'adibizione del Br. a mansioni da accertarsi come incompatibili con la propria condizione di accertata disabilità nonché all'emanazione di un provvedimento organizzativo che ne consentisse la ricollocazione in una posizione lavorativa idonea e dignitosa, aveva riconosciuto congrua la posizione di operatore attività ausiliarie sviluppo colore assegnata al Br. dalla Società datrice ove svolta con l'uso di opportuni dispositivi di protezione individuale, segnatamente dei guanti ad alto scorrimento e limitato, pertanto, il danno non patrimoniale derivato al Br. dalla sindrome del tunnel carpale di origine professionale con il rigetto della domanda di manleva proposta dalla Società a carico della compagnia assicurativa per essere la malattia professionale sorta in epoca antecedente alla stipula del contratto di assicurazione - che la decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto infondata l'eccezione di inammissibilità per genericità del ricorso in appello del Br. sollevata dalla Società, infondate le eccezioni del Br. in ordine alla nullità della sentenza, sia quella sollevata per omessa lettura del dispositivo in udienza, viceversa risultante dal provvedimento impugnato, sia quella sollevata per mancanza di contestualità tra dispositivo e motivazione, contraria al testo della norma nonché quella relativa all'errar in procedendo dato dalla immotivata mancata ammissione della prova testimoniale da parte del primo giudice, viceversa ampiamente argomentata, ed, altresì, infondate o inammissibili le censure nel merito della pronunzia di primo grado date dall'aver il Tribunale omesso di considerare le condizioni di salute del ricorrente ai fini della valutazione della congruità delle mansioni offertegli, viceversa presa in considerazione anche sotto il profilo della peculiare modalità di sicura esecuzione della mansione stessa, dall'adesione acritica alle conclusioni dell'espletata CTU medico-legale che sancivano la compatibilità dell'impiego prospettato dalla Società, dalla conseguente statuita congruità della posizione lavorativa offertagli, dalla mancata liquidazione dei danni rivendicati, esclusa in ragione della mancata prova delle condotte illegittime da cui sarebbero derivate - che per la cassazione di tale decisione ricorre il Br., affidando l'impugnazione a due motivi, cui resistono, con controricorso, sia l'Alcantara S.p.A. sia la UnipolSai S.p.A. - che tutte le parti hanno poi presentato memoria Considerato che, con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 20 L. n. 482/1968, 2103, 2697 e 2729 c.c., imputa alla Corte territoriale l'aver disatteso la regola che assume derivare dalla disciplina posta a tutela del lavoro degli invalidi, nella specie data ratione temporis dall'invocata legge n. 482/1968, che impone all'impresa l'inserzione dell'invalido in mansioni non operative, onerando l'impresa stessa della prova dell'impossibilità di adeguarsi ad essa e l'essere incorsa, altresì, nel gravare il ricorrente dell'onere di indicare le posizioni di lavoro disponibili che sarebbero risultate rispettose dell'obbligo prospettato a carico della Società datrice e facendone discendere, in difetto di tale allegazione, l'inammissibilità della pretesa, nel malgoverno della regola sulla distribuzione degli oneri probatori - che, con il secondo motivo, denunziando la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 432 c.p.comma 1226, 2697 e 2729 c.c., il ricorrente, imputa alla Corte territoriale di aver erroneamente rigettato la domanda di risarcimento del danno motivato dal difetto di condotte illegittime, causative del medesimo e ciò sulla base del rilievo per cui tutte le mansioni affidate al ricorrente, siccome ontologicamente diverse e contrastanti con le mansioni sedentarie all'invalido riservate per legge, dovrebbero considerarsi illegittime ed espressione di un diffuso inadempimento del datore - che entrambi i motivi, i quali possono essere qui trattati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, per essere parimenti fondati sull'assunto per cui, per legge, il ricorrente avrebbe avuto diritto, sin dalla data della sua assunzione, all'adibizione a mansioni sedentarie, con onere a carico dell'impresa di provarne l'impossibilità, onere nella specie illegittimamente rovesciato a carico del ricorrente gravato dell'allegazione e della prova dell'esistenza di posizioni lavorative di quel tipo, error in procedendo che ha finito per condizionare l'espletata CTU, limitata nell'accertamento della disponibilità nel tempo di quelle posizioni e inibita negli effetti connessi alla verifica dell'attuale disponibilità di quelle posizioni in ragione del difetto di allegazione, devono ritenersi infondati, per essere il richiamato assunto smentito dalla stessa previsione invocata, l'art. 20 L. n. 482/1968, del resto poi ribadita dall'art. 10, L. n. 68/1999, secondo cui è in facoltà al datore di adibire il prestatore invalido a mansioni diverse da quelle per le quali fu assunto purché compatibili con le condizioni di salute dell'invalido, previsione che legittima le scelte procedurali dei giudici del merito quanto all'accertamento compiuto, incentrato sulla compatibilità delle mansioni offerte con lo stato di invalidità, emersa con chiarezza dall'espletata CTU, legittimazione da cui discende la correttezza della gestione dell'onere probatorio, posto sotto tale profilo a carico della Società datrice, della valutazione circa l'inconfigurabilità di condotte illegittime della Società, della qualificazione in termini di inammissibilità della pretesa all'assegnazione a mansioni diverse a fronte della mancata contestazione della compatibilità di quelle offerte - che il ricorso va, dunque, rigettato - che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento in favore di ciascuno dei contro ricorrenti delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.